VII. Miserie e croci

Fin qui abbiamo seguito passo passo quest’azione borghese, senza mettere più tempo a raccontarla di quanto essa ne abbia impiegato a svilupparsi; e ora, nonostante il nostro rispetto, o piuttosto la nostra profonda venerazione per le unità anche nel romanzo, ci vediamo costretti a far compiere, ad una delle tre, un salto di alcuni giorni. Le tribolazioni di Eustachio riguardo al suo futuro nipote sarebbero forse molto curiose, se le raccontassimo, ma furono tuttavia meno amare di quanto avreste potuto giudicare. Eustachio si rassicurò ben presto sui sentimenti della fidanzata: Javotte aveva soltanto conservato un’impressione un po‘ troppo viva dei ricordi d’infanzia, che, in una vita così poco movimentata come la sua, assumevano un’importanza smisurata. Nell’archibugiere a cavallo, aveva veduto soltanto il ragazzo allegro e rumoroso, il vecchio compagno di giuochi; ma non tardò ad accorgersi che quel bambino era cresciuto, e si comportava diversamente, e diventò più riservata con lui.

Quanto al militare, a parte qualche abituale familiarità, non dimostrava verso la giovane zia intenzioni peccaminose; egli apparteneva a quella categoria di persone a cui le donne oneste non ispirano desideri e, in quel momento, diceva come Tabarin che “la sua amica era la bottiglia”. Durante i primi tre giorni dopo il suo arrivo, non lasciò mai Javotte, e la sera la conduceva anche al Corso della Regina, accompagnata soltanto dalla grossa serva di casa, con gran dispiacere di Eustachio. Ma la cosa non durò molto; l’archibugiere non tardò ad annoiarsi della compagnia di Javotte e prese l’abitudine di uscire da solo tutto il giorno, conservando tuttavia l’attenzione di rientrare all’ora dei pasti.

La sola cosa che inquietava Eustachio, era di vedere questo parente sistemato così bene nella sua futura casa che sembrava difficile poterlo allontanare con la dolcezza, tanto pareva insediarsi ogni giorno più solidamente. Nondimeno era soltanto un nipote acquistato di Javotte, poiché era nato da una figlia che la defunta sposa di mastro Goubard aveva avuto dal suo primo matrimonio.

Ma come fargli comprendere che tendeva ad esagerare l’importanza dei legami di famiglia e che riguardo ai diritti e ai privilegi della parentela, aveva delle idee troppo larghe, troppo decise, ed in qualche modo, troppo patriarcali?

Era tuttavia probabile che lui stesso si sarebbe presto accorto della sua indiscrezione, ed Eustachio decise di aver pazienza “come le dame di Fontainebleau, quando la corte è a Parigi”, come dice il proverbio.

Ma, anche dopo le nozze, le abitudini dell’archibugiere a cavallo non cambiarono affatto; egli fece anzi sperare che, grazie alla tranquillità dei croquants, sarebbe potuto restare a Parigi fino all’arrivo del suo squadrone. Eustachio tentò alcune allusioni epigrammatiche al fatto che certe persone prendevano le botteghe per delle osterie, ed altre che non furono capite, o sembrarono troppo deboli; del resto, non osava ancora parlarne apertamente a sua moglie e a suo suocero, non volendo darsi l’aria, nei primi giorni del matrimonio, di persona interessata, lui che doveva tutto a loro.

La compagnia del soldato non era poi troppo divertente: la sua bocca era la perpetua campana della sua gloria, che per metà era fondata sui trionfi nei duelli che facevano di lui il terrore dell’esercito, e per metà sulle sue prodezze contro i “briganti”, gli infelici contadini francesi a cui i soldati del re Enrico facevano guerra perché non avevano potuto pagare la tassa, e che non parevano troppo vicini a godere la famosa “gallina in pentola”…

Questa eccessiva millanteria era allora molto comune, come nei tipi dei Tagliabraccia e dei Capitan Matamoros, riprodotti incessantemente nelle opere comiche dell’epoca, e deve essere attribuita, io penso, all’irruzione vittoriosa della Guascogna a Parigi, al seguito del Navarrino. Questa bizzarria, diffondendosi, si indebolì ben presto e, alcuni anni dopo, il barone di Fœneste ne fu il ritratto già molto addolcito, ma di una comicità più perfetta; infine la commedia del Menteur, nel 1662, lo mostrò ridotto a delle proporzioni quasi comuni.

Ma quello che irritava di più il buon Eustachio, era la continua tendenza del militare a trattarlo come un ragazzetto, a mettere in evidenza i lati più sfavorevoli del suo aspetto ed infine a dargli in ogni occasione, davanti a Javotte, un’aria ridicola, molto svantaggiosa per lui in quei primi giorni di matrimonio, in cui un novello sposo ha bisogno di stabilirsi su un piede di rispettabilità e di prendere posizione per l’avvenire; aggiungete poi che ci voleva ben poco a ferire l’amor proprio così recente e così rigido ancora di un uomo appena stabilito in bottega, patentato e giurato.

Un’ultima tribolazione non tardò a colmare la misura. Siccome Eustachio doveva far parte della guardia del Corpo dei mestieri e non voleva, come il buon mastro Goubard, prestare servizio in abito borghese e con una alabarda presa in prestito dal capitano del quartiere, aveva comprato una spada a coccia ma senza più coccia, una celata e un ghiazzerino in rame rosso già minacciato dal martello del calderaio e, dopo essere stato tre giorni a pulirli e a forbirli, riuscì a dar loro un certo lustro; ma quando li indossò e si mise a passeggiare fieramente nella sua bottega chiedendo se stava bene con la sua armatura, l’archibugiere cominciò a ridere come “un mucchio di mosche al sole” e gli disse che pareva uno che avesse addosso la batteria di cucina.