Joseph von Eichendorff
SORTILEGIO D’AUTUNNO
(Die Zauberei im Herbst, 1808-09)
Eichendorff (1788-1857), poeta e narratore, è uno dei più felici e lievi autori del romanticismo tedesco; il suo capolavoro è il breve romanzo Storia d’un fannullone (1826). Nella novella che qui presento – la prima che egli scrisse, a vent’anni, ma che fu pubblicata postuma – egli dà una versione romantica d’una famosa leggenda medievale, quella di Tannhäuser che soggiorna nel paradiso pagano di Venere visto come mondo della seduzione e del peccato. Questa leggenda – che in seguito Wagner trasformò in opera lirica - ispirerà pure un altro racconto di Eichendorff, La statua di marmo (1819), d’ambiente italiano. Ma qui il paese del peccato è una specie di doppio del nostro mondo, un mondo parallelo, sensuale e angoscioso nello stesso tempo. Passare da un mondo all’altro è facile, e anche il ritorno nel nostro mondo non è impossibile: ma l’uomo che dopo aver subito l’incantesimo ed esserne sfuggito voleva espiare le sue colpe facendo l’eremita, all’ultimo opta per il mondo incantato e se ne lascia inghiottire.
Il cavaliere Ubaldo, un sereno pomeriggio d’autunno, si trovò, durante la caccia, staccato dai suoi. Stava appunto cavalcando in mezzo a montagne deserte, irte di boschi, allorché scorse un uomo, vestito in modo strano e sgargiante, scendere da un pendio. Lo sconosciuto notò la presenza del cavaliere solo quando si trovò a due passi da lui.
Ubaldo vide con stupore che indossava un farsetto di bellissima fattura, pieno di guarnizioni, ma tutto stinto e di una foggia ormai passata da tempo. Il suo volto era bello, sebbene pallido e coperto da una folta barba incolta.
I due si salutarono con stupore e Ubaldo raccontò di essersi disgraziatamente smarrito. Il sole era già calato dietro i monti, il luogo lontano da ogni abitazione. Lo sconosciuto offrì allora al cavaliere di trascorrere la notte da lui. Domattina, aggiunse, gli avrebbe indicato la strada. Ubaldo accettò e lo seguì attraverso gole desolate.
In breve raggiunsero una rupe altissima al cui piede si trovava un antro spazioso, in mezzo al quale era una pietra e sopra la pietra un crocefisso. Un giaciglio di foglie secche ne occupava il fondo. Ubaldo legò il suo cavallo all’entrata, e intanto lo sconosciuto preparò in silenzio pane e vino. Dopo essersi seduto, il cavaliere, cui pareva che l’abito dello sconosciuto mal si adattasse a un eremita, non poté trattenersi dal chiedergli chi fosse e quali fossero state le vicende della sua vita.
«Non indagare chi io sia» rispose l’eremita oscurandosi in volto con voce severa.
Ma Ubaldo notò che l’eremita si mise ad ascoltarlo attentamente e cadde in meditazione profonda allorché egli cominciò a parlare di alcuni suoi viaggi, di certe gesta gloriose della sua giovinezza.
Finalmente Ubaldo, stanco, si stese sul giaciglio offertogli e si addormentò. Intanto il suo ospite sedeva all’ingresso dell’antro.
Nel cuore della notte il cavaliere, turbato da sogni agitati, si svegliò di soprassalto e si drizzò a sedere. Fuori, la luna baciava di chiara luce il placido semicerchio dei monti. Sullo spiazzo dinanzi alla caverna lo sconosciuto passeggiava concitato in su e in giù, sotto i grandi alberi svettanti. Cantava con voce cupa una canzone, di cui Ubaldo riuscì solo ad afferrare le seguenti parole:
Fuori dell’antro mi spinge il timore
Mi chiamano vecchie melodie.
Dolce peccato lasciami
O prostrami a terra,
Dinanzi all’incanto di queste canzoni,
Celandomi nel grembo della terra.
Dio! Vorrei supplicarti con fervore
Ma le immagini del mondo sempre
Si pongono fra me e te,
E lo stormire dei boschi tutt’intorno
Mi colma l’anima di terrore.
Dio severo, io ti temo.
Ahimè! Spezza le mie catene,
Per salvare tutti gli uomini
Hai patito quella morte amara.
Se indugio alle porte dell’inferno,
Ahimè! come son presto perduto.
Gesù, soccorrimi nella mia angoscia.
Il cantore tacque, sedette sopra una pietra, e parve biascicare alcune incomprensibili preghiere, che suonavano come confuse formule magiche. Il mormorio dei torrentelli, il leggero stormire degli abeti accompagnavano stranamente le parole. Dopo un poco Ubaldo, vinto nuovamente dal sonno, ricadde sul suo giaciglio.
I primi raggi del sole non penetravano ancora attraverso le fronde, che l’eremita si trovava già dinanzi al cavaliere per indicargli la strada. Ubaldo balzò di buon umore sul suo destriero e lo strano accompagnatore gli si mise al fianco. Ben presto raggiunsero l’ultima vetta. Improvvisamente scorsero ai loro piedi la pianura immersa nel fulgore del mattino, solcata da fiumi, costellata di città e di castelli.
«Ah, com’è bello il mondo!» esclamò costernato l’eremita velandosi gli occhi con le mani e si rifugiò correndo nel bosco. Ubaldo scosse il capo perplesso, quindi mosse i passi verso la sua magione.
Pochi giorni dopo la curiosità lo spinse a rivedere quelle solitudini. Ritrovò con qualche stento la caverna e l’eremita che l’accolse con minore ostilità. Pareva anche meno tetro.
Fin dal loro primo incontro Ubaldo aveva intuito che l’eremita voleva espiare gravi colpe; questa volta ebbe l’impressione che quell’anima combattesse invano contro il nemico. Infatti non mostrava mai la lieta fiducia, propria alle persone tutte dedite a Dio. Spesso mentre conversavano scintillava negli occhi del poveretto con violenza inaudita una mal dominata nostalgia del mondo. In quei momenti il suo volto si trasformava: diveniva selvaggio.
Il cavaliere pietoso ne fu tratto a ripetere con frequenza le sue visite: voleva aiutare e sorreggere con la forza del suo spirito quell’essere vacillante. L’eremita tuttavia continuava a tenere celato il suo nome e il suo passato. Pareva anzi che le vicende di un tempo lo facessero inorridire. Ma a ogni visita si faceva più tranquillo e fiducioso. Finalmente un giorno il buon cavaliere lo convinse a seguirlo al suo castello.
Vi giunsero che era già notte. Il cavaliere ordinò di accendere un bel fuoco nel caminetto e di portare il miglior vino della cantina. Pareva che per la prima volta l’eremita si sentisse a suo agio. Dapprima osservò attentamente una spada e altre armi che, appese alla parete, mandavano barbagli al riverbero della fiamma, quindi posò di nuovo lo sguardo sul padrone di casa e ve lo tenne a lungo. «Siete un essere felice» disse «e io guardo il vostro bel volto forte e franco con rispetto e ammirazione. Vivete noncurante della gioia e del dolore e dominate con serena tranquillità la vita. Si direbbe che vi concediate tutto a lei, come quel nocchiero che sa con sicurezza dove condurre la nave e non si lascia turbare dai canti meravigliosi delle sirene. Molte volte, vicino a voi, mi sono apparso vile o pazzo. Vi sono persone ubriache di vita. E allora il risveglio è terribile.»
Il cavaliere, non volendo lasciar passare inutilmente questa insolita commozione del suo invitato, insistette con bonarietà affinché raccontasse la storia della sua vita. L eremita si fece pensieroso.
«Se mi promettete» accondiscese infine «di mantenere in eterno il segreto e mi concedete di non fare alcun nome, vi racconterò.»
Ubaldo gli porse la mano in segno di giuramento e mandò a chiamare sua moglie, di cui si fece garante, perché anche lei potesse ascoltare.
Essa comparve con un bimbo in collo e uno per mano. Era alta e bella, la sua gioventù era quasi sfiorita e dolce come il sole al tramonto. I suoi graziosi figlioli rispecchiavano la sua passata bellezza. Scorgendola lo straniero si confuse terribilmente. Andò alla finestra, la spalancò e per qualche istante stette a fissare la foresta sommersa dalla notte, in raccoglimento. Calmatosi tornò verso gli altri. Si strinsero tutti intorno al camino ed egli incominciò:
«Il sole d’autunno sorgeva al disopra della nebbia azzurrina, che velava le valli circostanti e riscaldava coi suoi tepidi raggi il mio castello. La musica si era finalmente taciuta, la festa era finita, gli ospiti stavano prendendo commiato. Avevo raccolto parecchie persone intorno al mio più caro amico, che quel giorno con il gruppetto dei suoi si armava della Santa Croce, per aiutare la grande armata cristiana a conquistare la Terra Santa. Questa spedizione era stata l’unico oggetto dei nostri desideri, delle nostre speranze, dei nostri sogni fin dall’adolescenza. Ancora adesso ripenso con indescrivibile nostalgia a quel tempo bello e sereno come il mattino. Allora sedevamo insieme sotto gli altissimi tigli del mio castello, seguendo con il pensiero le nubi naviganti verso quella terra benedetta, dove Goffredo e gli altri eroi vivevano e combattevano nel chiaro splendore della gloria. Ma ahimè! troppo presto il mio animo si trasformò.
«Una donzella, fiore d’ogni bellezza, che avevo visto poche volte e di cui mi ero perdutamente invaghito, pur senza mai confessarglielo, mi tratteneva nelle carceri silenziose di quelle montagne. Sì, ero abbastanza forte per combattere, ma non avevo il coraggio di allontanarmi: lasciai partire solo l’amico.
«Anche la donzella aveva partecipato alla festa e io mi beavo allo splendore della sua venustà. All’alba, quando ella stava per accomiatarsi e io l’aiutavo a montare in sella, ebbi il coraggio di confessarle che rinunciavo per lei alle mie aspirazioni. Ella non rispose, mi fissò sbarrando gli occhi quasi con terrore e spronò il destriero.»
Udendo queste parole il cavaliere e sua moglie si fissarono in volto con mal celato stupore. Ma l’eremita non se ne accorse e proseguì nel suo racconto.
«Tutti se ne erano andati. Il sole filtrava attraverso le alte bifore nei saloni vuoti, dove ora echeggiavano solo i miei passi. A lungo rimasi affacciato alla finestra: dai boschi giungevano i colpi ritmici delle asce dei legnaioli. Tanta era la solitudine che d’un tratto mi afferrò una indescrivibile e commossa nostalgia. Non resistetti, balzai sul mio morello e corsi a caccia per recare sollievo al mio cuore oppresso.
«Errai a lungo e finalmente stupito mi trovai in un sito fra le montagne, rimastomi fino allora ignoto. Cavalcavo pensieroso con il falco sulla mano attraverso una landa meravigliosa accarezzata dai raggi obliqui del sole al tramonto, le ragnatele fluttuavano leggere come veli nell’aria azzurrina, sulle montagne risuonavano i canti d’addio degli uccelli migratori.
«Improvvisamente giunse ai miei orecchi il suono di parecchi corni da caccia: pareva giocassero a domanda e risposta da una cima all’altra. Alcune voci lo accompagnavano con il canto. Mai, fino allora, la musica aveva colmato la mia anima di tanto meraviglioso languore. Ancor oggi ricordo alcune strofe, trasportate verso di me dalle ali del vento:
Sopra strisce gialle e rosse
Se ne vanno gli uccelli in alto volando.
I pensieri erano sconsolati.
Ahimè! Non trovano alcun rifugio.
E i cupi lamenti dei corni
Battono solinghi al cuore.
Vedi il semicerchio degli azzurri monti
Ergersi lontano sopra la foresta,
I ruscelli nel terreno silenzioso
Andar lontano scrosciando?
I miei riccioli d’oro ondeggiano,
Il mio giovane corpo fiorisce ancora con dolcezza.
Ben presto decade anche la bellezza,
Come si spegne lo splendor dell’estate.
La gioventù deve inclinare i fiori.
Intorno tacciono tutti i corni.
Snelle braccia per abbracciare
Rossa bocca per il dolce bacio,
Bianco seno per scaldarsi,
Ricco, colmo saluto d’amore
Ti offre il clangore dei corni.
Dolce amore, prima che si tacciano, vieni.
«Questa musica si impossessò del mio cuore e lo sconvolse. Il mio falco, che fin dai primi accordi s’era fatto inquieto, si alzò stridendo e scomparve nell’aria, per non tornare più. Io però, incapace di resistere, seguii quella canzone allettatrice, che ora giungeva dalla lontananza, ora, portata dal vento, pareva vicinissima.
«Così avvenne che finalmente uscissi dalla foresta e scorgessi sul vertice della montagna, dinanzi a me, un castello splendente, circondato per gran tratto da un meraviglioso giardino, pieno di colori smaglianti, che pareva formasse un anello magico intorno all’edificio. Gli alberi e i cespugli, accesi dalle tinte violente dell’autunno, ardevano purpurei, giallo-oro, rosso-fuoco. Astraceri alti, ultime stelle dell’estate al declino, brillavano con alterno splendore. Il sole calante gettava i suoi ultimi raggi su quell’altura deliziosa, e le finestre del castello mandavano barbagli di fiamma.
«Mi accorsi che il suono dei corni, udito poc’anzi, proveniva da questo giardino; spaurito nel mio intimo, scorsi in mezzo a tanta magnificenza, sotto le arcate delle vigne, la donna di tutti i miei pensieri, passeggiare cantando. Al vedermi tacque, ma i corni continuarono la melodia. Bellissimi fanciulli, vestiti di seta, vennero verso di me e mi liberarono del mio cavallo.
«Volai attraverso l’arco lieve e dorato della cancellata, diretto alla spianata del giardino, dove si trovava la mia bella Amalia e caddi ai suoi piedi, vinto da tanta bellezza. Indossava un vestito rosso cupo, lunghi veli trasparenti come le ragnatele d’autunno blandivano i riccioli biondi, che un fiore di pietre preziose teneva riuniti sulla fronte.
«Mi aiutò a sollevarmi amorosamente e con voce commossa, come rotta dal dolore e dall’amore, esclamò: “Quanto ti amo, o giovane infelice e bellissimo! Da lungo tempo il mio cuore palpita per te e quando l’autunno inizia i suoi festini misteriosi il mio desiderio si risveglia con nuovo invincibile ardore. Infelice! Come sei giunto nella sfera delle mie musiche? Lasciami! Fuggi!”.
«A queste parole fui afferrato da grande tremore e la supplicai di parlare e d’illuminarmi. Ma ella tacque, e percorremmo silenziosi, uno a fianco all’altro, il giardino.
«Intanto era calata la notte e l’aspetto della donna era divenuto grave e maestoso.
«“Sappi” disse infine “che il tuo amico d’infanzia, quello che oggi ha preso congedo da te, è un traditore. Sono stata costretta a promettermi a lui in sposa. Solo per selvaggia gelosia ti ha taciuto il suo amore. Non è affatto partito per la Palestina. Domani verrà a prendermi e mi condurrà in un castello lontano dove mi terrà segregata, eternamente nascosta agli occhi di tutti. Ora debbo andare. Solo se egli muore potremo rivederci. ”
«Dette queste parole mi baciò sulle labbra e scomparve negli oscuri corridoi. Una gemma del suo fiore scintillò nel movimento e al suo bacio mi serpeggiò nelle vene un’atterrita voluttà.
«Ripensai con terrore alle spaventevoli parole che mi aveva sussurrato andandosene. Errai a lungo nei viali solitari, immerso in pensieri. Finalmente, stanco, mi gettai sui gradini di pietra dinanzi all’ingresso del castello. I corni suonavano ancora e io mi addormentai, con la mente occupata da strani pensieri.
«Quando apersi gli occhi era mattino. Le porte e le finestre del castello erano sbarrate, il giardino avvolto di silenzio. In quella solitudine si risvegliarono nel mio cuore l’immagine dell’amata e il sortilegio della sera precedente con nuovi meravigliosi colori e fui felice sapendomi riamato. Qualche volta, se mi risovvenivo di quelle terribili parole, avrei voluto fuggire da quei luoghi; ma il bacio ardeva ancora sulle mie labbra ed ero incapace di allontanarmi.
«L’aria era calda, quasi greve, come se l’estate volesse tornare indietro. Percorsi trasognato la foresta vicina, per distrarmi con la caccia. Improvvisamente scorsi sulla cima di un albero un uccello dalle penne incantevoli, quale mai avevo visto. Come io tesi l’arco e preparai la freccia, egli volò sopra un altro albero. Lo seguii cupido, ma l’uccello continuava a spostarsi di cima in cima, mentre le sue ali dorate rispecchiavano la luce del sole.
«Mi trovai così in una valle stretta, fiancheggiata da rupi altissime. La brezza non vi penetrava, tutto era ancor verde e rigoglioso come d’estate. Dal centro della valle partiva un canto inebriante. Stupito scostai i rami dei folti cespugli e i miei occhi si chinarono confusi e abbacinati dal sortilegio che scorgevo dinanzi a me.
«In mezzo a quelle rocce dirute sboccava un laghetto circondato sontuosamente di edera e di strani fiori di palude. Molte fanciulle bagnavano le loro belle membra nei flutti tepidi. In mezzo a loro si ergeva la donzella bellissima e senza veli. Fissava affascinata e smarrita in silenzio, mentre le altre cantavano; le onde, che giocavano con voluttà intorno alle sue caviglie, riflettevano la sua venustà. Ristetti a lungo, come abbarbicato al suolo, percorso da brividi ardenti. D’un tratto la bella schiera si mosse, e io fuggii per non venire scoperto.
«Mi rifugiai nel fitto della foresta, per calmare le fiamme che divampavano nel mio cuore. Ma quanto più lontano fuggivo tanto più viva si agitava dinanzi ai miei occhi la visione; tanto più divorante m’inseguiva lo splendore di quelle membra giovanili.
«La notte mi raggiunse nella foresta. Il cielo si era coperto di nubi minacciose, un tremendo uragano cavalcava sui monti. “Solo se egli muore, potremo rivederci!” sentivo una voce gridare continuamente dentro di me, e io fuggivo come inseguito da spettri.
«Qualche volta mi pareva di udire al mio fianco nella foresta lo scalpitare di cavalli, ma la gente mi atterriva e io fuggivo dinanzi al rumore. Infine scorsi da un’altura nella lontananza il castello della mia amata. I corni da caccia suonavano come sempre, lo splendore delle luci si irradiava come tenue chiarore lunare da tutte le finestre e illuminava magicamente la corona degli alberi e dei fiori più vicini, mentre tutto il resto della contrada lottava nella bufera e nelle tenebre.
«Finalmente, incapace quasi di dominare i miei sensi, mi arrampicai sopra una rupe elevata, al cui piede gorgogliava petulante un torrentello. Giunto in cima intravidi un’ombra oscura, seduta immobile sopra un masso, masso essa stessa. Le nubi si rincorrevano in cielo. Il vento qua e là le strappava a brandelli. Una luna sanguigna apparve per un attimo: riconobbi allora il mio amico, il promesso sposo dell’amata.
«Non appena mi scorse si alzò in piedi frettolosamente. Tremai a verga a verga in cuor mio; quindi lo vidi trarre la spada. Mi lanciai contro di lui e lo afferrai. Lottammo un poco, poi d’un tratto lo feci rotolare dal precipizio.
«Improvvisamente il silenzio divenne terribile. Solo il torrente scrosciò più forte, come per seppellire il mio passato in mezzo al fragore delle sue onde turbinanti, come se tutto fosse finito per l’eternità.
«Mi allontanai a precipizio da quel luogo d’angoscia. D’un tratto mi parve sentire alle spalle una risata acuta e malvagia, che veniva dalle cime degli alberi. E insieme credetti, tanto ero confuso, di scorgere l’uccello inseguito poco anzi. Mi precipitai, folle di paura, attraverso la foresta, superai le mura del giardino, tentai con tutte le mie forze di smuovere i cardini della porta del castello.
«“Apri” urlavo fuori di me “apri, ho ucciso il fratello del mio cuore. Ora sei mia in terra e nell’inferno. ” L’uscio si spalancò e la donzella, bella come non l’avevo mai veduta, si gettò contro il mio petto, sconvolto da tante bufere, e mi coperse di baci di fuoco.
«Non vi parlerò della magnificenza delle sale, del profumo di meravigliosi fiori esotici, tra cui occhieggiavano ogni tanto donne bellissime, intente a cantare, dei torrenti di luce e di musica, del piacere selvaggio e indicibile che gustai fra le braccia della donzella…»
A questo punto l’eremita sobbalzò improvvisamente. Uno strano canto sfiorò passando le finestre del castello. Erano poche note: ora somigliavano a voce umana, ora alla voce acuta del clarinetto.
«Tranquillizzatevi» disse Ubaldo. «noi ormai ci siamo abituati. Si dice che nelle foreste vicine esista il sortilegio; molte volte, nelle notti d’autunno questa musica giunge fino al nostro castello. Ma s’avvicina e s’allontana con uguale velocità e noi non vi badiamo.»
Tuttavia era evidente che il cuore del cavaliere era oppresso da una commozione a stento dominata. Non si udiva più suono di musica. Lo straniero, seduto, taceva, sprofondato in meditazioni. Il suo spirito vagava lontano. Dopo una lunga pausa riuscì a raccogliersi nuovamente e riprese il suo racconto, sebbene non con la calma di prima.
«Mi ero accorto che qualche volta in mezzo a tutto quello splendore la donzella veniva afferrata da una invincibile malinconia, quando dalle bifore del castello si accorgeva che l’autunno stava per prendere congedo. Ma un buon sonno profondo bastava a ristorarla e calmarla, e il suo volto meraviglioso, il giardino, tutta la contrada mi fissavano il mattino di poi riposati, freschi come appena creati.
«Una volta, mentre stavo con lei affacciato alla finestra, notai che la bella era più triste e silenziosa del solito. Fuori, in giardino, la tramontana rincorreva le foglie secche. Mi accorsi che mentre fissava la contrada impallidiva e rabbrividiva tratto tratto segretamente. Tutte le sue donne se ne erano andate, le canzoni dei corni da caccia giungevano quel giorno da una lontananza infinita. D’improvviso tacquero. Gli occhi della mia amata avevano perduto il loro splendore, quasi prossimi a spegnersi. Il sole tramontò dietro i monti e illuminò con un ultimo sprazzo il giardino e le valli. Improvvisamente la donzella mi strinse fra le sue braccia e incominciò una strana canzone, che non avevo mai udito prima di allora e che echeggiava in tutta la casa con malinconici accordi. Io ascoltavo rapito. Era come se quella melodia mi trascinasse in giù insieme col tramonto. Gli occhi mi si chiusero involontariamente. Caddi addormentato e sognai.
«Era notte fonda quando mi svegliai. Un gran silenzio regnava in tutto il castello. La luna splendeva chiarissima. L’amata giaceva al mio fianco su cuscini di seta. L’osservai con stupore: era pallida come un cadavere. I suoi riccioli posavano disordinatamente, come scomposti dal vento, sul volto e sul seno. Tutto il resto intorno a me era come quando mi ero addormentato. Avevo l’impressione però che da allora fosse trascorso molto tempo. Mi avvicinai alla finestra spalancata. La contrada mi parve mutata e del tutto diversa da quella che avevo sempre veduta. Gli alberi stormivano in modo strano. D’un tratto scorsi presso le mura del castello due uomini, che mormoravano frasi oscure, si interrogavano e si agitavano curvandosi l’uno verso l’altro come se stessero tessendo una trama. Non comprendevo ciò che dicevano, solo ogni tanto mi giungeva il suono del mio nome. Mi volsi a fissare la fanciulla che giaceva illuminata dai raggi della luna. Pareva una statua di marmo bellissima, ma fredda come la morte e immobile. Sul suo seno irrigidito scintillava una pietra simile all’occhio del basilisco, la sua bocca era stranamente contratta.
«Fui preso allora all’improvviso da un terrore quale non avevo mai conosciuto in vita mia. Abbandonai la stanza, mi precipitai attraverso i saloni deserti, da cui era scomparsa ogni fastosità. Uscito dal castello vidi due uomini sconosciuti irrigidirsi improvvisamente nella loro opera e stare fermi come statue. C’era al piede di un monte un laghetto solitario, intorno al quale alcune fanciulle, con abiti bianchi come neve, cantavano meravigliosamente e parevano intente a stendere sul prato strane ragnatele ai raggi della luna. Quella vista e quel canto accrebbero la mia ambascia. Scavalcai in fretta il muro del giardino. Le nubi si inseguivano rapide nel cielo, le fronde degli alberi frusciavano alle mie spalle.
«A poco a poco la notte si fece più calma e più tepida, gli usignoli gorgheggiarono fra i cespugli. Giù, dal fondo della valle, mi giunsero voci umane, e vecchi ricordi, ormai sopiti da tempo, tornarono albeggiando nel mio cuore arido e spento. Dinanzi a me, sulle montagne, avanzò una splendida alba di primavera.
«“Che cosa accade? Dove mi trovo?” esclamai stupito. “L’autunno e l’inverno sono passati. La primavera ingemma nuovamente il mondo. Mio Dio, dove sono rimasto così a lungo?”
«Finalmente raggiunsi il vertice dell’ultima montagna. Il sole stava per sorgere. Un brivido di piacere percosse la terra, le acque dei fiumi, i castelli scintillarono, gli uomini calmi e sereni si avviavano alle loro bisogne, le allodole salutavano canore il mattino. Caddi in ginocchio e piansi amaramente la mia vita perduta.
«Non compresi, né oggi lo comprendo, come tutto questo sia avvenuto. Mi proposi di non scendere mai più nel mondo innocente e gaio. Il mio petto era troppo riarso dai peccati e da voluttà sfrenate. Decisi di seppellirmi vivo in un luogo desolato, di invocare il perdono del Cielo e di non rivedere le case degli uomini prima d’aver lavato con lagrime di vero pentimento i miei peccati, l’unica cosa del mio passato di cui avessi piena coscienza.
«Vivevo così da un anno quando voi mi avete incontrato. Ogni giorno elevavo preghiere ardenti e qualche volta mi è parso di aver superato tutto e trovato grazia presso Dio. Ma era illusione fallace. Allorché l’autunno stendeva di nuovo la sua rete di meravigliosi colori sulle montagne e sulle valli, giungevano dalla foresta canti ben noti. Penetravano nella mia solitudine, strappavano le risposte a voci oscure nel mio petto. Il suono delle campane mi incute sempre spavento quando, nelle chiare mattine domenicali, vola al di sopra delle montagne e giunge fino a me, quasi a cercare nel mio petto l’antico regno di Dio dell’infanzia, che non esiste più. Sapete, nel cuore degli uomini c’è un regno incantevole e oscuro, nel quale cristalli e rubini e tutti i fiori del mondo impietriti lampeggiano con sguardi d’amore rabbrividenti. Ogni tanto vi penetrano magici suoni, né si sa di dove vengano né dove siano diretti. La bellezza della vita terrena vi filtra scintillando come al crepuscolo. Sorgenti invisibili mormorano malinconiche e invitanti e tutto trascina giù, sempre più giù, eternamente.»
«Povero Raimondo» esclamò il cavaliere Ubaldo, che aveva ascoltato con profonda commozione l’eremita, trasognato e immerso nel suo racconto.
«Chi siete voi, in nome del Cielo, che conoscete il mio nome?» domandò l’altro balzando in piedi, quasi colpito dalla folgore.
«Mio Dio» rispose il cavaliere stringendo affettuosamente fra le braccia l’uomo tremante «dunque non ci riconosci? Io sono il tuo vecchio fedele fratello d’armi, Ubaldo, e questa è Berta, che tu amavi in segreto e che hai aiutato a montare in sella dopo quella festa. Il tempo e una vita avventurosa hanno fatto sfiorire il nostro aspetto di allora. Ti ho riconosciuto solo quando hai cominciato a raccontare la tua storia. Non sono mai stato in quella contrada che tu hai descritto, né mai mi sono battuto con te su una rupe. Subito dopo quella festa sono partito per la Palestina. Ho combattuto parecchi anni e al mio ritorno Berta è divenuta mia moglie. Anche lei non ti ha mai più visto dopo di allora, e il tuo racconto è tutta una vana fantasticheria. Un malvagio sortilegio, che risorge ogni autunno, ti ha tenuto incatenato per molto tempo con giochi menzogneri, mio povero Raimondo. Gli anni sono stati mesi per te. Quando sono tornato dalla Terra Santa nessuno seppe dirmi dove eri andato, e noi ti credevamo scomparso.»
Ubaldo, per la gioia, non si accorse che il suo amico era stato preso da un tremito che aumentava ad ogni sua parola. Raimondo fissava lui e sua moglie a occhi sbarrati. D’un tratto riconobbe l’amico e l’amata della sua giovinezza, illuminata dal riverbero guizzante del fuoco.
«Perduto, tutto perduto!» esclamò tragicamente. Si strappò dalle braccia di Ubaldo e fuggì rapido nella notte, verso la foresta.
«Sì, tutto è perduto. Il mio amore e la mia vita non sono stati che una lunga illusione» continuava a ripetersi. Corse fin che le luci del castello di Ubaldo furono svanite alle sue spalle. Involontariamente si era diretto verso il suo castello, che raggiunse all’alba.
Era sorta di nuovo una dolce e tenera mattina di autunno, come quella di molti anni prima, al termine della festa.
Il ricordo di quel tempo e il dolore per i doni della giovinezza perduti si impadronirono di tutta la sua anima. Gli altissimi tigli della corte stormivano come un tempo, ma lo squallore regnava ovunque e il vento sibilava attraverso le bifore in rovina.
Entrò nel giardino. Era desolato. Solo qualche fiore tardivo occhieggiava qua e là sull’erba scialba. Sopra un ramo un uccello cinguettava una canzone meravigliosa e nostalgica.
La stessa musica che aveva udito passare accanto alle finestre la sera nel castello di Ubaldo lo sfiorò. Con terrore ravvisò il bell’uccello dorato della foresta incantata. Affacciato a una finestra del castello c’era un uomo alto, pallido, macchiato di sangue. Era l’immagine di Ubaldo.
Raimondo atterrito allontanò lo sguardo da quella visione spaventosamente immota e fissò la limpidità mattutina. D’un tratto scorse in fondo alla valle avanzare a cavallo di un destriero snello e focoso la bella donzella. Era nel fiore della gioventù. I fili argentei dell’estate svolazzavano graziosi alle sue spalle, il fiore di gemme sulla sua fronte gettava lampi d’oro verde sopra la landa.
Raimondo, sconvolto, uscì dal giardino e inseguì la divina figura, preceduto dallo strano canto dell’uccello.
Via via che avanzava la musica si trasformava nella vecchia canzone di caccia, fata Morgana di quel tempo passato.
I miei riccioli d’oro ondeggiano
Il mio giovane corpo fiorisce ancora con dolcezza,
sentì echeggiare a pause nella lontananza…
I ruscelli nel terreno silenzioso
Andar lontano scrosciando?
Il suo castello, le montagne, tutto il mondo crollò alle sue spalle.
Ricco, colmo saluto d’amore
Ti offre il clangore dei corni.
Dolce amore, prima che si tacciano, vieni.
echeggiò ancora una volta.
Vinto dalla follia il povero Raimondo seguì il suono e s’immerse nella foresta. Da allora nessuno l’ha mai più veduto.