Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
L’UOMO DELLA SABBIA
(Der Sandmann, 1817)
È il più celebre racconto di Hoffmann; è stata la fonte principale dell’opera di Offenbach; ha dato lo spunto a un saggio di Freud sul “perturbante”. Scegliere un racconto nella vasta opera di Hoffmann è difficile: se mi fermo su Der Sandmann non è per confermare la scelta più ovvia, ma perché questo mi sembra veramente il più rappresentativo racconto del massimo autore fantastico dell'Ottocento (1766-1822), il più ricco di suggestione e il più forte come tenuta narrativa. La scoperta dell’inconscio avviene qui, nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne venga data una definizione teorica.
Gli incubi infantili di Nataniele – che identifica il babau evocato dalla madre per mandarlo a dormire col sinistro personaggio dell’avvocato Coppelius, amico del padre, e si persuade che questi sia l’orco che strappa gli occhi ai bambini – continuano ad accompagnarlo da adulto. Mentre egli è studente in città, crede di riconoscere Coppelius nel piemontese Coppola, venditore di barometri e di occhiali. L’amore per la figlia del professor Spallanzani, Olimpia, che tutti credono una ragazza mentre invece è un manichino (anche questo tema, l’automa, la bambola, diventerà ricorrente nella narrativa fantastica), viene sconvolto da nuove apparizioni di Coppola-Coppelius fino alla pazzia di Nataniele.
Nataniele a Lotario
Certo sarete tutti inquieti perché non scrivo, da tanto tanto tempo. La mamma sarà indignata e Clara crederà forse che io faccia qui la vita di michelaccio e abbia del tutto dimenticato il mio angiolo soave che mi è tanto profondamente impresso nel cuore e nella mente. Ma non è così: non passa giorno, non passa ora che io non pensi a voi tutti, e nei miei sogni mi appare la gentile figura della mia dolce Claretta e mi sorride dagli occhi limpidi con quella grazia che aveva quando entravo in casa vostra. Ahimè, come potevo scrivervi, con l’animo straziato che mi sconvolgeva in questi tempi ogni pensiero!
Nella mia vita si è insinuata una cosa spaventevole. Oscuri presentimenti di un destino orribile che mi sovrasta si librano sulla mia testa come ombre nere di nuvole impenetrabili a ogni raggio di sole. Ora devo dirti quel che mi è capitato. Lo devo, lo capisco, ma al solo pensiero mi esce dal petto una risata folle. O mio carissimo Lotario, non so come incominciare per farti sentire almeno in parte come ciò che mi è toccato alcuni giorni or sono abbia potuto veramente distruggere la mia vita. Se tu fossi qui, potresti vedere coi tuoi occhi; così invece mi prenderai certamente per un visionario farneticante. Per farla breve, la cosa orrenda che mi è capitata (e invano mi sforzo di allontanarne l’impressione mortale) consiste in questo: che alcuni giorni fa, il 30 di ottobre, esattamente a mezzogiorno, un venditore di barometri entrò nella mia stanza e mi offerse la sua merce. Io non comprai nulla e minacciai di buttarlo giù dalle scale: dopo di che se ne andò da sé.
Tu intuisci che questo fatto può avere importanza soltanto per rapporti particolari che incidono profondamente nella mia vita, e che quello sciagurato venditore deve avere su di me influenze deleterie. Così è infatti. Ora lasciami raccogliere tutte le mie forze per narrarti con calma e pazienza quel tanto della mia giovinezza che possa presentarti le cose con chiarezza e precisione in vivide imagini. Ma mentre sto per incominciare mi par di sentirti ridere e di udire Clara che dice: “Che fanciullaggini!”.
Ridete, vi prego, ridete pure di me! Ma, santo Dio, i capelli mi si rizzano sulla testa e mi sembra che questo mio invito a deridermi sia fatto nella follia della disperazione, come quello di Francesco Moor a Daniele. Ma veniamo ai fatti!
Oltre che alla colazione di mezzogiorno io e mia sorella vedevamo molto poco il babbo durante la giornata. Doveva aver molto da fare in ufficio. Dopo la cena che, secondo una vecchia consuetudine, era messa in tavola già alle sette, tutti noi con la mamma andavamo nello studio del babbo e sedevamo intorno a una tavola rotonda. Il babbo fumava e si beveva un bicchierone di birra. Molte volte ci raccontava storie meravigliose e vi s’infervorava talmente che la pipa gli si spegneva e io dovevo riaccenderla accostando al fuoco un pezzo di carta: che era per me un grande divertimento. Spesso invece ci metteva davanti libri illustrati, se ne stava muto e pensieroso nel seggiolone a braccioli e soffiava grandi nuvole di fumo, sicché ci pareva di essere in mezzo alla nebbia. In quelle sere la mamma era molto triste e appena suonavano le nove ci diceva: «Su, ragazzi, a letto! a letto! Viene l’uomo della sabbia, mi par di vederlo».
E realmente ogni volta sentivo un passo lento e pesante che montava la scala: doveva essere l’uomo della sabbia. Una volta quei passi cupi e rintronanti mi misero i brividi; e alla mamma che mi conduceva via domandai: «Di‘, mamma, chi è poi quel cattivo uomo della sabbia che ci allontana sempre dal babbo? Come è fatto?».
«Caro figliolo, l’uomo della sabbia non esiste» mi rispose la mamma. «Quando dico che viene l’uomo della sabbia, voglio dire soltanto che siete assonnati e non potete più tenere gli occhi aperti come vi ci avessero buttato una manciata di sabbia.»
La risposta della mamma non mi accontentò, anzi nella mia mente infantile sorse chiaramente il pensiero che la mamma negasse l’esistenza dell’uomo della sabbia soltanto perché non avessimo paura: tant’è vero che lo sentivo sempre salire la scala. Incuriosito, e desiderando di sapere di più sul conto dell’uomo della sabbia e dei suoi rapporti con noi ragazzi, domandai infine alla vecchia cui era affidata la mia sorellina minore che uomo fosse mai quello della sabbia.
«Oh, Niele» rispose costei «non lo sai ancora? È un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro manciate di sabbia negli occhi fino a farglieli schizzare dalla testa: poi li prende così sanguinanti, li mette in un sacco e li porta nella luna in pasto ai suoi figlioletti; questi stanno lassù in un nido e hanno il becco curvo come le civette e con questo beccano gli occhi dei bambini cattivi.»
Nella mia mente si disegnò l’orribile imagine di quell’uomo crudele; e quando la sera lo udivo salire, tremavo dall’angoscia e dal terrore. Mia madre non poteva cavarmi di bocca altro che queste parole balbettate fra le lacrime: «L’uomo della sabbia! L’uomo della sabbia!».
E correvo nella stanza da letto e mi torturavo tutta la notte con la paurosa visione dell’uomo della sabbia.
Quando fui abbastanza grande per capire che quella faccenda dell’uomo della sabbia e della sua nidiata di figlioli nella luna, come aveva detto la governante, non doveva essere una cosa vera, l’uomo della sabbia continuò ad essere per me un orrido fantasma, e io continuai a provare spavento e raccapriccio non solo quando lo udivo salire dalla scala, ma anche sentendo che apriva la stanza di mio padre e vi entrava. Qualche volta rimaneva assente a lungo, ma poi veniva più volte di seguito.
Così si andò avanti per parecchi anni e io non riuscivo ad assuefarmi, né a vincere la paura di quello spettro la cui imagine non impallidiva nella mia mente. I contatti del pauroso uomo della sabbia con mio padre agitavano sempre più la mia fantasia; un ritegno invincibile mi impediva di chiedere informazioni al babbo, ma con gli anni sorse sempre più viva in me la voglia di indagare da me stesso il mistero e di vedere il favoloso uomo della sabbia. Questi mi aveva messo sulla strada dell’avventura, delle cose meravigliose che tanto facilmente si annidano nell’animo infantile. Nulla mi piaceva tanto quanto ascoltare o leggere storie raccapriccianti di folletti, di streghe, di pollicini ecc. Ma in cima a tutto stava l’uomo della sabbia che andavo disegnando, negli atteggiamenti più strani e più ripugnanti, col gesso e col carbone su tutte le tavole, sugli armadi, sulle pareti.
Quando ebbi compiuto i dieci anni, mia madre mi passò dalla stanza dei bambini in una cameretta che si apriva sul corridoio vicino alla camera del babbo. Come sempre quando suonavano le nove e quello sconosciuto si faceva sentire in casa, dovevamo allontanarci senza indugio. Dalla mia cameretta lo udivo entrare dal babbo e poco dopo mi sembrava che per la casa si diffondesse un fumo sottile di odore strano. Con la curiosità andava crescendo anche il mio coraggio di fare in qualche modo la conoscenza dell’uomo della sabbia. Spesso sgusciavo dalla cameretta sul corridoio non appena la mamma era passata oltre, ma non riuscivo a scoprire nulla perché, quando arrivavo al punto da dove avrei dovuto vederlo, l’uomo della sabbia si era già infilato nella stanza del babbo. Infine, spinto da una smania irresistibile, decisi di nascondermi in quella stanza e di aspettarvi lo sconosciuto.
Una sera capii dal silenzio di mio padre e dalla tristezza della mamma che l’uomo della sabbia sarebbe arrivato; mi finsi molto stanco, lasciai la stanza prima delle nove e mi acquattai in un angolino presso la porta. Il portone di casa cigolò e passi lenti e pesanti rintronarono dal vestibolo verso la scala. Mia madre mi passò davanti con mia sorella. Piano piano aprii la stanza del babbo, il quale se ne stava seduto come al solito muto e rigido; volgeva le spalle alla porta e non si accorse di me che entravo rapidamente e mi infilavo dietro la tendina tirata davanti a un armadio aperto dove il babbo teneva gli abiti. Sempre più vicino… sempre più vicino suonavano quei passi.. un tossire di fuori, uno strisciar di piedi e uno strano borbottìo. Il cuore mi tremava nell’attesa angosciosa. Ed ecco un passo proprio davanti la porta… un colpo violento sulla maniglia… la porta si spalanca! Raccogliendo tutto il mio coraggio sporgo la testa con cautela. L’uomo della sabbia è nel mezzo della stanza davanti a mio padre, la luce delle candele gli illumina la faccia. L’uomo della sabbia, il terribile uomo della sabbia è il vecchio avvocato Coppelius che qualche volta viene da noi a colazione!
Ma la figura più mostruosa non avrebbe potuto spaventarmi come quel Coppelius. Figurati un uomo alto dalle spalle larghe, con un testone informe, la faccia terrea, le sopracciglia grigie e folte, di sotto le quali scintillano due occhi da gatto verdastri e pungenti, il gran naso pendente sul labbro superiore. La sua bocca torta si atteggia spesso a un riso beffardo; e allora gli appaiono sulle guance alcune macchioline scarlatte, e un sibilo strano gli passa tra i denti stretti. Coppelius compariva sempre con una giacca color cenere di taglio antico, il panciotto e i calzoni dello stesso colore, ma portava le calze nere e le scarpe con fibbie ornate di pietre. La piccola parrucca gli copriva il cocuzzolo, i cernecchi gli stavano appiccicati sopra le grandi orecchie rosse e una grossa reticella per i capelli gli sporgeva dalla nuca lasciando scorgere il fermaglio d’argento che teneva fissa la cravatta pieghettata. Tutta la sua persona era antipatica e odiosa; ma a noi ragazzi davano disgusto specialmente le sue manacce nodose e pelose; al punto che rifiutavamo tutto ciò che egli toccava. Se n’era accorto e si divertiva a toccare con qualche pretesto o un pezzetto di torta o un frutto maturo che la nostra buona mamma ci metteva nel piatto, sicché dallo schifo e dal ribrezzo, con le lacrime agli occhi, rinunciavamo alle ghiottonerie che dovevano darci gioia. E faceva lo stesso nei giorni di festa quando il babbo ci mesceva un bicchierino di vin dolce: quello vi posava rapidamente la mano o si portava addirittura il bicchierino alle labbra paonazze e livide e si faceva le sue risate diaboliche quando noi non potevamo esprimere il nostro dispetto se non con singhiozzi sommessi. Ci chiamava sempre “le bestiole”; quando c’era lui, non dovevamo dire una parola e non potevamo che maledire quell’uomo brutto e cattivo che ci guastava apposta anche il piacere più innocente. Mia madre pareva che odiasse quanto noi quell’antipatico Coppelius; appena infatti egli si faceva vedere, la serenità di lei, la sua natura gaia e ingenua si tramutava in tristezza cupa e severa. Mio padre invece lo trattava come fosse un essere superiore, del quale si debbano sopportare le sgarberie e cercar di tener alto il buon umore. Bastava che quello facesse un’allusione e tosto si preparavano cibi prelibati e si mescevano vini rari.
Appena dunque vidi Coppelius, provai orrore e raccapriccio, poiché l’uomo della sabbia non poteva essere che lui; e non era più lo spauracchio della fiaba della governante, quello che veniva a prendersi gli occhi dei bambini da dare in pasto alle civette nella luna… tutt’altro… Era un mostro orribile e fantastico, un orco che dovunque arrivava seminava dolori e miserie… rovine temporanee e perpetue.
Rimasi affascinato. A rischio di essere scoperto e punito severamente rimasi al mio posto sporgendo la testa dalla tendina, in ascolto. Mio padre accolse Coppelius con fare cerimonioso. «Su, all’opera!» esclamò quest’ultimo con voce roca e stridula, levandosi la giubba. Il babbo si tolse anche lui la veste da notte in cupo silenzio, e tutti e due indossarono lunghe tuniche nere. Dove le prendessero non potei vedere. Mio padre aprì i battenti d’un armadio a muro; ma quello che per tanto tempo avevo ritenuto un armadio era invece una caverna nera nella quale sorgeva un piccolo focolare. Coppelius si avvicinò e suscitò una fiamma azzurra e scoppiettante. Intorno c’erano strani oggetti. Dio mio, com’era trasfigurato mio padre mentre si chinava sul fuoco! Si sarebbe detto che un dolore orribile e lancinante avesse stravolto i suoi lineamenti dolci e onesti trasformandolo in un demonio brutto e ripugnante. Assomigliava a Coppelius, il quale con le tenaglie incandescenti toglieva dal fumo denso sostanze sfavillanti che poi martellava furiosamente. Mi pareva di vedere intorno tanti volti umani, ma senza occhi: al posto degli occhi erano cavità nere e profonde. «Qua gli occhi! qua gli occhi!» gridava Coppelius con voce cupa e tonante.
Preso dallo spavento mandai un grido e balzai dal mio nascondiglio. Coppelius mi acciuffò. «Ah, bestiola! bestiola!» belò digrignando i denti e, sollevatomi, mi buttò sul focolare, dove la fiamma incominciò a bruciarmi i capelli. «Qui ci sono occhi… occhi… un bel paio d’occhi di fanciullo.» Così sussurrava Coppelius cavando dalla fiamma alcuni granelli incandescenti per buttarmeli negli occhi.
Mio padre alzò le mani implorando ed esclamò: «Maestro, maestro, lascia gli occhi al mio Nataniele… lasciali!».
Coppelius rise rumorosamente e disse: «Se li tenga, gli occhi, il ragazzo e frigni la sua parte del mondo; ma vediamo un po‘ da vicino il meccanismo delle mani e dei piedi!». Così dicendo mi strinse con forza le giunture facendole crocchiare e mi svitò le mani e i piedi e andava rimettendo a posto ora quelle, ora questi. «Non vanno bene tutti! Era meglio prima. Il vecchio se ne intendeva!» Così sibilava e bisbigliava Coppelius; ma io vidi nero intorno intorno, un’improvvisa convulsione mi scosse i nervi e le ossa… e perdetti i sensi.
Un soffio dolce e tepido mi passò sul viso: mi svegliai come da un sonno mortale: mia madre si era chinata sopra di me…
«C’è ancora l’uomo della sabbia?» balbettai.
«No, caro, è andato via da tanto tempo, non ti fa più del male!» rispose la mamma baciando e accarezzando il beniamino ritrovato.
Perché annoiarti, mio carissimo Lotario? Perché raccontarti così ampiamente i particolari, mentre mi rimane ancora tanto da dire? Basta. Fatto sta che fui scoperto ad origliare e maltrattato da Coppelius. Lo spavento e l’angoscia mi fecero venire un febbrone che durò alcune settimane.
«C’è ancora l’uomo della sabbia?» Queste furono le mie prime parole ragionevoli, furono l’indizio della guarigione, della salvezza.
Ti racconterò ancora il momento più spaventevole della mia giovinezza; ti convincerai allora che non è la debolezza degli occhi a farmi sembrare incolore ogni cosa, ma che veramente un fato oscuro ha teso sulla mia vita un velo opaco di nuvole che riuscirò a squarciare soltanto morendo.
Coppelius non si fece più vedere. Si diceva che avesse abbandonato la città.
Poteva essere passato un anno, allorché una sera, secondo l’antica usanza, stavamo intorno alla tavola rotonda. Mio padre era molto sereno e raccontava episodi divertenti dei viaggi che aveva fatto in gioventù. Ad un tratto, allo scoccare delle nove udimmo il portone cigolare sui cardini e passi lenti e pesanti rintronare nel vestibolo verso la scala.
«Questo è Coppelius» disse mia madre impallidendo.
«Sì, è Coppelius» ripeté il babbo con voce stanca e tremante.
Gli occhi di mia madre si empirono di lacrime. «Ma, babbo, babbo!{3}» esclamò. «Non si può proprio farne a meno?»
«È l’ultima volta» replicò il babbo. «Oggi viene per l’ultima volta, te lo prometto. Va‘, va‘ con i ragazzi. Andate, andate a letto! Buona notte.»
Io ebbi l’impressione di essere premuto fra due pietre fredde… mi sentii mancare il respiro. Vedendomi immobile mia madre mi prese per un braccio: «Vieni, Nataniele, vieni, caro!». Io mi lasciai condurre via e entrai nella mia cameretta.
«Sta‘ tranquillo, sta‘ calmo, mettiti a letto! Dormi… dormi…» diceva mia madre. Ma torturato da un’inquietudine indescrivibile non potei chiudere occhio. L’odiato e rivoltante Coppelius mi stava davanti con gli occhi sfavillanti e rideva di quel suo riso beffardo: invano cercavo di liberarmi da quell’immagine. Poteva essere la mezzanotte allorché si udì un colpo tremendo come uno sparo di artiglieria. Tutta la casa ne rimbombò, udii un correre e frusciare davanti la mia porta, il portone di casa si chiuse con uno schianto. «Questo è Coppelius!» gridai atterrito, e balzai dal letto.
In quella scoppiò un pianto disperato, io mi precipitai verso la stanza del babbo, che trovai aperta, mi ingolfai in un vapore soffocante, mentre la fantesca urlava: «Oh, il padrone!… il padrone».
Per terra davanti al focolare fumante mio padre giaceva esanime con la faccia orribilmente stravolta, nera, bruciacchiata, mentre intorno a lui gemevano e piangevano le mie sorelle… e la mamma era svenuta!
«Coppelius, satanasso infame, hai ucciso mio padre!» gridai e svenni.
Due giorni dopo, quando mio padre fu composto nella bara, i suoi lineamenti erano di nuovo dolci e miti come da vivo. Mi confortai al pensiero che la sua lega col diabolico Coppelius non poteva dunque averlo precipitato nella dannazione eterna.
L’esplosione aveva svegliato i vicini, la notizia del fatto si propagò e giunse alle orecchie delle autorità, che decisero di processare Coppelius. Ma questi era scomparso senza lasciar traccia.
Se ti dirò ora, mio ottimo amico, che quel venditore di barometri era precisamente il maledetto Coppelius, non ti stupirai, penso, che quell’apparizione ostile mi sia presagio di gravi sciagure. Era vestito diversamente, ma l’aspetto e i lineamenti di Coppelius mi stanno impressi troppo profondamente nell’anima perché possa cadere in errore. Oltre ciò, Coppelius non ha neanche cambiato nome. Mi dicono che qui si fa passare per meccanico piemontese e si fa chiamare Giuseppe Coppola.
Sono risoluto di fare i conti con lui e di vendicare la morte di mio padre, accada quel che vuole.
Non dir niente alla mamma della comparsa di quel mostro. Saluta la mia dolce e cara Claretta; le scriverò in un momento più tranquillo. Addio.
Clara a Nataniele
È vero che non mi hai scritto da molto tempo, ma sono convinta che mi tieni nel cuore e nel pensiero. A me infatti pensavi vivamente quando stavi per spedire la tua ultima lettera a mio fratello Lotario e vi scrivesti invece il mio indirizzo. Aprii la lettera con gioia e mi accorsi dell’errore soltanto alle parole «O mio carissimo Lotario». Ora non avrei dovuto continuare a leggere, ma consegnare la lettera a mio fratello. Benché però più volte, nelle nostre burlette fanciullesche, tu mi abbia rimproverato di aver un’anima così tranquilla e riflessiva che come quella tal donna, di fronte al crollo imminente della casa, prima di fuggire liscerei rapidamente una piega alla tendina della finestra, posso assicurarti che l’inizio della tua lettera mi commosse profondamente. Rimasi senza fiato e vidi davanti gli occhi una danza di punti luminosi.
O mio Nataniele adorato, come poté entrare nella tua vita un fatto così orribile? Separarmi da te, non rivederti più: questo pensiero mi attraversò l’anima come una pugnalata nel petto. E lessi, lessi tutto! La tua descrizione dell’odioso Coppelius è spaventosa. Soltanto ora venni a sapere di qual morte violenta e terribile è morto il tuo povero vecchio babbo. Mio fratello Lotario, cui consegnai ciò che gli spettava, cercò di calmarmi, ma vi riuscì male. Giuseppe Coppola, lo sciagurato venditore di barometri, mi seguiva a ogni passo e quasi mi vergogno di confessare che poté persino distruggere con strani sogni e fantasmi il mio sonno, di solito così sano e tranquillo. Ma assai presto, già il giorno seguente, le cose avevano preso un aspetto diverso. Non volermi male, mio adorato, se Lotario dovesse comunicarti che, nonostante il tuo strano presentimento che Coppelius debba farti del male, sono come al solito calma e serena.
Ti dirò subito che, secondo me, tutti cotesti fatti spaventosi sono avvenuti soltanto dentro di te, mentre la realtà esterna vi aveva ben poca parte. Ripugnante sarà stato certamente il vecchio Coppelius, ma il fatto che odiava i bambini suscitò in voi un vero ribrezzo e la vostra antipatia.
Naturalmente il pauroso uomo della sabbia si fuse nel tuo spirito infantile col vecchio Coppelius che, anche se non credevi all’uomo della sabbia, rimase pur sempre per te il mostro fantastico e pericoloso specialmente ai bambini. Quel lavorìo notturno insieme con tuo padre era dato semplicemente da segreti esperimenti alchimistici che certo non potevano far piacere a tua madre perché vi si sarà sprecato molto denaro, e per di più, come accade con simili ricercatori, il cuore di tuo padre, tutto preso dal desiderio fallace di raggiungere la sapienza suprema, si allontanava dalla famiglia. Certamente il tuo babbo ha trovato la morte in seguito a una sua imprudenza e Coppelius non ne ha colpa. Ti dirò che ieri ho chiesto al nostro bravo farmacista qui vicino se, in esperimenti di chimica, sia possibile un’esplosione così improvvisa e mortale. «E come!» mi rispose, e mi descrisse alla sua maniera in lungo e in largo come possa avvenire, e pronunciò tante parole strane che non ho potuto ritenere. Ora, immagino, terrai il broncio alla tua Clara e dirai: “In quell’anima fredda non penetra raggio di quel mistero che stringe talvolta gli uomini con braccia invisibili; ella vede soltanto la superficie multicolore del mondo e se la gode come una bimba ingenua a vedere il frutto dorato e scintillante che racchiude un veleno mortale”.
Ma, mio carissimo Nataniele, non credi forse che anche nelle anime serene, ingenue e spensierate possa vivere il presentimento d’una potenza oscura e ostile che cerca di schiantarci nel nostro stesso io? Perdonami ora se, da quella ragazza semplice che sono, oso accingermi a spiegare in qualche modo come mi si presenti una simile lotta interiore. Può darsi che non trovi le parole giuste e che tu rida di me, non già perché il mio concetto sia sciocco, ma perché sono così poco abile nell’esprimerlo.
Se esiste un potere oscuro e ostile che immette a tradimento un filo nel nostro cuore col quale poi ci afferra e ci trascina su una via pericolosa e mortale che altrimenti non avremmo battuto… se un potere siffatto esiste, deve prendere dentro di noi la nostra stessa forma, deve anzi diventare il nostro io: soltanto così infatti possiamo crederci e concedergli quello spazio di cui ha bisogno per compiere quell’opera segreta. Se abbiamo la mente abbastanza salda, rinvigorita dalla vita serena, per riconoscere un influsso ostile come tale e camminare tranquillamente per la via, sulla quale ci hanno spinto l’inclinazione e la vocazione, quel potere pauroso rimane sommerso nello sforzo vano di assumere quella forma che dovrebbe essere la nostra immagine rispecchiata. “È anche certo” soggiunge Lotario “che l’oscuro potere fisico, quando noi stessi ci abbandoniamo ad esso, attira spesso nel nostro animo forme estranee che il mondo esterno ci butta fra i piedi, di modo che noi stessi non facciamo che eccitare lo spirito, il quale, come ci sembra per una strana illusione, parla da quella forma. È il fantasma di quello stesso nostro io la cui intima affinità e la cui profonda influenza sul nostro spirito ci precipitano nell’inferno o ci esaltano al paradiso.”
Come vedi, mio carissimo Nataniele, Lotario e io abbiamo discusso a fondo la materia dei poteri oscuri che ora, dopo averne scritto non senza fatica i concetti principali, mi sembra molto ingegnosa e profonda. Le ultime parole di Lotario non mi sono chiare del tutto, intuisco soltanto che cosa voglia dire, eppure mi sembra che sia molto vero.
Ti prego, levati dalla mente quel brutto avvocato Coppelius e Giuseppe Coppola, il venditore di barometri. Sta‘ sicuro che queste figure estranee non possono nulla su di te; soltanto la fede nella loro potenza ostile te li può rendere ostili effettivamente. Se in ogni riga della tua lettera non si leggesse la profonda agitazione del tuo spirito, se il tuo stato non mi addolorasse profondamente fin nell’intimo, davvero sarei capace di scherzare sull’avvocato della sabbia e su Coppelius, l’uomo dei barometri.
Sii sereno… sereno! Mi sono proposta di comparirti come un angelo custode e di scacciare con una risata il perfido Coppelius, qualora dovesse venirgli in mente di turbare i tuoi sogni. Non ho nessuna paura di lui né delle sue manacce brutte e non voglio che mi guasti né le ghiottonerie come avvocato né gli occhi come uomo della sabbia.
Eternamente, mio amatissimo Nataniele, ecc. ecc.
Nataniele a Lotario
Mi dispiace molto che ultimamente Clara abbia aperto e letto per errore (errore dovuto alla mia distrazione) la lettera che avevo diretta a te. Mi ha risposto con una missiva filosofica molto profonda, dove dimostra esattamente che Coppelius e Coppola esistono soltanto nella mia mente e sono fantasmi del mio io che sfumerebbero immediatamente appena li riconoscessi per tali. Non si crederebbe infatti che quello spirito che brilla spesso come un sogno soave da quei dolci e chiari occhi di fanciulla sorridente possa far distinzioni così intelligenti, così professorali. Ella si richiama a te. Avete dunque parlato di me, e ritengo che tu le dia lezioni di logica perché possa discernere e distinguere accuratamente ogni cosa. Vai, lascia stare!
D’altro canto è ben certo che Giuseppe Coppola, il venditore di barometri, non è punto il vecchio avvocato Coppelius. Ora frequento le lezioni del professore di fisica arrivato di recente, che, come il famoso scienziato, si chiama Spallanzani ed è di origine italiana. Questi conosce Coppola da molti anni, e oltre ciò si capisce dalla pronuncia che è realmente piemontese. Coppelius era un tedesco e, a quanto sembra, non onesto. Ora sono tranquillo. Consideratemi pure, tu e Clara, un tetro sognatore, ma io vi dico che non posso liberarmi dall’impressione che mi fa la faccia maledetta di Coppelius. Sono ben lieto che abbia lasciato la città, come mi assicura Spallanzani.
Questo professore è un bel tipo. Un omino tondo con gli zigomi sporgenti, il naso fine, le labbra grosse, gli occhietti penetranti. Ma più di qualunque descrizione può dirti il ritratto di Cagliostro che Chodowiecki ha inserito in non so quale almanacco berlinese: Spallanzani è tale e quale.
Recentemente salgo le scale e mi accorgo che la tenda tirata di solito su una porta a vetri lascia libera una piccola fessura. Non so come, mi vien la voglia di guardarvi e di curiosare. Nella stanza c’era una donna alta, molto snella, dalle forme perfette, vestita magnificamente, seduta a un tavolinetto sul quale teneva le braccia con le mani giunte. Stava di fronte alla porta, di modo che potei vederne il viso angelico. Pareva non si fosse accorta di me, e, in genere, i suoi occhi avevano una fissità strana, direi quasi senza vista, e pareva dormisse ad occhi aperti. Ebbi paura e mi ritirai subito nell’aula lì vicino. In seguito venni a sapere che quella creatura era Olimpia, la figlia di Spallanzani, che, con strana cattiveria, egli tiene rinchiusa, sicché nessuno le si può avvicinare. Ci deve essere qualche mistero, può darsi che sia scema o qualche cosa di simile.
Ma è inutile che ti scriva di queste cose, potrei riferirtele meglio e più ampiamente a voce. Devi sapere infatti che tra quindici giorni sarò da voi. Devo assolutamente rivedere la mia Clara, il mio angiolo così dolce e caro. Sfumerà allora il malumore che, lo confesso, stava per prendermi dopo quella tale lettera giudiziosa. Perciò oggi non le scrivo.
Tanti saluti ecc. ecc.
Non si potrebbe inventare niente di più strano e curioso di ciò che avvenne al mio povero amico, il giovane studente Nataniele, e che io, benevolo lettore, mi sono accinto a raccontarti. Ti è mai capitato qualche cosa che s’impossessasse interamente del tuo cuore, della tua mente, dei tuoi pensieri, scacciandone tutto il resto? C’era in te un fermento, un ribollìo, e il sangue cocente ti scorreva nelle vene e ti faceva avvampare le guance. Il tuo sguardo era strano come volesse afferrare nello spazio vuoto figure invisibili ad altri occhi, e le tue parole si scioglievano in cupi sospiri. E gli amici ti chiedevano: “Che cosa c’è, caro amico? Che cos’hai?”. E allora tu volevi esprimere l’immagine interiore coi colori più vivi e con le ombre e le luci, e ti affannavi a cercar le parole per poter incominciare. Ma avevi l’impressione di dover raccogliere fin dalla prima parola tutte le cose meravigliose, stupende, incredibili, allegre e raccapriccianti che erano accadute, in modo da colpire tutti come una scossa elettrica. Se non che ogni parola, ogni espressione ti pareva scialba e frigida e morta. E cercavi e cercavi e balbettavi, e le domande fredde degli amici colpivano come soffi di vento gelato la tua fiamma interna fin quasi a spegnerla. Ma, appena tracciati, come può fare un pittore ardito con alcune linee temerarie, i contorni della tua immagine interiore, vi stendevi i colori con poca fatica e con crescente ardore, e col tumulto vivo di figure molteplici trascinavi gli amici, i quali come te si vedevano riflessi nell’immagine emersa dal tuo spirito!
A dire il vero, nessuno, ti confesso, benevolo lettore, mi ha mai chiesto la storia del giovane Nataniele; ma tu sai che faccio parte di quella strana razza di autori che quando hanno nel cuore una cosa sul tipo di quella che ti ho descritta, hanno l’impressione che chiunque si avvicini, e magari il mondo intero, venga a domandare: “Ma che cos’è? Racconti, racconti, caro!”.
E così mi venne una gran voglia di raccontarti la vita sventurata di Nataniele. Il lato meraviglioso di questa vita mi empiva l’anima, ma appunto per questo e perché volevo rendere anche te, mio lettore, desideroso di sopportare il peso delle meraviglie, che non è poco, mi sono affannato a incominciare la storia di Nataniele in modo significativo, originale, attraente: “C’era una volta…”. È il più bell’inizio di ogni racconto, ma troppo freddo!… “Nella piccola città di S. viveva…” Sì, un po‘ meglio, per lo meno ci si avvia all’acme. O addirittura medias in res: ‘“Vada all’inferno!‘ esclamò con gli occhi ardenti di collera e di spavento lo studente Nataniele quando Giuseppe Coppola, il mercante di barometri…”. Così avevo già scritto infatti, allorché mi parve di notare nello sguardo inferocito dello studente Nataniele qualche cosa di buffo; ma la storia non è affatto allegra. Non mi venne in mente nessuna frase che potesse rispecchiare almeno una parte di quello splendore di colori che aveva la mia visione. E decisi di non incominciare nemmeno. Perciò, benevolo lettore, prendo quelle tre lettere che l’amico Lotario mi mise gentilmente a disposizione, per i contorni del quadro che cercherò di colorire via via col mio racconto. Potrà darsi che mi riesca di presentare, come farebbe un buon ritrattista, qualche figura in maniera che tu la trovi somigliante senza conoscere l’originale, anzi che ti sembri di averla conosciuta personalmente e di averla vista coi tuoi occhi. Allora forse, caro lettore, ti convincerai che non vi è nulla di più strano e di più folle che la vita reale e che, in fondo, il poeta può afferrare la vita solo come pallido riflesso di uno specchio opaco.
Perché si comprenda ciò che è necessario sapere fin da principio, bisogna aggiungere al contenuto di quelle lettere che, poco dopo la morte del padre di Nataniele, Clara e Lotario, figli di un lontano parente morto anche lui lasciandoli orfani, erano stati accolti dalla madre di Nataniele. Clara e Nataniele furono presi da simpatia reciproca, e nessuno al mondo poteva trovar da ridire; perciò si erano fidanzati quando Nataniele lasciò la città per continuare gli studi a G. Là lo troviamo dunque nella sua ultima lettera, e frequenta le lezioni di Spallanzani, il celebre professore di fisica.
Ora potrei continuare tranquillamente il racconto, ma in questo momento l’immagine di Clara mi sta così viva davanti agli occhi che non posso distoglierli da lei, come facevo sempre quando mi guardava col suo dolce sorriso. Bella non si poteva dire, Clara; lo dicevano tutti quelli che per professione s’intendono di bellezza. Ma gli architetti elogiavano le belle proporzioni della sua statura, i pittori trovavano quasi troppo caste le forme del collo, delle spalle e del petto, mentre quasi tutti s’innamoravano degli stupendi capelli da Maddalena e fantasticavano sul colorito, che dicevano degno di Batoni. Uno di loro, uomo tutto fantasia, paragonava però stranamente gli occhi di Clara con un lago di Ruisdael nel quale si specchia l’azzurro limpido del cielo senza nubi, la ghirlanda dei fiori e dei boschi, la vita serena e multicolore del paesaggio dovizioso. Ma poeti e scrittori andavano più in là e dicevano: “Ma che lago! che specchio! Si può forse guardare questa fanciulla senza che dal suo sguardo squillino meravigliosi suoni e canti di paradiso che ci penetrano nel cuore agitando e suscitando tutta una vita? E se a tal vista noi non scriviamo canti veramente belli, vuol dire che contiamo poco, e infatti lo leggiamo chiaramente nel sottile sorriso che aleggia sulle labbra di Clara quando osiamo cinguettarle qualche cosa che vorrebbe essere un canto, mentre è soltanto un saltellare confuso di suoni”.
Proprio così. Clara possedeva la vivace fantasia della fanciulla serena e ingenua, un animo profondo, delicatamente femminile, un’intelligenza limpida e acuta. I chiacchieroni confusionari se la cavavano male: senza tanti discorsi, infatti, che male si addicevano al carattere taciturno di Clara, il suo sguardo chiaro e il sorriso sottile e ironico sembrava dicessero: “Cari amici! Come potete pretendere che io prenda coteste immagini sfumate nell’ombra per figure concrete dotate di vita e movimento?”. Perciò molti consideravano Clara come un essere freddo, prosaico, insensibile; altri invece che avevano sentito la vita in tutta la sua profondità veneravano quella fanciulla infantile, intelligente, piena di spirito, ma nessuno così profondamente come Nataniele, che viveva serenamente nella scienza e nell’arte. Clara gli era attaccata con tutta l’anima; le prime nubi le attraversarono l’anima solo quando egli dovette separarsi da lei. Con quanto entusiasmo però gli si buttò fra le braccia quando, secondo la promessa nell’ultima lettera a Lotario, comparve realmente nella città natale ed entrò nella stanza di sua madre. Fu infatti come Nataniele aveva preveduto: nel momento in cui rivide Clara non pensò né all’avvocato Coppelius né alla lettera sagace della fanciulla; ogni malumore era scomparso.
Aveva ragione però Nataniele quando scriveva all’amico Lotario che la persona odiosa del venditore di barometri era entrata nella sua vita come un nemico. Tutti se ne accorsero, poiché fin dai primi giorni il carattere di Nataniele apparve del tutto mutato. Egli si sprofondava in tetre fantasticherie e apparve presto così strano come non lo si era mai visto. Ogni cosa, la vita intera gli era diventata sogno e presentimento; e continuava a dire che ogni uomo, pur credendosi libero, era asservito al gioco crudele di poteri oscuri contro i quali era vano ribellarsi, mentre invece bisognava rassegnarsi umilmente al proprio destino. Arrivava al punto di asserire che era stolto credere di poter agire ad arbitrio nell’arte o nella scienza; l’ispirazione infatti, nella quale soltanto si è capaci di creare, non proviene dal proprio io, ma sarebbe l’influsso di qualche principio superiore al di fuori di noi.
Quell’esaltazione mistica ripugnava moltissimo all’intelligenza di Clara, ma certo sarebbe stato vano mettersi a confutarla. Solo quando Nataniele affermò che Coppelius era il principio del male che l’aveva afferrato nel momento in cui stava spiando di dietro la tenda, e che quell’odioso demonio avrebbe distrutto in qualche modo spaventevole la felicità del loro amore, Clara si fece molto seria e disse: «Sì, Nataniele, hai ragione, Coppelius è un principio maligno e ostile e può agire terribilmente come un potere diabolico tangibile, ma solo nel caso che tu non lo scacci dalla mente e dal pensiero. Finché credi in lui, egli esiste davvero e agisce: soltanto la tua fede è il suo potere».
Nataniele, adirato che Clara collocasse l’esistenza del demonio soltanto dentro il suo io, incominciò ad esporre tutta la dottrina mistica dei diavoli e delle forze occulte, ma Clara lo interruppe seccata incominciando a parlare di cose indifferenti, con grande dispetto di Nataniele. Questi pensava che siffatti misteri restano misteri per le anime fredde e inaccessibili, e non si rendeva conto che poneva Clara appunto fra quelle nature inferiori, e seguitava quindi a far tentativi di iniziarla a quei misteri stessi.
La mattina presto, quando Clara aiutava a preparare la colazione, egli stava accanto a lei e le leggeva vari libri mistici, finché Clara lo pregò: «Ma, caro Nataniele, se incominciassi a dire che sei tu il principio del male che agisce in modo ostile sul mio caffè? Infatti, se, come tu vorresti, piantassi ogni cosa e ti guardassi negli occhi mentre leggi, il caffè traboccherebbe e voi rimarreste tutti senza colazione!».
Nataniele sbatté il libro e corse di furia a chiudersi nella sua stanza. Di solito dimostrava una particolare energia nei racconti vivaci che scriveva e leggeva a Clara, la quale ascoltava con molto piacere; ora invece i suoi scritti erano tetri, incomprensibili, informi, e benché Clara non lo dicesse per riguardo, egli sentiva quanto poco la toccassero. Per Clara non vi era nulla di più mortale della noia: nello sguardo e nelle parole si esprimeva allora la sua invincibile sonnolenza spirituale. Le opere di Nataniele erano difatti molto noiose. Il suo dispetto per l’anima fredda e prosaica di Clara andò aumentando, Clara a sua volta non riusciva a vincere il disappunto per la mistica tenebrosa e noiosa di Nataniele, sicché tutt’e due si allontanarono sempre più senza neanche accorgersi. Come Nataniele stesso doveva ammettere, la figura del brutto Coppelius era impallidita nella sua fantasia, ed egli durava spesso fatica a tingerla di colori vivaci nelle sue poesie dove compariva come orrendo spauracchio del destino.
Infine gli venne l’idea di fare oggetto di un poema quell’oscuro presentimento che Coppelius avrebbe distrutto la sua felicità. Rappresentò se stesso e Clara uniti in fedeltà d’amore, mentre di quando in quando una mano nera si inseriva nella loro vita e ne strappava l’una o l’altra gioia. Alla fine, mentre i due sono già all’altare, l’orrido Coppelius si presenta e tocca i dolci occhi di Clara; questi entrano d’un balzo nel petto di Nataniele ardendo e bruciando come faville di sangue, Coppelius lo afferra e lo butta dentro un cerchio di fuoco che gira con la rapidità della bufera e lo trascina frusciando e sibilando. È un fragore come quando l’uragano flagella infuriato i marosi spumeggianti che s’impennano in una lotta furibonda di giganti neri incoronati di bianco. Ma in quel fragore selvaggio si ode la voce di Clara: “Perché non mi guardi? Coppelius ti ha ingannato: non erano gli occhi miei che ardevano dentro il tuo petto, erano gocciole roventi del tuo sangue: io ho i miei occhi, guardami, guardami!”. Nataniele pensa: “Costei è Clara e io sono suo in eterno”. In quella il pensiero s’insinua violento nel cerchio di fuoco che si arresta, mentre tutto il fragore svanisce e si spegne sordo in una nera voragine. Nataniele guarda gli occhi di Clara: ma quella che lo fissa amorevolmente con gli occhi di Clara è la Morte.
Nataniele, mentre componeva questo poema, era molto tranquillo e riflessivo, correggeva e limava ogni riga, e siccome si era assoggettato al freno metrico, non si dava pace finché ogni verso non fosse levigato e armonioso. Ma quando ebbe finito e si mise a leggere da solo a voce alta, si sentì invadere dal terrore ed esclamò: “Di chi è questa voce spaventevole?”.
Poco dopo però il poema gli parve ben riuscito ed ebbe l’impressione che l’anima fredda di Clara ne dovesse essere riscaldata, benché non sapesse ancora chiaramente a che cosa la dovesse riscaldare e perché dovesse angustiarla con l’orribile visione di quel destino sciagurato che avrebbe distrutto il loro amore.
Tutti e due stavano seduti nel giardinetto della mamma, Clara molto serena perché da tre giorni, durante i quali Nataniele componeva il poema, egli non l’aveva torturata coi suoi sogni e presentimenti. Anche Nataniele era lieto e parlava vivacemente di cose allegre come al solito, sicché Clara osservò: «Finalmente ti ritrovo: vedi dunque che abbiamo cacciato via quel mostro di Coppelius?».
Soltanto allora Nataniele si ricordò di avere in tasca il poema che voleva farle sentire. Estrasse subito i fogli e si mise a leggere. Clara che, come al solito, si aspettava rassegnata una cosa noiosa, prese la calza e incominciò a lavorare. Ma a mano a mano che la cupa nuvolaglia montava sempre più nera, lasciò cadere il lavoro e fissò gli occhi addosso a Nataniele. Questi era trascinato irresistibilmente dal suo poema, le sue guance arrossate rivelavano la fiamma interiore, le lacrime gli scorrevano dagli occhi… Quando ebbe finito, mandò un gemito e tutto spossato prese la mano di Clara sospirando, quasi sciogliendosi in un dolore disperato: «Ah, Clara… Clara!».
La fanciulla se lo strinse al seno dolcemente e disse con voce sommessa ma severa: «Nataniele… mio adorato Nataniele… butta nel fuoco cotesta fiaba folle, demente, insensata».
Ma egli balzò in piedi e respingendola gridò: «Va‘, automa dannato, inanimato!» e scappò via, mentre Clara profondamente offesa versava lacrime amare e singhiozzava: «Oh, non mi ha mai amato poiché non mi comprende».
Lotario entrò nel capanno e Clara dovette raccontargli l’accaduto. Egli amava la sorella con tutta l’anima, e quelle parole di accusa gli entravano nel cuore come scintille, di modo che lo sdegno che da parecchio tempo covava contro quel sognatore di Nataniele avvampò in un impeto di collera. Egli corse da Nataniele, gli rinfacciò il contegno insensato verso la cara sorella con parole aspre, alle quali Nataniele replicò infuriato.
Bellimbusto, matto e trasognato, disse l’uno; uomo da dozzina, volgare e miserabile, disse l’altro. Il duello era inevitabile. Stabilirono di battersi la mattina seguente dietro il giardino, secondo le consuetudini accademiche di allora, con fioretti acuti e taglienti. Si aggiravano intorno muti e aggrondati; Clara aveva udito il diverbio e aveva visto il mastro di scherma che al crepuscolo recava i fioretti. Intuì quel che doveva succedere. Scesi sul terreno, Lotario e Nataniele si erano tolti la giacca in cupo silenzio con gli occhi ardenti dalla smania di combattere e di veder scorrere il sangue, e stavano per lanciarsi l’uno contro l’altro, allorché Clara arrivò di corsa al giardino. E si mise a implorare: «Oh, sciagurati, uccidetemi subito prima di iniziare l’assalto! Come potrei vivere in questo mondo se lo sposo mi uccide il fratello o il fratello lo sposo?».
Lotario abbassò l’arma e chinò lo sguardo a terra in silenzio, mentre nel cuore di Nataniele rifioriva con malinconia straziante l’amore che aveva provato per la dolce Clara nei più bei giorni della sua radiosa giovinezza. L’arma micidiale gli cadde di mano ed egli si buttò ai piedi di Clara: «Potrai mai perdonarmi, mia unica Clara, mia adorata? Potrai mai perdonarmi tu, fratello mio, Lotario carissimo?».
Al dolore profondo dell’amico, Lotario si commosse, e fra le lacrime tutti e tre si abbracciarono e giurarono di rimanere uniti in amore e fedeltà.
Nataniele aveva l’impressione di essersi liberato da un gran peso che lo opprimeva, anzi di aver salvato tutta la sua vita minacciata di rovina resistendo contro il potere oscuro che l’aveva avvinto. Passò ancora tre giorni beati coi suoi cari, e ritornò poi a G. dove intendeva rimanere ancora un anno e ritornare poi per sempre nella città natale.
Alla mamma non dissero nulla di ciò che riguardava Coppelius; sapevano infatti che non poteva pensare a lui senza spavento, perché, al pari di Nataniele, attribuiva a lui la morte del marito.
Quale fu lo stupore di Nataniele quando arrivò davanti alla sua abitazione e trovò la casa bruciata, ridotta ad un mucchio di macerie dal quale emergevano soltanto i muri maestri. Benché l’incendio fosse scoppiato nel laboratorio del farmacista che abitava al piano di sotto e la casa si fosse bruciata di sotto in su, gli amici forti e coraggiosi erano riusciti tuttavia a penetrare a tempo nella stanza di Nataniele situata al piano di sopra e a mettere in salvo libri, manoscritti, strumenti. Tutte queste cose le avevano portate in un’altra casa prenotandovi una camera che Nataniele affittò senz’altro. Non badò gran che al fatto che quella casa era dirimpetto a quella del professor Spallanzani né gli parve strano di poter guardare dalla sua finestra direttamente nella stanza dove Olimpia se ne stava solitaria; ne distingueva esattamente la persona, ma non i lineamenti. Infine notò che Olimpia rimaneva spesso per ore e ore nella posizione in cui l’aveva vista una volta da quella fessura della vetrata, e stava là senza far nulla, seduta a un tavolinetto, e guardava con gli occhi fissi verso di lui; e dovette ammettere che non aveva mai visto una figura più bella, ma, avendo Clara nel cuore, quella dura e rigida Olimpia gli rimase indifferente, e solo raramente sollevava lo sguardo dalle dispense e lanciava un’occhiata a quella bella statua: questo era tutto.
Stava scrivendo a Clara allorché udì bussare sommessamente: al suo invito la porta si aprì e vi si affacciò il volto odioso di Coppola. Nataniele ebbe un brivido; ma ricordando ciò che Spallanzani gli aveva detto sul conto del suo conterraneo e ricordando le promesse solenni che aveva fatte alla fidanzata a proposito di Coppelius, si vergognò del suo terrore infantile, si fece forza e parlò con tutta la calma possibile in quel momento: «Non ho bisogno di barometri, andate, andate pure, caro amico!».
Ma Coppola entrò nella stanza e torcendo la bocca larga in una risata sgangherata disse con voce roca, mentre gli occhietti gli lampeggiavano sotto le ciglia lunghe e grigie: «No, no, niente barometri! Ci sono anche begli occhi… occhi belli!».
Nataniele esclamò atterrito: «Sei impazzito? Come mai occhi?… Occhi, occhi?».
In quell’istante però Coppola aveva messo da parte i barometri e cavava dalle ampie tasche del soprabito occhiali e occhialini che deponeva sulla tavola: «Ecco, ecco… occhiali… occhiali da mettere sul naso… questi sono i miei occhi… occhi belli!».
E così dicendo continuava a tirar fuori occhiali, sicché tutta la tavola incominciò a sfavillare di strani lampeggiamenti. Mille occhi guardavano e lampeggiavano convulsi e fissavano Nataniele, il quale non riusciva a distogliere lo sguardo dalla tavola, mentre Coppola continuava ad ammucchiarvi occhiali, e quello scintillìo di sguardi s’intrecciava sempre più vivido mandando a Nataniele raggi sanguigni e infiammati. Sopraffatto dal terrore egli gridò: «Basta, basta! Via di qua, sciagurato!». E afferrò Coppola per un braccio, mentre quegli infilava le mani nelle tasche per trarne altri occhiali nonostante che la tavola ne fosse già tutta coperta. Coppola si divincolò dolcemente con una risata rauca e dicendo: «Ah, niente per voi?… ma qui c’è un bel cannocchiale», aveva raccolto gli occhiali, e dopo averli intascati cavava da una tasca interna una quantità di cannocchiali piccoli e grandi.
Scomparsi gli occhiali, Nataniele ritrovò la sua calma e pensando a Clara capì che tutto l’incantesimo era nato dalla sua mente e che Coppola era certamente un onesto ottico e meccanico, non già il sosia maledetto di Coppelius. Oltre ciò i cannocchiali che Coppola aveva messo sulla tavola non avevano niente di straordinario o di incantato come gli occhiali; sicché per aggiustare le cose Nataniele pensò di acquistare realmente un cannocchiale. Ne prese uno piccolo, tascabile, molto elegante, e per provarlo guardò dalla finestra. Non gli era mai capitato di avere un cannocchiale che avvicinasse gli oggetti con tanta chiarezza e precisione. Involontariamente guardò nella stanza di Spallanzani: come al solito Olimpia era seduta davanti al tavolino sul quale appoggiava le braccia e le mani giunte. Soltanto ora Nataniele vide il viso meraviglioso di Olimpia. Solamente gli occhi gli parvero stranamente fissi e morti. Ma aguzzando lo sguardo attraverso il cannocchiale gli parve che quegli occhi si illuminassero di umidi raggi di luna. Pareva che solo in quel momento vi si accendesse la forza visiva; e gli sguardi fiammeggiavano sempre più vivi.
Nataniele stava alla finestra come incantato a contemplare la celeste bellezza di Olimpia. Un raschiare, uno strisciar di piedi lo destò come da un sogno profondo. Coppola era alle sue spalle: «Tre zecchini… tre zecchini».
Nataniele aveva bell’e dimenticato l’ottico, ma ora pagò la somma richiesta.
«Bello, vero?… Un bel cannocchiale, no?» domandò Coppola con la solita voce roca e antipatica e con un sorriso beffardo.
«Sì, sì» rispose Nataniele seccato. «Addio, caro amico!»
Coppola, non senza lanciare strane occhiate a Nataniele, uscì dalla stanza. E Nataniele lo udì ridere forte sulla scala. “Capisco, ride di me, certamente perché ho pagato troppo caro questo piccolo cannocchiale… troppo caro.” Così dicendo ebbe l’impressione che nella stanza risuonasse un sospiro, un rantolo mortale. Dallo spavento si sentì mozzare il respiro. Ma era stato lui a sospirare: ora lo capiva. “Clara” disse fra sé “ha certamente ragione di considerarmi un visionario di cattivo gusto; però è pur strano… anzi più che strano che mi tormenti così lo sciocco pensiero di aver pagato troppo caro il cannocchiale di Coppola: non riesco a vederne la ragione. ”
Poi si sedette per terminare la lettera a Clara, ma un’occhiata dalla finestra lo convinse che Olimpia era ancora al suo posto e, spinto da una forza irresistibile, balzò di nuovo in piedi, prese il cannocchiale e non sapeva più staccarsi dalla vista seducente di Olimpia, finché Sigismondo, un suo amico fraterno, lo venne a chiamare per andare alla lezione del professor Spallanzani.
La tenda davanti a quella stanza fatale copriva tutta la porta sicché Nataniele non poté vedere Olimpia né quel giorno né i due giorni successivi, benché non abbandonasse quasi mai la finestra e guardasse continuamente col cannocchiale di Coppola. Il quarto giorno si chiusero anche le finestre. Disperato, e spinto dalla nostalgia e dal desiderio cocente, corse fuori di città. La figura di Olimpia gli appariva dovunque nell’aria, sbucava dai cespugli, lo guardava con gli occhi raggianti dall’acqua limpida del ruscello. L’immagine di Clara gli era uscita di mente, ed egli non pensava ad altro che ad Olimpia e andava piagnucolando e lamentando: “O mia stella stupenda, sei sorta forse soltanto per eclissarti di nuovo e lasciarmi in questa notte buia e senza speranze?”.
Mentre stava per rientrare in casa notò nell’abitazione di Spallanzani un tramestìo affaccendato e rumoroso. Le porte erano spalancate, vi si portava dentro ogni sorta di oggetti, i vetri del primo piano erano tolti, donne con grandi scope stavano spazzando e spolverando tutte affannate, e nell’interno si udivano battere e martellare falegnami e tappezzieri. Nataniele si fermò stupefatto in mezzo alla strada. In quella arrivò Sigismondo, che disse ridendo: «Eh, che cosa ne dici del nostro vecchio Spallanzani?».
Nataniele assicurò che non poteva dir nulla perché non sapeva niente del professore e anzi notava con grande stupore tutto quel brusìo e quel lavorìo che si era scatenato in quella casa così silenziosa e triste. Allora venne a sapere da Sigismondo che il giorno seguente Spallanzani dava una gran festa con ballo e concerto, e che mezza università vi era invitata. Era corsa la notizia che Spallanzani avrebbe presentato per la prima volta la figlia Olimpia che per tanto tempo aveva ostinatamente celato a tutti.
Nataniele trovò un biglietto di invito e con un gran batticuore andò dal professore all’ora fissata, mentre già arrivavano le carrozze e le luci erano accese nelle sale addobbate. La folla degli invitati era numerosa e brillante. Olimpia comparve in un abito ricco e di buon gusto. Non si poteva non ammirare il suo bel viso e la sua statura. La schiena stranamente incavata e la vita di vespa erano probabilmente da attribuirsi al busto troppo stretto. L’andatura, gli atteggiamenti avevano un che di rigido e misurato che a molti dispiaceva; lo si ascriveva alla soggezione che le imponeva la società.
Il concerto incominciò. Olimpia suonò il pianoforte con molta abilità e cantò anche un’aria di bravura con una voce limpida e tagliente da campana di vetro. Nataniele era in estasi: si trovava nell’ultima fila, e alla luce abbagliante delle candele non poteva distinguere bene i lineamenti di Olimpia. Estrasse quindi di nascosto il cannocchiale di Coppola e guardò la bella fanciulla. Oh, allora si accorse che lo guardava con passione e che ogni nota sbocciava da quello sguardo amoroso che gli penetrava nel cuore come una fiamma. I difficili gorgheggi gli parevano gridi di giubilo dell’anima trasfigurata dall’amore, e quando, infine, dopo la cadenza, il lungo trillo squillò sonoro nella sala, egli come stretto fra braccia ardenti non seppe più contenersi e gridò con pena ed entusiasmo: «Olimpia!».
Tutti si volsero a guardarlo, parecchi risero. L’organista del duomo fece la faccia scura e brontolò: «Via, via!».
Il concerto era terminato e s’iniziarono le danze. “Ballare con lei! con lei! ” Questo era per Nataniele il più grande dei desideri; ma come trovare il coraggio d’invitarla, lei, la regina della festa? Eppure! Egli stesso non sapeva come, ma appena incominciato il ballo si trovò di fianco a Olimpia che non era ancora stata invitata e balbettando a fatica qualche parola le strinse la mano. La mano di Olimpia era fredda come ghiaccio: egli provò un brivido mortale, fissò Olimpia negli occhi che lo guardarono raggianti d’amore e di desiderio, e in quel momento gli parve che anche nella mano fredda incominciassero a pulsare le vene e a scorrere il sangue vivo. Anche nel cuore di Nataniele l’amore avvampò più forte, e stringendo la bella Olimpia egli si lanciò nella danza.
Aveva sempre creduto di ballare a tempo ma, alla singolare precisione ritmica con cui ballava Olimpia portandolo spesso fuori di tempo, egli s’accorse che il ritmo non era stato il suo forte. Non voleva tuttavia ballare con nessun’altra, e se qualcuno si fosse avvicinato ad Olimpia per invitarla, sarebbe stato capace di ammazzarlo. Ma ci furono solo due inviti e, con suo grande stupore, Olimpia rimase poi sempre senza cavaliere, di modo che egli poté andar a prenderla ogni volta. Se oltre la bella Olimpia Nataniele avesse potuto vedere anche dell’altro, non si sarebbe potuto evitare qualche litigio e conflitto; evidentemente infatti le risate sommesse e faticosamente represse che si udivano fra i giovanotti in varie parti della sala erano dirette alla bella Olimpia che essi seguivano con strane occhiate, chi sa perché. Accaldato dalla danza e dal vino abbondante, Nataniele aveva deposto la sua solita timidezza. Sedeva accanto ad Olimpia, le teneva una mano e le faceva estasiato dichiarazioni d’amore che nessuno capiva, né lui né Olimpia. Quest’ultima sì, forse; lo guardava infatti negli occhi e andava sospirando continuamente: «Ah… ah… ah!» dopo di che Nataniele esclamava: «O donna sublime, creatura divina! Raggio della terra promessa dell’amore… anima profonda nella quale si specchia tutta la mia vita» e altre frasi simili, mentre Olimpia continuava a sospirare: «Ah… ah!…».
Il professor Spallanzani passò alcune volte davanti ai due fortunati e sorrise loro con strana soddisfazione. Benché vivesse in un altro mondo, Nataniele ebbe ad un tratto l’impressione che la casa di Spallanzani si andasse abbuiando: si guardò in giro e si accorse con spavento che le due ultime candele erano quasi consumate e stavano per spegnersi nella sala vuota. «Ahimè! è l’ora di separarci!» gridò disperato, e dopo aver baciato la mano di Olimpia accostò le labbra ardenti alla bocca di lei, ma la trovò gelida!
Come quando aveva toccato la mano fredda di Olimpia, provò un brivido di terrore, e la leggenda della sposa morta gli attraversò la mente; ma Olimpia lo aveva stretto al seno e nel bacio parve che le labbra si intepidissero e prendessero vita e calore.
Spallanzani attraversò lentamente la sala vuota, nella quale i suoi passi rimbombarono, mentre la sua persona nel gioco delle ombre e delle luci lappolanti aveva un aspetto spettrale e pauroso.
«Mi ami?… Mi ami, Olimpia?… Questa sola parola!… Mi vuoi bene?» sussurrava Nataniele, mentre Olimpia alzandosi sospirava soltanto: «Ah… ah!».
«Sì, astro luminoso, mia stella soave» esclamò Nataniele «tu sei sorta e m’illuminerai, trasfigurerai l’anima mia per sempre!»
«Ah… ah!» replicava Olimpia avviandosi. Nataniele la seguì finché furono davanti al professore.
«Ho visto che si è intrattenuto molto vivamente con mia figlia» disse questi sorridendo. «Bene, bene, caro signor Nataniele, se ci trova gusto a conversare con questa stupida ragazza, venga pure a farci visita: sarà il benvenuto.»
Con un intero cielo luminoso nel petto Nataniele se ne andò. Nei giorni seguenti, la festa di Spallanzani fu oggetto di tutti i discorsi. Benché il professore avesse fatto di tutto per far buona figura, certi capi ameni mettevano in rilievo ogni sorta di sconvenienze e di stranezze che vi avevano notato e criticavano specialmente quella rigida e muta Olimpia, alla quale, nonostante il bell’aspetto, si attribuiva la più completa stupidità, e si affermava che per questo Spallanzani doveva averla tenuta nascosta per tanto tempo. Nataniele ascoltava queste cose non senza crucciarsi, ma non ribatteva e pensava: “Varrebbe forse la pena di dimostrare a questi giovani che la loro propria stupidità impedisce loro di osservare l’anima profonda e stupenda di Olimpia?”.
«Senti, fratello, fammi il piacere» disse un giorno Sigismondo «com’è possibile che un ragazzo intelligente come te si sia innamorato di quella faccia di cera, di quella pupattola di legno laggiù?»
Nataniele stava per scattare adirato, ma si contenne e rispose: «Dimmi tu, invece, Sigismondo, come ha potuto sfuggire al tuo sguardo, che pure afferra tutte le cose belle, alla tua mente così aperta, il fascino celeste di Olimpia? Ma grazie al cielo, quando è così non ho in te un rivale: altrimenti uno di noi due dovrebbe morire».
Sigismondo capì come stavano le cose, girò abilmente la posizione e dopo aver osservato che in amore non si deve discutere soggiunse: «È strano però che molti di noi abbiano sul conto di Olimpia press’a poco la stessa opinione. A noi (non avertene a male, mio caro) è sembrata stranamente rigida e senz’anima. Ha la statura regolare e anche il viso, siamo d’accordo. Potrebbe passare per una bellezza se il suo sguardo non fosse così inanimato, direi quasi senza capacità visiva. Ha il passo troppo misurato e ogni suo gesto sembra regolato da una carica d’orologeria. Quando suona, quando canta, segue un ritmo così sgradevolmente preciso e senza vita come fosse una macchina cantante; e così è anche la sua danza. A noi Olimpia faceva paura, non volevamo aver a che fare con lei, ci sembrava che facesse finta di essere una creatura viva e che sotto ci fosse qualche mistero».
Nataniele non si abbandonò a quel senso di amarezza che stava per invaderlo alle parole di Sigismondo, dominò il malumore e si limitò a dire con serietà: «Può ben darsi che a voi, gente fredda e prosaica, Olimpia faccia paura. Soltanto all’anima poetica si schiude l’anima gemella! Soltanto a me apparve il suo sguardo amoroso che illuminò i miei pensieri, soltanto nell’amore di Olimpia io ritrovo me stesso. A voi può dispiacere che non si effonda come le altre anime superficiali in una conversazione scipita. Parla poco, questo è vero; ma quelle poche parole sono il vero geroglifico del mondo interiore pieno d’amore e di elevata comprensione della vita spirituale nell’intuizione dell’eternità. Ma per queste cose a voi manca il senso, per voi sono parole perdute».
«Dio ti protegga, amico e fratello» disse Sigismondo con dolcezza e quasi con malinconia «ma a me sembra che tu sia sulla cattiva strada. Conta però su di me nel caso che tutto… no, non voglio dir altro!…»
Nataniele ebbe l’impressione che il freddo e prosaico Sigismondo gli fosse molto devoto, e perciò strinse calorosamente la mano che gli era offerta.
Nataniele aveva bell’e dimenticato che c’era al mondo una Clara che egli aveva amato; la mamma, Lotario, tutti erano scomparsi dalla sua memoria, ed egli viveva soltanto per Olimpia, presso la quale rimaneva ogni giorno per ore e ore fantasticando del suo amore, della simpatia ardente e vitale, di una psichica affinità elettiva, tutte cose che Olimpia ascoltava con molta compunzione. Dal fondo della scrivania Nataniele tirò fuori tutto quanto aveva scritto. Poesie, fantasie, visioni, romanzi, racconti, accresciuti dì giorno in giorno con sonetti improvvisati, ottave, canzoni che egli recitava ad Olimpia per ore e ore instancabilmente. E non aveva mai incontrato una simile ascoltatrice. Essa non ricamava, non faceva la calza, non guardava dalla finestra, non dava da mangiare agli uccelli, non giocava col cagnolino in grembo, non aveva il gattino, non appallottolava pezzetti di carta o altro, non doveva frenare lo sbadiglio con colpetti di tosse provocati ad arte… rimaneva insomma con lo sguardo fisso negli occhi dell’uomo amato senza muoversi, senza spostarsi, mentre quello sguardo diventava sempre più ardente, sempre più vivo. Solo quando Nataniele si decideva ad alzarsi e le baciava la mano o talvolta le labbra, ella faceva: «Ah, ah!» o anche diceva: «Buona notte, caro!».
«O anima profonda, cuore luminoso» esclamava Nataniele quando era nella sua stanza «tu sola, tu sola mi comprendi.»
Tremava dalla gioia quando pensava a quel meraviglioso accordo che ogni giorno si manifestava più chiaramente fra l’anima sua e quella di Olimpia; gli pareva infatti che Olimpia avesse parlato dal profondo del cuore di lui su quelle opere, sulle sue facoltà poetiche, anzi che la voce stessa fosse uscita dal proprio cuore. E doveva certo essere così: altre parole più di quelle riferite Olimpia infatti non diceva mai. Ma quando Nataniele in certi momenti lucidi, per esempio al mattino, appena svegliato, ricordava la passività di Olimpia e la sua taciturnità, esclamava nonostante tutto: “Che cosa sono le parole? Parole! Lo sguardo del suo occhio divino dice più che qualsiasi linguaggio. Può forse una creatura celeste costringersi nella cerchia ristretta che i miseri bisogni umani hanno tracciato?”.
Spallanzani pareva molto lieto della relazione di sua figlia con Nataniele; a quest’ultimo manifestava chiaramente la propria benevolenza, e quando finalmente Nataniele trovò il coraggio di fare lontane allusioni al matrimonio con Olimpia, quegli s’illuminò di un sorriso e disse che avrebbe lasciato sua figlia pienamente libera di scegliere.
Incoraggiato da queste parole, col cuore ardente di desiderio, Nataniele decise d’implorare Olimpia già il giorno seguente affinché gli dicesse francamente e senza ambagi ciò che il suo sguardo soave gli aveva già detto da un pezzo: che desiderava essere sua per sempre. Cercò l’anello che sua madre gli aveva regalato, per donarlo ad Olimpia come simbolo della sua devozione, della propria vita risorta in lei. In quella gli capitarono fra le mani le lettere di Clara e di Lotario; le buttò da una parte con indifferenza, trovò l’anello, se lo mise in tasca e corse da Olimpia. Ma già dal vestibolo udì uno strano rumore: pareva venisse dallo studio di Spallanzani. Un battere… un urtare… un tintinnare… e colpi contro la porta e bestemmie e maledizioni.
«Lascia andare!»
«Molla!»
«Infame…»
«Maledetto…»
«Per questo avrò dato corpo e anima?»
«Ah ah ah!»
«Non abbiamo scommesso così…»
«Io ho fatto gli occhi, io…»
«Io l’orologeria…»
«Va‘ al diavolo con la tua orologeria!»
«Cane di un orologiaio imbecille…»
«Via di qua…»
«Satanasso…»
«Ferma!»
«Fabbricatore di pipe!»
«Bestione infernale!»
«Ferma!»
«Via!»
«Molla!»
Erano le voci di Spallanzani e di Coppelius che s’intrecciavano furibonde. Nataniele entrò di corsa preso da un’angoscia indicibile. Il professore aveva preso una donna per le spalle, Coppola per i piedi e tiravano e strappavano, lottando furiosi per possederla. Atterrito, Nataniele balzò indietro appena vi riconobbe Olimpia; avvampando di collera fece per strappare a quei forsennati la donna amata, ma in quel momento Coppola facendo appello a tutte le sue forze strappò la persona dalle mani del professore e gli appioppò con questa un colpo tremendo facendolo barcollare e precipitare all’indietro sulla tavola coperta di fiale e storte e bottiglie e tubi di vetro, che andarono in mille pezzi. Coppola si buttò la figura su una spalla e corse via con una risata orribile e infilò la scala di modo che i piedi penzolanti della figura sbatacchiarono contro i gradini mandando un rumore di stecche.
Nataniele rimase di sasso: fin troppo chiaramente aveva visto che il volto cereo di Olimpia era senza occhi; al posto degli occhi caverne buie; era una bambola inanimata.
Spallanzani si torceva per terra, le schegge di vetro gli avevano tagliuzzato la testa, il petto, le braccia, e il sangue ne usciva a fiotti. Ma raccolte le sue energie incominciò a gridare: «Dalli!… corrigli dietro! che aspetti?… Coppelius… mi ha rubato l’automa migliore… venti anni di lavoro… ci ho messo corpo e anima… l’orologeria… la parola… i passi… tutto mio… gli occhi… gli occhi rubati a te… dannato… maledetto… fermatelo… va‘ a prendermi Olimpia… eccoti gli occhi!».
E Nataniele vide un paio di occhi sanguinanti che lo fissavano dal pavimento, mentre Spallanzani con la mano illesa li prendeva e glieli scagliava contro colpendolo al petto. La follia lo prese allora con gli artigli ardenti e gli entrò nell’anima lacerando la mente e il pensiero.
«Uh… uh… uh! Cerchio di fuoco… cerchio di fuoco… gira gira… allegro… allegro! Pupattola di legno, uh, bella pupattola, gira gira.» Così dicendo si lanciò contro il professore e lo afferrò alla gola. E l’avrebbe strangolato se quel fracasso non avesse fatto accorrere molte persone che strapparono dalle mani di Nataniele impazzito il professore, che venne tosto medicato e fasciato. Sigismondo, per quanto fosse robusto, non riusciva a tenere il forsennato, che continuava a gridare con voce orribile:
«Gira gira, pupattola di legno!» e a roteare i pugni. Infine un gruppo dei presenti unendo le loro forze poterono buttarlo a terra e legarlo. Le sue parole si trasformarono in urli bestiali. E così infuriato lo portarono al manicomio.
Benevolo lettore, prima che io continui a narrarti che cosa avvenne in seguito dell’infelice Nataniele, posso assicurarti che, se ti sta un poco a cuore l’abile meccanico e fabbricatore di automi, Spallanzani guarì perfettamente delle sue ferite. Ma dovette lasciare l’università perché la storia di Nataniele aveva fatto scalpore e tutti consideravano una frode illecita quella di contrabbandare una bambola di legno in circoli intelligenti (Olimpia li aveva frequentati con molta fortuna) al posto di una persona viva. I giuristi vi trovarono persino una truffa sottile e tanto più condannabile in quanto era diretta contro il pubblico e organizzata con tanta astuzia, che nessuno (salvo qualche studente molto intelligente) se ne era accorto benché ora tutti facessero i saccenti e si richiamassero a un’infinità di particolari che erano parsi sospetti. Ma questi particolari non rivelavano nulla di serio. Come poteva infatti destar sospetto il fatto che, a sentire un elegante frequentatore di quei tè, Olimpia aveva più spesso starnutito che sbadigliato? Lo starnuto, opinava l’elegantone, era stato semplicemente la carica automatica del congegno nascosto, la si era sentita stridere ecc. Il professore di poesia e di eloquenza annusò una presa, chiuse la tabacchiera, si raschiò e parlò solennemente: «Rispettabili signore e signori, non vi accorgete dove sta il busillis? È un’allegoria… una metafora tirata in lungo! Voi mi capite. Sapienti sat!».
Ma molti signori rispettabili non si fermarono lì; la storia dell’automa aveva messo radici nel loro cuore, e una riprovevole diffidenza vi s’insinuò verso le figure umane. Per essere persuasi di non amare una bambola di legno, molti innamorati pretesero che la donna amata cantasse e danzasse un po‘ fuori di tempo, che ascoltando una lettura ricamasse, facesse la calza, giocasse col cagnolino ecc., ma soprattutto che non stesse soltanto a sentire ma qualche volta parlasse anche, in modo che le parole facessero presupporre veramente il pensiero e il sentimento. Per molti il legame amoroso divenne più stretto e più bello, per altri invece si allentò e si sciolse. «Veramente non si può garantire» diceva questo e quello. Ai tè si sbadigliava in modo incredibile e non si starnutiva mai per non destar sospetto. Spallanzani, come abbiamo detto, dovette andarsene, evitando così un processo per truffa, per aver introdotto un automa nella società umana. Anche Coppola scomparve.
Nataniele si destò da un sonno grave e terribile, aprì gli occhi e si sentì invadere da un senso indescrivibile di delizia e da un tepore dolce e paradisiaco. Era in letto nella sua camera, nella casa paterna, e Clara si era chinata su di lui, e vicino a lei c’erano la mamma e Lotario.
«Finalmente, finalmente, mio caro Nataniele… ora sei guarito da grave malattia… ora sei nuovamente mio!» disse Clara dal profondo dell’anima stringendo Nataniele fra le braccia. Ma gli occhi di lui si empirono di lacrime ardenti di malinconia e di gioia, mentre sospirava: «Mia… mia Clara!».
Sigismondo, che aveva assistito fedelmente l’amico nella sventura, entrò e porse la mano a Nataniele, il quale disse: «Tu, fratello mio, non mi hai dunque abbandonato!».
La pazzia era scomparsa, non era rimasta traccia, e con le cure affettuose della madre, della fidanzata e dell’amico, Nataniele riprese presto le forze. Intanto era rientrata in casa la fortuna; un vecchio zio taccagno, dal quale non si era mai sperato nulla, era morto e aveva lasciato alla mamma, insieme a un patrimonio non indifferente, un poderetto in una regione amena presso la città. Là intendevano trasferirsi la madre, Nataniele con la sua Clara che ora avrebbe sposato, e Lotario. Nataniele si era fatto più dolce che mai, e ora soltanto riconosceva appieno il cuore buono, puro, celestiale di Clara. Nessuno gli rammentava il passato neanche col più lieve accenno. Solamente quando Sigismondo prese commiato, Nataniele disse: «Davvero, fratello mio, ero su una cattiva strada, ma un angelo mi condusse a tempo sul retto sentiero. È stata la mia Clara!».
Sigismondo gl’impedì di continuare per timore che sorgessero in lui troppo vivide le memorie che potevano fargli del male.
Venne il giorno in cui quei quattro esseri felici dovevano trasferirsi nel podere. A mezzogiorno stavano attraversando la città. Avevano fatto vari acquisti, la torre del municipio gettava la sua ombra enorme attraverso la piazza.
«Oh» disse Clara «saliamo ancora una volta a vedere i monti lontani!» Detto, fatto. Tutti e due, Nataniele e Clara, salirono sulla torre, la mamma andò a casa con la domestica, e Lotario, che non aveva voglia di fare tutti quei gradini, rimase giù ad aspettare. Ed ecco i due fidanzati a braccetto sul ballatoio più alto della torre a guardare le foreste profumate dalle quali sorgevano le montagne azzurre come una città di giganti.
«Guarda, guarda quel cespuglio grigio che pare venga verso di noi» disse Clara.
Nataniele infilò una mano in tasca macchinalmente; vi trovò il cannocchiale di Coppola e guardò: Clara era davanti all’obiettivo!
I suoi polsi, le sue vene ebbero un fremito convulso. Egli fissò Clara, pallido come un morto, ma tosto i suoi occhi avvamparono in un torrente di fuoco, e dalla gola gli si sprigionò un urlo orrendo come di una bestia inseguita. Poi si mise a saltare, e fra risate orribili prese a gridare con voce aspra: «Gira, pupattola di legno… gira gira, pupattola di legno» e afferrò Clara con forza tremenda per buttarla di sotto, ma ella si aggrappò alla ringhiera con disperazione mortale.
Lotario udì gli urli del pazzo, salì di corsa, trovò la porta del secondo piano sprangata… mentre sempre più angoscioso squillava il grido di Clara. Folle di rabbia e di terrore si lanciò contro la porta, che finalmente cedette. Le grida di Clara si facevano sempre più fievoli: «Aiuto… salvatemi… aiuto, aiuto…» e la sua voce moriva nell’aria.
«È perduta… assassinata da quel pazzo» gridò Lotario. Anche la porta del ballatoio era chiusa. Con la forza della disperazione Lotario riuscì a scardinarla. Dio del cielo! Clara, stretta dal folle Nataniele, era sospesa nell’aria oltre la ringhiera… soltanto con una mano si teneva ancora alle sbarre di ferro. Rapido come il baleno, Lotario afferrò la sorella, la tirò dentro e batté nello stesso momento il pugno in faccia a quel furibondo, che cadde all’indietro e lasciò andare la preda.
Lotario scese di corsa con la sorella svenuta sulle braccia. Era salva.
Nataniele si diede a correre e a dibattersi sul ballatoio, faceva dei gran salti e urlava: «Cerchio di fuoco, gira… gira gira, cerchio di fuoco!».
A quelle grida selvagge la gente accorse: tra loro emergeva enorme l’avvocato Coppelius, che era appena arrivato in città ed era venuto difilato nella piazza. Alcuni dei presenti volevano salire per prendere quel pazzo furioso, ma Coppelius disse ridendo: «Ah ah, aspettate pure, quello lì viene giù da sé» e stava col naso all’aria come gli altri. Ad un tratto Nataniele rimase come paralizzato, si sporse dalla ringhiera, vide Coppelius, e col grido: «Oh begli occhi… occhi belli!» scavalcò il parapetto.
Quando fu sul lastrico con la testa fracassata, Coppelius era scomparso nella confusione.
Si racconta che dopo parecchi anni Clara fu vista in una regione lontana, seduta davanti alla porta d’una bella villa, con le mani tra quelle di un uomo simpatico, mentre due vispi bambini giocavano davanti a lei. Si dovrebbe supporre che Clara trovò, nonostante tutto, quella tranquilla felicità domestica che si addiceva al suo animo sereno e vivace e che Nataniele, straziato com’era, non le avrebbe potuto dare mai.