COLTURA MICROBICA
Il sergente di polizia Mankiewicz era al telefono e malediceva il momento in cui aveva risposto alla chiamata. La sua conversazione suonava come un fuoco d'artificio visto da una parte sola.
Stava dicendo: - Ma sì! è entrato qui e ha detto - "Mi metta in prigione perché voglio uccidermi"... Non so cosa dirle. Sono state le sue parole esatte. Sembra assurdo anche a me... Senta, caro signore, l'individuo risponde ai connotati. Mi ha chiesto informazioni e io gliele do... Ha una ferita sulla guancia destra, esatto, esatto, e ha detto di chiamarsi John Smith. Non ha detto affatto d'essere il dottor Tal-dei-Tali... Be', lo so anch'io che è un nome falso. Chi vuole che si chiami John Smith? Non in un posto di polizia, per lo meno¦
Adesso è in cella... Ma sì, dico sul serio... Resistenza alla forza pubblica; violenza e percosse; danni proditori. Sono reati gravi... Non m'importa di chi sia... E va bene. Resterò in linea.
Alzò gli occhi verso l'agente Brown e coprì con la mano il microfono. Più che una mano era un prosciutto che quasi inghiottiva l'intero ricevitore. La faccia dai lineamenti ottusi era rossa e sudata sotto la zazzera biondo-stoppa.
- Grane! - disse. - Nient'altro che grane in un posto di polizia. Per conto mio, meglio fare la ronda. Eh sì, centomila volte meglio.
- Chi è, al telefono? - domandò Brown. Era appena rientrato e in fondo non gliene importava niente. Pensava anche lui che Mankiewicz fosse più adatto per la ronda, meglio se in periferia.
- Chiamano da Oak Ridge. In teleselezione. Un tale di nome Grant, capo della divisione vattelapesca. Ora è andato a chiamare un altro, a venticinque centesimi al minu... Pronto!
Mankiewicz passò il recevitore nell'altra mano e si sforzò di restare calmo.
- Senta - disse - lasci che le racconti la cosa da principio. Voglio che comprenda bene, dopo di che, se non è d'accordo, manderà qualcuno sul posto. Quel tale non vuole un avvocato. Ha detto e ripetuto che vuole solo restarsene in cella e, parola mia, per quanto mi riguarda non ho niente in contrario... Allora, vuole starmi a sentire? è venuto qui ieri, si è diretto subito da me e ha detto: "Sergente, voglio che mi rinchiuda perché ho intenzione di uccidermi". Al che, ho risposto: "Mi dispiace, signore, che voglia uccidersi. Non lo faccia perché, se lo farà, lo rimpiangerà per tutto il resto della vita... Ma sì che sono serio! Mi limito a riferire quello che ho detto. Non sto affatto dicendo che fosse uno scherzo divertente, ma capirà che ho anch'io i miei guai, qui, non so se mi capisce. Crede che non abbia altro da fare che dar retta ai folli che entrano qui per... "Mi dia il modo di arrestarla" ho detto. "Non posso sbatterla in cella solo perché vuole morire. Non è un reato, quello." E lui, allora: " Ma io non voglio morire". Così gli ho detto: "Senta, amico, si levi di torno". Capirà, se un tizio vuole suicidarsi, s'accomodi, se non vuole suicidarsi, meglio così, ma che non venga a piangere sulla mia spalla... Ma sì, sì, continuò. Lui allora mi dice: "Se commetto un reato, mi manderà in prigione?" E io: "Se si fa sorprendere, se qualcuno sporge denuncia contro di lei e se non può pagare la cauzione, lo faremo di certo. E adesso via, circolare". Lui allora ha preso il recipiente dell'inchiostro dalla mia scrivania e, prima che potessi impedirglielo, l'ha capovolto proprio sopra la cartelletta... Ma è la verità! Perché crede che sia stato accusato di danni? L'inchiostro è finito tutto sui miei calzoni... Sì, anche violenza e percosse! Sono saltato giù dalla predella per farlo ragionare, e lui mi ha sferrato un calcio negli stinchi e mi ha mollato un pugno in un occhio... No, che non me lo invento. Venga qui, se non ci crede, e dia un'occhiata alla mia faccia... Uno di questi giorni finirà davanti al magistrato. Credo giovedì, più o meno... Si becca novanta giorni, come minimo, a meno che il parere degli psichiatri non sia un altro. Per conto mio, il suo posto è in manicomio... Ufficialmente, è John Smith. È il solo nome che ha dato... No, signore, non verrà rilasciato senza che vengano compiuti i passi legali necessari... D'accordo, faccia pure, se crede! Io mi limito a fare il mio dovere.
Mankiewicz scaraventò giù il ricevitore, lo guardò come se volesse incenerirlo, poi lo afferrò di nuovo e cominciò a comporre un numero. Disse: - Giannetti? - ebbe la risposta che desiderava e cominciò a parlare.
- Che cos'è la C.E.A.? Ho parlato con un tale, per telefono, il quale dice d'essere... No, testone, non scherzo affatto. Se avessi voglia di scherzare, metterei fuori i manifesti. Allora, che roba sono quelle lettere?
Ascoltò, disse: - Grazie - con voce mogia mogia, e riattaccò.
Aveva perso un po' del suo colorito abituale.
- Il secondo era il capo della Commissione per l'Energia Atomica - spiegò a Brown. - Da Oak Ridge, devono avermi messo in comunicazione con Washington.
Brown si alzò. - Forse questo John Smith è ricercato dall'F.B.I. Forse è uno dei soliti scienziati. - Si sentiva in vena di fare della filosofia. - Certa gente andrebbe tenuta all'oscuro dei segreti atomici. Le cose andavano bene fin tanto che il generale Groves era il solo a sapere della bomba atomica. Ma da quando hanno messo di mezzo questi maledetti scienziati, invece...
- Uff, e piantala - ringhiò Mankiewicz.
Il dottor Oswald Grant teneva gli occhi fissi sulla riga bianca che divideva la carreggiata e trattava la macchina come un nemico personale. Faceva sempre così. Era alto e nervoso, con un'espressione chiusa stampata sulla faccia. Le sue ginocchia quasi toccavano il volante e le nocche diventavano bianche ogni volta che affrontava una curva.
L'ispettore Darrity sedeva accanto a Grant con le gambe accavallate, tanto che la suola della sua scarpa sinistra era schiacciata contro la portiera. Una volta levato il piede di là, sarebbe rimasta un'impronta di polvere. Darrity giocherellava con un temperino, lanciandolo da una mano all'altra. In precedenza, aveva cercato di darsi una pulitina alle unghie con la lama affilata e lucente, ma uno scossone improvviso per poco non gli era costato un dito, e così aveva lasciato perdere.
- Cosa sa dirmi di questo Ralson?
Il dottor Grant distolse per un attimo gli occhi dalla strada, poi ve li riportò.
- Lo conosco da quando si è laureato a Princeton - rispose con un certo disagio. - È un uomo molto brillante.
- Sì, eh? Brillante. Come mai voialtri, uomini di scienza, vi descrivete a vicenda come "brillanti"? Non ci sono, tra voi, le mediocrità?
- Sì molte. Io, per esempio. Ma Ralson non lo è. Lo chieda a chi vuole. A Oppenheimer. A Busch. Era il più giovane, ad Alamogordo.
- D'accordo. Era brillante. E nella vita privata?
Grant aspettò. - Non saprei.
- Lo conosce fin da Princeton. Quanti anni sono?
Stavano viaggiando da un paio d'ore lungo la strada che da Washington si dirigeva a nord, e avevano scambiato sì e no qualche parola. Ora Grant sentiva che l'atmosfera stava cambiando, che la legge lo afferrava per il colletto.
- Si è laureato nel quarantatré.
- Lo conosce da otto anni, allora.
- Sì, esatto.
- E non sa niente della sua vita privata?
- La vita privata di un uomo appartiene a lui solo, ispettore. Ralson non è molto socievole. Del resto pochi lo sono, nel nostro ambiente. Lavorano sempre sotto pressione e, quando sono lontani dalla loro attività, non ci tengono a coltivare le conoscenze di laboratorio.
- Le risulta che appartenesse a qualche organizzazione?
- No.
- Ha mai detto qualcosa da cui si potesse dedurre che non fosse leale?
- No! - urlò Grant, e per un poco regnò il silenzio.
Poi, Darrity domandò: - È importante, Ralson, nella ricerca atomica?
Grant si chinò più che mai sul volante.
- Importante quanto può esserlo un singolo scienziato. Nessuno è indispensabile, questo è chiaro, ma Ralson è sempre stato considerato un tipo fuori del comune. Ha la mentalità dell'ingegnere, lui.
- Che cosa significa?
- Voglio dire che non è un grande matematico, dal punto di vista della teoria pura, ma sa escogitare i congegni che permettono l'applicazione pratica dei calcoli altrui. In questo campo, non c'è nessuno che gli stia alla pari. Più di una volta, ispettore, ci siamo trovati alle prese con un problema senza avere il tempo di studiarci sopra. Stavamo tutti lì a guardarci in faccia, senza sapere che pesci pigliare, finché Ralson ci pensava un momento e diceva: "E se provaste a fare così-e-così?" Poi se ne andava. Non gli interessava neppure sapere se la cosa aveva funzionato. Ma funzionava, immancabilmente. Magari alla fine ci saremmo arrivati anche noi, ma ci sarebbero voluti mesi di tempo. Io non so come faccia. E non serve a niente domandarglielo. Ti guarda e dice: "Ma è ovvio" e ti pianta in asso. Naturalmente, una volta che lui ci ha mostrato come fare, diventa ovvio per tutti.
L'ispettore lo lasciava parlare. Quando capì che l'altro aveva finito, domandò: - L'avrebbe detto un tipo strano, mentalmente? Bizzarro, voglio dire; imprevedibile?
- Quando uno è un genio, non ci si aspetta certo che sia normale, le sembra?
- Forse no. Ma fino a che punto era anormale, questo particolare genio?
- Praticamente non parlava quasi mai. A volte, non lavorava nemmeno.
- Come? Se ne stava a casa e andava a pescare?
- No. Veniva in laboratorio; ma se ne stava seduto al suo tavolo. Tutto lì. A volte continuava così per settimane. Non ti rispondeva, quando gli parlavi; non ti guardava neppure.
- Aveva mai piantato lì il lavoro, alla lettera?
- Prima d'ora? Mai!
- Aveva mai dichiarato di volersi suicidare? O detto di non sentirsi al sicuro, se non in galera?
- No.
- È sicuro che questo John Smith sia Ralson?
- Quasi al cento per cento. Ha una bruciatura sulla guancia destra dovuta a una sostanza chimica, ed è una cicatrice inconfondibile.
- Va bene! Vuol dire che gli parlerò e sentirò un po' che tipo è.
Il silenzio ritornò, e in modo definitivo, questa volta. Il dottor Grant si concentrò sulla linea bianca e l'ispettore Darrity continuò a giocherellare col temperino, facendolo saltare da una mano all'altra.
La guardia carceraria parlò brevemente nel citofono, poi alzò gli occhi sui due visitatori.
- Possiamo farlo portare qui, ispettore. È lo stesso.
- No. - Il dottor Grant scuoteva la testa. - Andiamo noi da lui.
Darrity domandò: - È normale per Ralson, dottor Grant? Si aspetta forse che aggredisca la guardia mentre lo accompagna fuori dalla cella?
- Non saprei - rispose Grant.
La guardia carceraria allargò la mano callosa. Il suo grosso naso si arricciò un poco.
- Finora non abbiamo preso nessuna decisione per lui, a causa di quel telegramma da Washington; ma, francamente, il suo posto non è qui. Sarò ben contento di togliermi questa responsabilità.
- Lo vedremo in cella - concluse Darrity.
Si avviarono lungo il corridoio nudo, interrotto soltanto da porte a sbarre. Occhi spenti, privi di curiosità, seguivano il loro passaggio.
Il dottor Grant si sentiva accapponare la pelle.
- È stato tenuto qui per tutto questo tempo?
Darrity non rispose.
La guardia, che li precedeva di qualche passo, si fermò.
- La cella è questa.
- È il dottor Ralson, quello? - domandò Darrity.
Il dottor Grant fissò in silenzio la figura stesa sulla branda. Al loro arrivo, l'uomo si era sollevato su un gomito e sembrava raggomitolarsi su se stesso come se volesse sparire dentro la parete. Aveva capelli radi e stopposi, una figura magra e sottile e occhi di un azzurro intenso ma privi di espressione. Sulla guancia destra c'era una chiazza rossa, in rilievo, che da un lato si assottigliava e finiva a punta.
- È Ralson - disse Grant.
La guardia aprì la porta ed entrò nella cella ma l'ispettore Darrity, con un cenno, gli intimò di aspettare fuori. Ralson li osservava, muto. Aveva sollevato entrambi i piedi sulla branda e continuava a strisciare all'indietro. Deglutiva e il pomo di Adamo gli andava su e giù.
- Il dottor Elwood Ralson? - domandò tranquillamente Darrity.
- Che cosa volete? - La voce, cosa un po' sorprendente, era baritonale.
- Le dispiacerebbe seguirci? Avremmo alcune domande da rivolgerle.
- No! Lasciatemi in pace!
- Dottor Ralson - disse Grant - sono stato mandato qui per chiederle di ritornare al lavoro.
Ralson guardò l'altro scienziato e nei suoi occhi, per un attimo, balenò qualcosa che non era paura.
- Salve, Grant - disse. Si alzò dalla branda. - Senta, ho cercato di ottenere che mi rinchiudessero in una cella imbottita. Non potrebbe convincerli anche lei? Mi conosce, Grant. Sa bene che non chiederei mai una cosa se non la ritenessi più che necessaria. Mi aiuti. Non sopporto le pareti di cemento. Mi fanno sentire il desiderio di... sbattere... - col palmo della mano diede un gran colpo contro l'intonaco grigio e duro, dietro la branda.
Darrity sembrava pensoso. Tirò fuori il temperino e ne estrasse la lama lucida. Con cura, si pulì l'unghia del pollice, domandando intanto: - Non vuole consultare un medico?
Ma Ralson non gli rispose. Seguiva il luccichio del metallo e le sue labbra si schiudevano a poco a poco. Il respiro gli si era fatto rauco e affannoso.
- Metta via! - disse.
Darrity lo guardò. - Che cosa?
- Il coltello. E non lo tenga davanti a me. È una vista che non sopporto.
- Perché no? - disse Darrity. Mostrava il temperino. - Cos'ha di male? è un bel temperino, questo.
Ralson si slanciò. Darrity indietreggiò e la sua mano destra si abbatté sul polso dell'altro. Sollevò il temperino in aria.
- Cosa c'è, Ralson? Che cosa vuole?
Grant emise un'esclamazione di protesta, ma Darrity gli fece cenno di tacere.
- Che cosa vuole, Ralson? - ripeté.
Ralson tentò di allungarsi per afferrare il coltello, poi si piegò sotto la stretta implacabile dell'ispettore.
- Mi dia quel temperino.
- Perché, Ralson? Che cosa vuole farne?
- La prego. Devo averlo... - supplicava, ora. - Devo smettere di vivere.
- Vuole morire?
- No. Ma devo!
Darrity gli diede una spinta. Ralson barcollò all'indietro e finì sopra la branda, che cigolò rumorosamente. Lentamente, Darrity richiuse il temperino e se lo mise in tasca. Ralson si era coperto la faccia. Le spalle gli tremavano ma, a parte questo, era perfettamente immobile.
Arrivavano grida dal corridoio, mentre gli altri carcerati reagivano al baccano che proveniva dalla cella di Ralson. La guardia ritornò di corsa, gridando: - Zitti! - man mano che avanzava.
Darrity alzò la testa.
- È tutto a posto, guardia.
Si stava asciugando le mani con un fazzolettone bianco.
- Penso - disse - che gli occorra un medico.
Il dottor Gottfried Blaustein era piccolo e bruno e parlava con accento vagamente austriaco. Gli sarebbe bastata una barbetta per impersonare la caricatura dello psichiatra, visto dall'uomo della strada. Ma era rasatissimo e vestito con la massima cura. Guardava attentamente Grant, soppesandolo, facendo mentalmente osservazioni e deduzioni. Gli veniva spontaneo, ormai, con chiunque gli capitasse di incontrare.
- Mi ha tracciato una specie di quadro - disse. - Ha descritto un uomo di grande talento, forse di genio. Mi dice che si è sempre sentito a disagio con gli altri; che non si è mai perfettamente adattato all'ambiente dei laboratori, anche se là aveva toccato l'apice del successo. Esiste un altro ambiente al quale si sia adattato?
- Non capisco.
- Non capita a tutti noi di essere così fortunati da trovare un tipo di compagnia a noi congeniale nel posto o nel campo in cui riteniamo necessario guadagnarci da vivere. Spesso, uno cerca di rifarsi suonando uno strumento, o facendo del podismo, o iscrivendosi a un circolo. In altre parole, uno si crea un nuovo tipo di società, quando non lavora, nella quale possa sentirsi più a suo agio. Non occorre che abbia alcun nesso con l'attività che svolge quando lavora. È un modo di evadere, e non è necessario che sia un vizio.
Sorrise e aggiunse: - Io, per esempio, colleziono francobolli. Sono un membro attivo della Società Americana dei Filatelici.
Grant scosse la testa.
- Non so che cosa facesse durante le ore di riposo. Dubito che avesse un'attività sul genere di quelle che lei ha citato.
- Uhmmm. Bene, sarebbe un vero peccato. La distensione e lo svago si trovano dovunque li si cerchi, ma bisogna pure trovarli da qualche parte, no?
- Ha già parlato con il dottor Ralson?
- Dei suoi problemi? No.
- E non lo farà?
- Oh, sì. Ma è qui da una settimana appena. Bisogna prima dargli la possibilità di riaversi. Era in uno stato di grande eccitazione, quando è arrivato; quasi in delirio. Lasciamo che si riposi e si abitui al nuovo ambiente. Dopo, lo interrogherò.
- Sarà possibile convincerlo a ritornare al lavoro?
Blaustein sorrise. - Come posso saperlo? Non so nemmeno quale sia la sua malattia.
- Non potrebbe liberarlo almeno del male peggiore: di questa mania suicida, voglio dire, e pensare poi al resto della cura mentre lui lavora?
- Forse. Per adesso non potrei nemmeno avanzare un parere, senza prima avere avuto diversi colloqui con lui.
- Quanto tempo pensa che ci vorrà?
- In queste cose, dottor Grant, è impossibile pronunciarsi.
Grant congiunse le mani, battendole l'una contro l'altra.
- Faccia quello che ritiene più opportuno, allora. Ma la cosa è più importante di quanto possa immaginare.
- Non metto in dubbio. Ma forse lei potrebbe aiutarmi, dottor Grant.
- Come?
- Procurandomi alcune informazioni che potrebbero anche essere classificate come segreto di stato.
- Informazioni di che genere?
- Vorrei conoscere il tasso dei suicidi, dal 1945 a oggi, tra gli scienziati nucleari. Inoltre, quanti di loro hanno lasciato i loro impieghi per dedicarsi ad attività scientifiche d'altro tipo, o per abbandonare addirittura la scienza.
- C'entra con Ralson, tutto questo?
- Non pensa che potrebbe essere un male professionale, quella sua terribile infelicità?
- Ecco... molti di noi hanno lasciato i loro incarichi, naturalmente.
- Perché "naturalmente", dottor Grant?
- Devo spiegarle come stanno le cose, dottor Blaustein. Negli ambienti della ricerca atomica si vive sottoposti a continue pressioni e soffocati dalla burocrazia. Si ha a che fare con il governo; si ha a che fare con i militari. Uno non può parlare del suo lavoro; deve stare sempre attento a quello che dice. Naturalmente, quando si presenta l'occasione di un incarico universitario, dove è possibile fissare il proprio orario, svolgere il proprio lavoro, scrivere saggi che non debbano essere sottoposti alla C.E.A., partecipare a convegni che non si svolgano a porte chiuse, la si afferra al volo.
- E si abbandona per sempre il proprio campo di specializzazione.
- Restano sempre le applicazioni di natura civile. Intendiamoci, c'è stato anche un collega che se n'è andato per un'altra ragione. Una volta mi confidò che di notte non poteva dormire. Diceva di udire centinaia di migliaia di lamenti che venivano da Hiroshima, tanto che non aveva più il coraggio di spegnere la luce. L'ultima volta che ebbi sue notizie, era commesso in un negozio di abbigliamento.
- E lei, lamenti non ne ha mai sentiti?
Grant accennò di sì con la testa. - Non è piacevole sapere che sia pure una parte infinitesimale di responsabilità per la distruzione atomica potrebbe essere nostra.
- E Ralson, come la pensava? -
- Non aveva mai fatto discorsi del genere.
- In altre parole, se ne soffriva, non aveva neppure la valvola di sicurezza dello sfogo con i colleghi.
- Penso di no.
- Eppure, la ricerca nucleare va continuata, vero?
- E come!
- Come si comporterebbe, dottor Grant, se sentisse di dover fare qualcosa senza averne la forza?
Grant accennò una stretta di spalle. - Non saprei.
- C'è gente che si uccide, piuttosto.
- Allora è questo che affligge Ralson?
- Non lo so. Come faccio a saperlo? Parlerò stasera stessa con il dottor Ralson. Non posso prometterle niente, intendiamoci, ma per quanto mi sarà possibile la terrò informata.
Grant si alzò. - Grazie, dottore. Cercherò di procurarle quei dati che le servono.
L'aspetto di Elwood Ralson era migliorato, dopo una settimana trascorsa nella casa di cura del dottor Blaustein. Le guance gli si erano riempite e non appariva più così teso e inquieto. Era senza cintura e senza cravatta. Non aveva i lacci alle scarpe.
- Come si sente, dottor Ralson? - chiese Blaustein.
- Riposato.
- È stato trattato bene?
- Non posso lamentarmi, dottore.
Blaustein mosse distrattamente la mano cercando il tagliacarte col quale era solito giocherellare durante i momenti di pausa, ma le sue dita non incontravano niente. Era stato messo via, naturalmente, insieme a qualsiasi altro oggetto tagliente o appuntito. Non c'era niente sullo scrittoio, ora: soltanto carte.
- Si accomodi, dottor Ralson. E i suoi sintomi, come vanno?
- Vuol dire se sento ancora quello che lei chiama impulso suicida? Sì. Migliora o peggiora, a seconda dei miei pensieri, credo. Ma è sempre presente. Non può fare niente per aiutarmi.
- Forse ha ragione. Spesso ci sono cose che non posso alleviare. Ma vorrei sapere tutto il possibile di lei. È un uomo importante...
Ralson sbuffò.
- Non è d'accordo su questo punto? - domando Blaustein.
- No, non sono d'accordo. Non esistono uomini importanti, proprio come non esistono batteri importanti presi in senso individuale.
- Non capisco.
- Né io me l'aspettavo.
- E tuttavia, mi sembra che dietro la sua affermazione debba esserci stato un lungo ragionamento. Sarebbe indubbiamente di grande interesse che lei mi dicesse qualcosa di questo ragionamento.
Per la prima volta, Ralson sorrise. Non era un sorriso amabile.
- È divertente osservarla, dottore. Procede nel suo compito con tanto scrupolo... Lei deve ascoltarmi, dico bene? e deve farlo con quell'aria di falso interesse e di untuosa simpatia. Io potrei dirle le cose più ridicole ed essere ugualmente sicuro del suo ascolto. Non è così?
- Non pensa che il mio interesse possa essere reale, pur ammesso che sia di natura professionale?
- No, non lo credo affatto.
- Perché no?
- Non vale la pena di discuterne.
- Preferisce ritornare in camera?
- Se non le dispiace. Anzi, no! - La sua voce improvvisamente si caricò di collera mentre si alzava di scatto, e, immediatamente, si rimetteva a sedere. - Perché non dovrei servirmi di lei? Non mi piace parlare con gli altri. Sono tutti stupidi. Non vedono più in là del loro naso. Si perdono per ore su cose che saltano agli occhi, ma che per loro non hanno alcun significato. Se parlassi con loro, non capirebbero; perderebbero la pazienza; riderebbero. Mentre lei è tenuto ad ascoltarmi. È il suo mestiere. Non può interrompermi per darmi del matto, anche se in cuor suo lo pensa.
- Sarò ben felice di ascoltarla, qualsiasi cosa voglia dirmi.
Ralson respirò profondamente.
- So una cosa da un anno, ormai, che ben pochi hanno scoperto. Forse è qualcosa che nessun essere vivente conosce. Sa che i progressi della cultura umana avvengono a ondate? Nel corso di due generazioni, in una città di trentamila uomini liberi, si ebbero abbastanza geni letterari ed artistici di prima grandezza da bastare per un secolo, in circostanze normali, a una nazione di milioni di sudditi. Mi riferisco all'Atene di Pericle.
"Ci sono altri esempi. C'è la Firenze dei Medici, l'Inghilterra di Elisabetta, la Spagna degli Emiri cordovani. Vi fu il fiorire di riforme sociali tra gli israeliti dell'ottavo e del settimo secolo prima di Cristo. Capite che cosa voglio dire?"
Blaustein assentì. - La storia è un argomento che l'interessa, vedo.
- Perché no? Non c'è niente che mi obblighi a restringere i miei interessi alla disintegrazione nucleare e alle onde d'urto.
- No, no, assolutamente. Continui, prego.
- Da principio, ho pensato che avrei potuto imparare qualcosa di più sulla vera essenza dei cicli storici se avessi consultato uno specialista. Ebbi alcuni colloqui con uno storico di professione. Una perdita di tempo.
- Come si chiamava, quello storico?
- Ha importanza?
- Forse no, se preferisce tenere le cose per sé. Che cosa le disse?
- Disse che avevo torto; che la storia sembrava soltanto procedere per accessi improvvisi. Disse che, a studiare bene le cose, le grandi civiltà degli egiziani e dei sumeri non erano sorte all'improvviso, o dal niente, ma sulla base di una sotto-civilizzazione dal lungo sviluppo che aveva già raggiunto un grado di raffinatezza nelle sue arti. Disse che l'Atene di Pericle poggiava sopra una Atene pre-periclea di risultati minori, senza la quale l'Atene di Pericle non sarebbe mai esistita.
"Gli domandai perché non vi fosse stata una Atene post-periclea con risultati ancora più alti, e lui mi spiegò che Atene venne rovinata da una pestilenza e da una lunga guerra con Sparta. Gli domandai di altre esplosioni culturali e ogni volta era una guerra che vi aveva posto termine, o che, in alcuni casi, le aveva perfino accompagnate. Era anche lui come gli altri. La verità era lì; lui non doveva fare altro che chinarsi a coglierla; ma non lo faceva."
Ralson fissò il pavimento, poi riprese a parlare, con voce stanca: - Dottore, a volte, in laboratorio, vengono da me. Mi dicono: "Ralson, come diavolo dobbiamo fare per sbarazzarci del tale effetto che rovina tutti i nostri calcoli?". Mi mostrano gli strumenti, i diagrammi, e io dico: "Ma avete la soluzione sotto il naso. Perché non fate così-e-così? La capirebbe anche un bambino". Poi me ne vado, perché non sopporto l'espressione perplessa delle loro facce ottuse. Più tardi, vengono a dirmi: "Avevi ragione. Ralson. Come ci sei arrivato?". Ma io non posso spiegarglielo, dottore; sarebbe come spiegare a quello storico che l'acqua bagna. E così non potrei spiegare a quello storico, né posso spiegare a lei. Sarebbe una perdita di tempo.
- Allora preferisce tornare in camera?
- Sì.
Blaustein, dopo che Ralson era stato scortato fuori del suo studio, rimase per diversi minuti seduto, a meditare. Le sue dita aprirono meccanicamente il cassetto in alto a destra e tirarono fuori il tagliacarte. Poi, continuarono a rigirarlo.
Alla fine, prese il ricevitore e formò un numero che gli era stato dato e che non figurava sull'elenco.
- Parla Blaustein - disse. - Il dottor Ralson, qualche tempo fa, probabilmente da più di un anno, è andato a consultare uno storico di professione. Non so nemmeno se sia un professore universitario. Se poteste trovarmelo, vorrei parlargli.
Thaddeus Milton, dottore in lettere, fissò pensosamente Blaustein e si passò una mano fra i capelli grigi. - Sono venuti da me - disse - e io ho detto che, in effetti, avevo conosciuto quell'uomo. D'altra parte, ho avuto ben poco a che fare con lui. Niente a che fare, anzi, eccettuate poche conversazioni di natura professionale.
- Come andò che si rivolse a lei?
- Mi scrisse una lettera; perché a me, piuttosto che a qualche altro, proprio non saprei. Più o meno in quell'epoca, una serie di miei articoli era stata pubblicata su una rivista semiculturale destinata a un pubblico abbastanza generico. Forse, avrà avuto occasione di leggerli.
- Capisco. E gli articoli quale argomento trattavano, in generale?
- Erano considerazioni sulla validità dei cicli nella visione storica. Vale a dire, se si possa realmente dire che una particolare civiltà debba seguire fasi di sviluppo e di declino in tutto analoghi a quelli riguardanti gli esseri singoli.
- Ho letto Toynbee, dottor Milton.
- Bene, allora sa di che cosa parlo.
- E quando il dottor Ralson è venuto a consultarla - disse Blaustein - l'ha fatto in riferimento ai cicli nella visione storica?
- Mah! Sotto un certo aspetto, direi di sì. Naturalmente, Ralson non è uno storico e alcuni suoi concetti sugli andamenti culturali sono piuttosto drammatici e... come dire...? a carattere sensazionale. Scusi, dottore, se le faccio una domanda che potrà sembrare scorretta. Il dottor Ralson è uno dei suoi pazienti?
- Il dottor Ralson non sta molto bene ed è affidato alle mie cure. Questo, e altro che potrà venir detto qui, è confidenziale, s'intende.
- Stia tranquillo. Capisco benissimo. Tuttavia, la sua risposta mi spiega alcune cose. Alcune idee di Ralson rasentavano l'irrazionale. Si preoccupava molto, così mi è parso, del rapporto tra quelli che lui chiamava "accessi culturali" e le calamità di vario genere. Ora, tali rapporti sono stati notati con frequenza. Il momento di massima vitalità di una nazione può spesso coincidere con una fase di grande insicurezza nazionale. L'Olanda costituisce un buon esempio. I suoi grandi artisti, uomini di stato ed esploratori appartengono alla prima parte del diciassettesimo secolo, periodo in cui l'Olanda era impegnata in una lotta mortale con la massima potenza europea di allora, la Spagna. Mentre sul territorio nazionale la distruzione sembrava imminente, l'Olanda si stava costruendo un impero nell'Estremo Oriente e si era creata basi sulla costa settentrionale del Sud America, sulla punta meridionale dell'Africa e nella Valle dell'Hudson, nell'America del Nord. La sua flotta mise in crisi l'Inghilterra. E poi, una volta trovata la propria stabilità politica, ecco che cominciò a declinare.
"Bene, come dicevo, non è un fatto insolito. I gruppi, come gli individui, s'innalzano a incredibili altezze in risposta a una sfida, mentre, in assenza di una sfida, vegetano. Dove il dottor Ralson si allontanava dal sentiero della logica, tuttavia, era nell'insistere che tale teoria tendesse a confondere la causa con l'effetto. A sentir lui, non erano i momenti di guerra e di pericolo a stimolare gli 'accessi culturali', bensì viceversa. Affermava che, ogni qualvolta un gruppo di individui mostrava troppa vitalità e abilità, una guerra si rendeva necessaria per distruggere la possibilità di un loro ulteriore sviluppo.
- Capisco - disse Blaustein.
- Mi dispiace ma... per poco non gli risi in faccia. Forse sarà per questo che non ha mantenuto l'ultimo nostro appuntamento. Proprio verso la fine dell'ultima seduta, lui mi domandò, e non le dico con quanta serietà e convinzione, se non giudicassi strano che una specie assurda come la razza umana dominasse la Terra, quando tutto quello che l'uomo aveva in suo favore era l'intelligenza. Al che, risi apertamente. Forse ho fatto male, povero diavolo.
- È stata una reazione naturalissima - disse Blaustein. - Ma non voglio farle perdere altro tempo. Mi è stato di grande aiuto, professore.
Si strinsero la mano, poi Thaddeus Milton prese congedo.
- Bene - disse Darrity - ecco qui i dati sui recenti suicidi tra il personale scientifico. Riesce a cavarne qualche deduzione?
- Dovrei farla io, questa domanda - obiettò gentilmente Blaustein. - Senza dubbio l'F.B.I. avrà indagato a fondo.
- Può scommetterci l'intero debito nazionale, su questo. Sono suicidi autentici. Non c'è alcun dubbio. Il tasso è quattro volte superiore al normale, tenuto conto dell'età, della condizione sociale e del livello economico.
- E per quanto riguarda gli scienziati inglesi?
- Suppergiù la stessa cosa.
- E l'Unione Sovietica?
- E chi lo sa? - L'investigatore si protese in avanti. - Dottore, non penserà che i sovietici abbiano una specie di raggio capace di invogliare la gente al suicidio, vero? Certo è un po' sospetto che solo gli addetti alle ricerche atomiche vadano soggetti a questa tendenza.
- Sospetto? Forse no. I fisici nucleari potrebbero essere soggetti a una particolare carica di tensione. È difficile dirlo senza aver compiuto uno studio accurato.
- Vuol dire che i complessi potrebbero cominciare a farsi sentire? - domandò Darrity, cauto.
Blaustein fece una smorfia.
- La psichiatria sta diventando troppo popolare. Tutti parlano di complessi, di nevrosi, di psicosi, di coercizioni e via discorrendo. Il complesso di colpa di un individuo equivale, per un altro, a una buona dormita. Se potessi parlare con ciascuno di quelli che si sono suicidati, forse potrei sapere qualcosa.
- Ma parla con Ralson.
- Già, parlo con Ralson.
- Ce l'ha, lui, il complesso di colpa?
- Non molto accentuato. Ha un passato dal quale non mi meraviglierei se gli provenisse un morboso desiderio di morte. A dodici anni, vide la madre morire travolta da un'automobile. Poi, il padre gli morì lentamente, di cancro. Tuttavia, l'effetto di quelle esperienze sui suoi problemi attuali non è molto chiaro.
Darrity prese il cappello.
- Bene, dottore, vorrei che accorciasse un po' i tempi. C'è qualcosa di grosso, in pentola, di ancor più grosso della Bomba H. Non so che cosa ci potrebbe essere di più grosso di così, eppure... c'è.
Ralson insisté per rimanere in piedi. - Ho passato una notte pessima, dottore.
- Spero che queste sedute non la turbino - disse Blaustein.
- Be', forse sì. Mi riportano alla mente l'argomento. Le cose peggiorano, quando ci penso. Che effetto fa secondo lei, dottore, sentirsi parte di una coltura microbica?
- Veramente non ci ho mai pensato. A un batterio, probabilmente, deve sembrare assolutamente normale.
Ralson non udì. Continuò lentamente: - Una coltura in cui viene studiata l'intelligenza. Noi studiamo ogni sorta di cose per quanto riguarda i loro rapporti genetici. Prendiamo le mosche della frutta e incrociamo quelle dagli occhi rossi con quelle dagli occhi bianchi per vedere che cosa succede. Non c'importa niente degli occhi rossi e degli occhi bianchi, ma cerchiamo di estrarne alcuni basilari principi genetici. Capisce quello che voglio dire?
- Certamente.
- Perfino negli esseri umani, possiamo seguire varie caratteristiche fisiche. C'è il "labbro" degli Asburgo e l'emofilia che, partendo dalla Regina Vittoria, si è sviluppata nei suoi discendenti tra le famiglie reali russa e spagnola. Possiamo perfino seguire le caratteristiche di ebetismo e di criminalità di antiche famiglie americane. Sono cose che s'imparano al liceo. Ma non si possono riprodurre gli esseri umani come si fa con le mosche della frutta. Gli uomini vivono troppo a lungo. Occorrerebbero secoli per trarre delle conclusioni. È un vero peccato non avere una razza speciale di uomini che si riproducano a intervalli di settimane, no?
Aspettò la risposta dell'altro, ma Blaustein si limitava a sorridere.
Ralson continuò: - Soltanto che è esattamente quello che saremmo tutti noi per un altro gruppo di esseri il cui arco vitale si estendesse per migliaia di anni. Per loro, noi ci riprodurremmo abbastanza velocemente. Saremmo creature dalla vita breve e loro potrebbero studiare il meccanismo genetico di caratteristiche come il talento musicale, la mentalità scientifica e così via. Non che queste cose sarebbero interessanti per loro in quanto tali, proprio come non c'interessano, in quanto tali, gli occhi bianchi della mosca della frutta.
- È un concetto molto interessante - disse Blaustein.
- Non è soltanto un concetto. È la verità. Per me, salta agli occhi, e non m'importa di come la vede lei. Si guardi attorno. Guardi questo pianeta, la Terra. Per quale ragione dovremmo essere noi i signori del mondo quando non ci sono riusciti i dinosauri? D'accordo, noi siamo intelligenti, ma che cos'è l'intelligenza? La riteniamo importante perché l'abbiamo. Se il dinosauro avesse potuto scegliere la qualità capace, secondo lui, di assicurare il dominio della sua specie, avrebbe indicato la dimensione e la forza. E non avrebbe avuto tutti i torti, del resto.
"L'intelligenza, in sé, non vale molto ai fini della sopravvivenza. L'elefante se la cava molto male a paragone del passero, e sì che è molto più intelligente. Il cane tira avanti abbastanza bene, sotto la protezione dell'uomo, ma non quanto la mosca comune, contro la quale ogni mano umana è pronta ad alzarsi. Oppure, prendiamo i primati nel loro insieme. I più piccoli cercano di sparire davanti al nemico; i più grandi riescono a stento a cavarsela. Quello che se la passa meglio di tutti è il babbuino, e questo grazie ai suoi denti, non al suo cervello."
Un sottile velo di sudore copriva la fronte di Ralson.
- Ed è facile vedere che l'uomo è stato fatto su misura, secondo le precise indicazioni degli esseri che ci studiano. Generalmente, i primati hanno una vita breve. Naturalmente, i più grandi vivono più a lungo; è una regola abbastanza diffusa nella vita animale. Tuttavia, l'essere umano ha un arco di vita che è il doppio di quello delle grandi scimmie: più a lungo perfino di quello del gorilla, che pure pesa più di lui. Noi maturiamo più lentamente. È come se fossimo stati volutamente allevati per vivere un po' più a lungo, così che il nostro ciclo vitale fosse di durata più conveniente.
Balzò in piedi, scuotendo il pugno verso l'alto. - Mille anni sono come ieri...
Blaustein schiacciò in fretta un bottone.
Per un attimo, Ralson si divincolò per sottrarsi all'inserviente vestito di bianco che era entrato, poi si lasciò trascinare via.
Blaustein lo seguì con lo sguardo, scuotendo la testa, poi si attaccò al telefono.
Si fece passare Darrity.
- Ispettore, tanto vale che lo sappia. La faccenda minaccia di andare per le lunghe.
Ascoltò, poi scrollò la testa. - Lo so. Non minimizzo l'urgenza.
La voce nel ricevitore era aspra e metallica. - Sì che la minimizza, dottore. Le manderò il dottor Grant. Penserà lui a spiegarle la situazione.
Grant s'informò di come stesse Ralson, poi, quasi a malincuore, domandò se poteva vederlo. Blaustein accennò garbatamente di no.
Grant disse: - Sono stato incaricato di illustrarle la situazione attuale riguardo alle ricerche atomiche.
- In modo che io possa capire, vero?
- Lo spero. È un passo disperato, dottore. Debbo ricordarle...
- Di non farne parola con anima viva. Sì, lo so. Quest'insicurezza da parte vostra è un gran brutto sintomo. Dovreste pur sapere che queste cose non si possono tenere nascoste.
- Viviamo immersi nella segretezza. Ed è contagiosa.
- Appunto. Qual è il segreto del momento?
- C'è... o almeno, potrebbe esserci una difesa contro la bomba atomica.
- E questo è un segreto? Sarebbe meglio che venisse gridato subito ai quattro venti.
- Per amor del cielo, no! Mi ascolti, dottor Blaustein. Per adesso, è solo sulla carta. È ancora allo stadio: E = mc2, si può dire. Sarebbe un guaio dare adito a speranze, col rischio di doverle deludere. D'altro canto, se si sapesse che siamo quasi in possesso di una difesa, potrebbe nascere il desiderio di scatenare e vincere una guerra prima che la difesa sia completamente sviluppata.
- Questo non lo credo. Ma comunque non voglio distrarla. Qual è la natura di questa difesa, o mi ha già detto il massimo che poteva darmi?
- No, posso spingermi fin dove crede; fin dove sarà necessario per convincerla che dobbiamo riavere Ralson... e presto!
- Bene, parli allora, così anch'io conoscerò qualche segreto. Mi sentirò come un membro del Gabinetto.
- Pochi ne sapranno quanto lei. Aspetti, dottor Blaustein, lasci che mi spieghi in linguaggio da profano. Finora, i progressi militari erano andati avanti quasi di pari passo sia nel campo offensivo sia in quello difensivo. Già una volta era sembrato che la bilancia dovesse pendere in maniera definitiva e permanente in favore dell'offesa, e fu quando fu inventata la polvere da sparo. Ma la difesa riconquistò il terreno perduto. Il cavaliere in armatura medievale divenne il moderno carrista, e il castello di pietra si trasformò nel fortino di cemento armato. La stessa cosa, in sostanza, tranne che tutto era stato aumentato di diversi ordini di grandezza.
- Benissimo. Riesce a essere molto chiaro. Ma, con la bomba atomica, saltano fuori altri ordini di grandezza, è così?
- Esattamente. Solo che non possiamo fare mura sempre più spesse. Abbiamo esaurito i materiali sufficientemente robusti. Perciò, dobbiamo abbandonare i materiali. Se l'atomo attacca, dobbiamo far sì che l'atomo difenda. Ci serviremo dell'energia stessa; un campo di forza.
- E che cosa sarebbe - domandò gentilmente Blaustein - un campo di forza?
- Vorrei poterlo spiegare. Per adesso è un'equazione sulla carta. L'energia può venire incanalata in modo da creare un muro di inerzia immateriale, almeno in teoria. In pratica, non sappiamo come fare.
- Sarebbe un muro che non può essere sfondato, è così? Nemmeno dagli atomi.
- Nemmeno dalle bombe atomiche. Il solo limite alla sua resistenza sarebbe la quantità di energia che potremmo immettervi. Sempre in teoria, sarebbe impermeabile perfino alle radiazioni. I raggi gamma rimbalzerebbero lontano. Quello che noi sogniamo è uno schermo che andrebbe collocato in permanenza intorno alle città; a un'intensità minima, usando un quantitativo quasi inesistente di energia. Ma potrebbe essere portato all'intensità massima in una frazione infinitesima di secondo, facendo interferire una radiazione a onda corta; diciamo l'energia che si irradia da una massa di plutonio abbastanza grande per essere un'ogiva atomica. Tutto questo è teoricamente possibile.
- E perché vi serve Ralson?
- Perché è il solo che possa tradurre la cosa in pratica, ammesso che sia possibile, con sufficiente rapidità. Al giorno d'oggi, ogni minuto è prezioso. Sa quale sia la situazione internazionale. La difesa atomica deve arrivare prima della guerra atomica.
- È così sicuro di Ralson?
- Sono sicuro di lui nella misura in cui è possibile essere sicuri di qualcosa. È un uomo incredibile, dottor Blaustein. Ha sempre ragione. Nessuno, nel nostro campo, riesce a spiegarsi come faccia.
- Una specie di intuito, no? - Lo psichiatra sembrava turbato. - Una sorta di ragionamento che vada al di là delle normali capacità umane?
- Non mi arrischio neppure a cercare di stabilire cosa sia.
- Lasci, allora che gli parli ancora una volta. Poi le farò sapere.
- Bene. - Grant si alzò, come per prendere congedo; poi, quasi ripensandoci, disse: - Vorrei avvertirla, dottore, che se non farà qualcosa, la Commissione ha intenzione di togliere il dottor Ralson dalle sue mani.
- Per tentare con un altro psichiatra? Se desiderano farlo, naturalmente, non sarò io a oppormi. Sono del parere, tuttavia, che nessun professionista serio potrà asserire che esista una cura rapida.
- Non alludevo a ulteriori cure mentali. Ralson potrebbe essere semplicemente rimesso al lavoro.
- In questo caso, dottor Grant, mi opporrò con tutte le mie forze. Non caverete niente da lui. E sarà la sua morte.
- Non caviamo niente da lui in nessun modo.
- Ma così resta almeno una speranza, no?
- Speriamo. Ma, tra parentesi, non faccia cenno neppure al fatto che ho parlato di portare via Ralson.
- Non lo farò, e grazie per avermi avvertito. Arrivederci, dottor Grant.
- L'ultima volta mi sono comportato da idiota, vero, dottore? - disse Ralson. Sembrava accigliato.
- Vuol dire che non crede più a quello che aveva detto?
- Ci credo! - L'esile persona di Ralson tremò per l'intensità di quell'affermazione.
Poi Ralson corse alla finestra, e Blaustein fece ruotare un poco la poltrona, per non perderlo d'occhio. Ma c'erano le sbarre, alla finestra. Non era possibile saltar giù. Quanto ai vetri, erano infrangibili.
Il crepuscolo si spegneva e stavano spuntando le prime stelle. Ralson le fissava, affascinato, poi si girò verso Blaustein e puntò un dito verso l'esterno.
- Ogni singola stella è un'incubatrice. Loro ne mantengono la temperatura al grado desiderato. Esperimenti diversi; temperature diverse. E i pianeti non sono che enormi colture, contenenti svariati "brodi" nutrienti e svariate forme di vita. Gli sperimentatori chiunque essi siano - seguono criteri economici. Hanno coltivato molti tipi di vita in questa particolare provetta. I dinosauri in un'era umida e tropicale, e noi umani tra i ghiacciai. Accendono e spengono il sole, e noi qui, a cercare di studiarne le leggi fisiche! Leggi fisiche! - Tese le labbra, come se ringhiasse.
- Non è possibile che il sole venga acceso e spento a volontà - obiettò Blaustein.
- Perché non è possibile? Il sole è come l'elemento riscaldante di un forno. Crede che i batteri sappiano come funziona il calore che arriva fino a loro? Che cosa ne sappiamo? Forse anche loro sviluppano teorie. Forse hanno le loro cosmogonie sulle catastrofi cosmiche. Forse pensano che un creatore benefico li rifornisca di cibo e di calore, dicendo loro: "Crescete e moltiplicatevi".
"Noi ci riproduciamo come loro, senza sapere perché. Obbediamo alle cosiddette leggi di natura, che poi sono soltanto la nostra interpretazione di forze incomprensibili alle quali siamo soggetti.
"E ora, stanno lavorando al più grosso esperimento che avessero finora tentato. È in atto da ben duecento anni. Gli sperimentatori, nel millesettecento, decisero di sviluppare una tendenza all'attività meccanica. L'esperimento è partito dall'Inghilterra e noi l'abbiamo chiamato Rivoluzione Industriale. Prima c'è stato il vapore, poi l'elettricità, adesso gli atomi. L'esperimento era interessante ma gli sperimentatori hanno rischiato un po' troppo nel lasciarne dilagare gli effetti. Ed ecco perché dovranno essere molto drastici nel mettervi fine."
- E in che modo avrebbero in programma di concluderlo? - domandò Blaustein. - Ha un'idea, in proposito?
- Lo domanda a me, come vogliono concluderlo? Può guardarsi attorno, e vedere dov'è arrivato il mondo, e tuttavia domanda a me che cosa metterà fine alla nostra era tecnologica. La Terra intera teme una guerra atomica e farebbe qualsiasi cosa pur di evitarla; eppure, la Terra intera pensa che una guerra atomica sia inevitabile.
- In altre parole, gli sperimentatori, che lo vogliamo o no, disporranno in modo che la guerra atomica ci sia, per distruggere l'era tecnologica in cui ci troviamo e ricominciare tutto da capo. È così, vero?
- Sì. Ed è logico. Quando noi sterilizziamo uno strumento, lo sanno, i germi, da dove viene il calore che uccide? O che cosa l'ha prodotto? Esiste un modo mediante il quale gli sperimentatori possono aumentare il calore delle nostre passioni; un modo in cui possono manovrarci, che sfugge alla nostra comprensione.
- Mi dica - domandò Blaustein - È per questo che vuole morire? Perché pensa che la distruzione della civiltà stia per sopraggiungere e non possa essere evitata?
- Non voglio morire - disse Ralson - solo che... devo, capisce? - I suoi occhi esprimevano tormento. - Dottore, se avesse una coltura di bacilli altamente pericolosi e da tenere sotto assoluto controllo, non ricorrerebbe a una specie di schermo gelatinoso impregnato di... di penicillina, diciamo, da disporre a una certa distanza tutto attorno al centro di inoculazione? Qualsiasi germe si avventurasse un po' troppo lontano dal centro, morirebbe. Non avrebbe niente contro quel particolare germe rimasto distrutto; potrebbe perfino ignorare che qualche germe si fosse spinto fin là. Sarebbe un fatto puramente automatico.
"Dottore, c'è un anello di penicillina intorno ai nostri intelletti. Quando ci spingiamo troppo in là; quando penetriamo il vero significato della nostra esistenza, abbiamo sconfinato nella penicillina e dobbiamo morire. L'effetto è lento: però è difficile sottrarvisi."
Sorrise brevemente, con tristezza. - Potrei ritornare in camera mia, ora, dottore?
Il giorno dopo, verso mezzogiorno, il dottor Blaustein salì nella stanza di Ralson. Era una cameretta molto simile a una cella. Le parti imbottite erano grigie. I materassi giacevano direttamente sul pavimento imbottito. Non c'era nessun oggetto metallico, nella stanza; niente che potesse essere utilizzato per togliersi la vita. Perfino le unghie di Ralson erano tagliate ben corte.
Ralson si alzò. - Salve!
- Buongiorno, dottor Ralson. Possiamo parlare un momento?
- Qui? Non posso neppure offrirle una sedia.
- Non importa, resterò in piedi. Faccio un lavoro sedentario e mi fa bene, ogni tanto, rimanere un po' in piedi. Dottor Ralson, ho pensato tutta la notte a quello che m'ha detto ieri e nei giorni scorsi.
- E ora vuole sottopormi a una cura per liberarmi di quelle che, secondo lei, sono fissazioni.
- No. Vorrei piuttosto farle delle domande e forse farle notare alcune conseguenze delle sue teorie, conseguenze alle quali... mi perdona se lo dico...? alle quali forse non ha pensato.
- Davvero?
- Vede, dottor Ralson, da quando mi ha esposto le sue teorie, anch'io, ormai, so quello che sa lei. Eppure, io non penso affatto a suicidarmi.
- La convinzione è qualcosa di più della cognizione, dottor Blaustein. Dovrebbe credere a quelle teorie con tutto il suo essere, e non è il suo caso.
- Non pensa che possa trattarsi piuttosto di un fenomeno di adattamento?
- In che senso?
- In fondo lei non è un biologo, dottor Ralson. E sebbene, come fisico, sia eccezionalmente brillante, non ha pensato a tutto quello che può accadere a quelle colture batteriche di cui si serve come analogia. Come sa, è possibile ottenere colture di microbi resistenti alla penicillina o a qualsiasi altro veleno.
- Ebbene?
- Gli sperimentatori che ci allevano hanno lavorato con l'umanità per molte generazioni, no? E questa particolare tendenza che stanno coltivando da due secoli non mostra in alcun modo di volersi estinguere spontaneamente. Al contrario, sembra una vena piuttosto vitale e molto infettiva. Tentativi più antichi di coltura intensiva vennero confinati in singole città o in aree limitate e durarono soltanto una generazione o due. Stavolta, le caratteristiche si estendono a tutto il mondo. È una tendenza molto infettiva. Non pensa che i bacilli, stavolta, possano avere sviluppato l'immunità contro la penicillina? In altre parole, i metodi che gli sperimentatori usano per spazzar via la coltura potrebbero non funzionare più come una volta.
Ralson scosse la testa. - Su di me, funzionano.
- Forse lei non è resistente. O è incappato in una concentrazione di penicillina particolarmente densa. Pensi a tutti coloro che stanno cercando di mettere al bando gli armamenti atomici e di stabilire forme di governo mondiale allo scopo di ottenere una pace durevole Gli sforzi sono aumentati, in questi ultimi anni, e i risultati si cominciano a vedere.
- Nessuno è ancora riuscito a impedire lo scoppio di una guerra atomica.
- No, ma forse tutto quello che manca è un altro piccolo sforzo. Gli avvocati della pace non si uccidono. Cresce di continuo il numero di umani immunizzati contro gli sperimentatori. Sa che cosa stanno facendo, nel suo laboratorio?
- Non voglio saperlo.
- Ma deve saperlo, invece. Stanno cercando di creare un campo di forze che fermi la bomba atomica. Dottor Ralson, se io coltivo un batterio virulento e patologico, può anche capitarmi, pur con tutte le precauzioni, di scatenare un'epidemia. Per gli sperimentatori, saremo batteri, non discuto, ma siamo lo stesso pericolosi, o non ci spazzerebbero via con tanta cura dopo ogni esperimento.
"Loro non sono rapidi, vero? Per loro, un millennio è un giorno, vero? Prima che loro si accorgano che siamo sfuggiti dal "brodo", diciamo così, e che abbiamo superato lo sbarramento di penicillina, potrebbe essere troppo tardi per fermarci. Ci hanno portato fino all'atomo e, se solo riusciamo a impedire a noi stessi di usarlo gli uni contro gli altri, potremmo rivelarci pane troppo duro perfino per i denti degli sperimentatori."
Ralson si alzò dal materasso. Sebbene non fosse alto, superava Blaustein di qualche centimetro.
- Davvero stanno lavorando a un campo di forza?
- Stanno cercando. Ma hanno bisogno di lei.
- No. Io non posso.
- Devono averla là, perché possa subito aiutarli in cose che per lei sono evidenti. Per loro, non sono evidenti affatto. Ci pensi, occorre il suo aiuto, altrimenti... sarà la prima disfatta dell'uomo per mano degli sperimentatori.
Ralson mosse rapidamente alcuni passi, fissando la parete grigia e imbottita.
- Ma la disfatta deve esserci - mormorò. - Se gli umani costruissero quel campo di forze, sarebbe la fine per tutti loro prima di poterlo completare.
- Alcuni di loro potrebbero essere immuni, no? E, in ogni caso, per loro sarà la fine ugualmente. Perciò stanno tentando.
- Cercherò di aiutarli - disse Ralson.
- Sente sempre il desiderio di uccidersi?
- Sì.
- Ma cercherà di non farlo, vero?
- Mi sforzerò di non farlo, dottore. - A Ralson tremavano le labbra. - Ma bisognerà sorvegliarmi continuamente.
Blaustein salì gli scalini e presentò il lasciapassare alla guardia dell'atrio. Era già stato sottoposto a ispezione al cancello esterno ma ora la sua persona, il suo lasciapassare e la sua firma venivano fatti oggetto di un nuovo controllo. Dopo un momento, la guardia si ritirò nel suo sgabuzzino e fece una telefonata. La risposta fu soddisfacente. Blaustein si mise a sedere e, mezzo minuto dopo, era di nuovo in piedi per stringere la mano al dottor Grant.
- Lo stesso presidente degli Stati Uniti avrebbe difficoltà ad arrivare quassù, no? - disse Blaustein.
Lo scienziato sorrise. - Proprio così, se venisse senza preavviso.
Presero un ascensore che li portò fino al dodicesimo piano. L'ufficio verso il quale Grant fece strada aveva finestre che si affacciavano su tre lati. Era isolato acusticamente e ad aria condizionata. I mobili di noce erano ben tenuti e lucidissimi.
- Santo cielo - commentò Blaustein - sembra l'ufficio di un presidente di consiglio d'amministrazione. La scienza comincia ad assomigliare all'alta finanza.
Grant sembrava imbarazzato. - Sì, lo so, ma il denaro dello stato scorre facilmente ed è difficile persuadere un congressista che fai un lavoro importante se non gli fai toccare con mano la superficie esterna.
- Blaustein sedette e si sentì sprofondare lentamente nella poltrona imbottita.
- Il dottor Elwood Ralson - annunciò - acconsente a riprendere il lavoro.
- Meraviglioso! Speravo tanto che mi dicesse questo.
Come ispirato dalla buona notizia, Grant offrì un sigaro allo psichiatra, che rifiutò.
- Tuttavia - disse Blaustein - È sempre un uomo molto malato. Dovrà essere trattato con cura e con infinite precauzioni.
- Sì, certo. È naturale.
- Forse non sarà semplice come pensa. Voglio parlarle un poco dei problemi di Ralson, affinché possa comprendere quanto sia delicata la situazione.
Continuò a parlare e Grant l'ascoltò da principio preoccupato, poi stupefatto.
- Ma allora quell'uomo è pazzo, dottor Blaustein. Non ci servirà a niente. È uscito completamente di senno.
Blaustein si strinse nelle spalle.
- Dipende da come vogliamo definire la pazzia. "Pazzo" è una brutta parola, io non la uso mai. Ralson ha delle fissazioni, siamo d'accordo. Ma è impossibile stabilire se queste influiscano o meno sul suo talento.
- Ma senza dubbio! Nessun uomo sano di mente potrebbe...
- La prego, la prego! Non lanciamoci in una discussione sulle definizioni psichiatriche di sanità mentale e via dicendo. Il nostro uomo ha delle idee fisse e, in circostanze normali, mi guarderei bene dal prenderle sul serio. Solo che, a quanto mi è dato capire, l'abilità particolare di quest'uomo sta nel procedere alla soluzione di un problema grazie a ragionamenti che pare esulino dai processi logici normali. È così, no?
- Si. Questo bisogna riconoscerlo.
- E allora come possiamo, lei e io, giudicare il valore di una delle sue conclusioni? Lasci che glielo domandi, ha provato impulsi suicidi, ultimamente?
- Non mi pare.
- E gli altri scienziati, qui?
- No, no, che idea!
- Consiglierei, tuttavia, che mentre procedono le ricerche sul campo di forze, gli scienziati impegnati in tale senso vengano sorvegliati qui e a casa. Sarebbe anzi una buona misura non lasciarli neppure andare a casa. Uffici come questo, per esempio, potrebbero essere adibiti a dormitori...
- Dormire in laboratorio? Non acconsentirebbero mai.
- Oh, sì. Se non dirà loro la vera ragione, e dirà invece che si tratta di una misura di sicurezza, acconsentiranno. Al giorno d'oggi, "misura di sicurezza" è una parola meravigliosa, no? E Ralson dovrà essere sorvegliato più di chiunque altro.
- S'intende.
- Ma tutto questo è secondario. Va fatto solo per mettere in pace la mia coscienza, nell'eventualità che le teorie di Ralson fossero esatte. In effetti, io non ci credo: sono soltanto fissazioni. Ma, una volta stabilito questo, è necessario domandarsi quali siano le cause di tali fissazioni. Che cosa c'è nella mente di Ralson, nel suo passato, nella sua vita, che gli rende così necessario soffrire di quelle particolari fissazioni? Non è una risposta semplice da dare. Potrebbero essere necessari anni di costante psicanalisi per trovare la soluzione. E, finché non l'avremo trovata, Ralson non guarirà.
"Ma, nel frattempo, possiamo forse avanzare ipotesi intelligenti.
Ralson ha avuto un'infanzia molto infelice che, per un verso o per l'altro, l'ha messo faccia a faccia con la morte, e nel modo più sgradevole. In aggiunta, non è mai stato in grado di vivere a contatto con altri bambini o, fatto adulto, con altri uomini. Le loro forme di ragionamento, più lente, riuscivano solo a spazientirlo. Qualunque sia la differenza tra la sua mente e quella degli altri, questa differenza ha eretto una barriera tra lui e la società, impenetrabile quanto il campo di forza che state tentando di progettare. Per ragioni analoghe, non ha potuto godere di una normale vita sessuale. Non si è mai sposato; non ha mai avuto donne.
"È facile capire come possa avere tentato di compensare la mancanza di contatti umani rifugiandosi nel pensiero che gli altri essere umani sono inferiori a lui. Il che è vero, naturalmente, almeno per quanto riguarda le facoltà intellettive. Ma la personalità umana ha infinite sfaccettature, e non in tutte lui è superiore. Nessuno lo è.
"Altri, perciò, disposti anche loro a vedere soltanto quello che è inferiore, proprio come nel suo caso, non avranno accettato la sua ostentata superiorità. L'avranno giudicato strano, o addirittura ridicolo, il che avrà reso anche più importante, per Ralson, dimostrare fino a che punto la specie umana fosse miserabile e inferiore. E quale mezzo migliore per riuscirci, del dimostrare che l'umanità era soltanto un insieme di batteri per altre creature d'ordine superiore, che su questi batteri eseguivano esperimenti? A questo punto, i suoi impulsi suicidi possono essere spiegati come un desiderio selvaggio di sottrarsi completamente al fatto d'essere un uomo; di mettere fine all'identificazione con la specie miserabile creata dalla sua stessa mente. Capisce?"
Grant assentiva. - Povero diavolo.
- Sì, è un peccato. Se fosse stato curato come si deve, nell'infanzia... Bene, è consigliabile che il dottor Ralson non abbia contatti con il resto del personale. È troppo malato per essere lasciato in mezzo agli altri. Lei, personalmente, deve disporre in modo da essere l'unico a vederlo o a parlargli. Il dottor Ralson è d'accordo, su questo. A quanto pare, ritiene che lei non sia stupido come la maggior parte degli altri.
Grant sorrise debolmente. - Mi fa piacere.
- Naturalmente, dovrà stare molto attento. Non discuterete d'altro che di lavoro. Se dovesse spontaneamente esporle le sue teorie, ma ne dubito, si limiterà a risposte vaghe, senza compromettersi, e si allontanerà. E deve assolutamente tenerlo lontano da qualsiasi oggetto tagliente o appuntito. Non gli permetta di avvicinarsi alle finestre. Non lo perda d'occhio. Lei mi capisce: io affido il mio paziente alle sue cure, dottor Grant.
- Farò del mio meglio, dottor Blaustein.
Per due mesi, Ralson visse in un angolo dell'ufficio di Grant, e Grant visse con lui. Le finestre erano state munite di inferriate, i mobili di legno sostituiti con divani imbottiti. Ralson faceva le sue riflessioni seduto sul divano e i suoi calcoli su un blocco appoggiato sopra un cuscino.
Il cartello "Non disturbare" era appeso in permanenza alla maniglia esterna. I pasti venivano lasciati nel corridoio. La toilette attigua all'ufficio era stata destinata a uso privato, e la porta che comunicava con l'ufficio era stata tolta. Grant si era procurato un rasoio elettrico. Si assicurava che Ralson prendesse ogni sera le pillole per dormire e non si coricava finché l'altro non si era addormentato.
E, sempre, i rapporti venivano sottoposti a Ralson. Lui li leggeva mentre Grant l'osservava senza averne l'aria.
Poi, Ralson li lasciava cadere e fissava il soffitto, facendosi schermo agli occhi con una mano.
- Niente? - domandava Grant.
Ralson scuoteva la testa.
Un giorno Grant disse: - Senta, farò sgomberare completamente l'edificio. È importante che veda alcune delle strutture sperimentali che abbiamo montato.
Così fecero, vagabondando attraverso gli stanzoni deserti e illuminati, come due fantasmi, mano nella mano. Si tenevano sempre per mano. La stretta di Grant era forte. Ma, dopo ogni giro, Ralson continuava a scuotere la testa.
Una mezza dozzina di volte parve accingersi a scrivere; ogni volta scarabocchiava qualcosa, poi scaraventava il cuscino da un lato.
Finché, un bel giorno, cominciò a scrivere e riempì mezza pagina rapidamente. Con gesto automatico, Grant si avvicinò. Ralson alzò la testa, coprendo il foglio di carta con mano tremante.
- Chiami Blaustein - disse.
- Come?
- Ho detto di chiamare Blaustein. Lo faccia venire qui. Subito!
Grant corse al telefono. Ralson scriveva rapidamente, ora, fermandosi solo per passarsi sulla fronte il dorso della mano sinistra, che ritirava tutta bagnata.
A un tratto guardò in su e chiese con voce stravolta: - Viene?
Grant sembrava preoccupato. - In studio non c'è.
- Lo cerchi a casa. Lo trovi, dovunque sia. Usi quel telefono. Non ci giochi.
Grant lo usò; e Ralson girò un'altra pagina del blocco.
Cinque minuti dopo, Grant disse: - Sta venendo. Che cosa c'è, Ralson, si sente male?
Ralson poteva parlare solo a fatica. - Non ho tempo... Non posso parlare.
Scriveva, vergando alla meglio, scarabocchiando, tracciando diagrammi tremolanti. Era come se stesse lottando, spingendo le sue mani a muoversi.
- Detti! - lo sollecitò Grant. - Scriverò io.
Ralson lo respinse. Le sue parole erano incomprensibili. Si teneva il polso con la sinistra, spingendolo come fosse stato un pezzo di legno, e alla fine crollò sui fogli.
Grant glieli sfilò piano piano di sotto e lo aiutò a distendersi sul divano. Continuò a stargli vicino, inquieto e senza sapere cosa fare, finché non arrivò Blaustein.
Blaustein diede un'occhiata e domandò: - Che cos'è successo?
- Credo sia vivo - disse Grant, ma nel frattempo Blaustein se n'era già accertato da sé e Grant gli raccontò quello che era successo.
Blaustein praticò un'iniezione, poi aspettarono. Ralson aveva gli occhi aperti, ma senza espressione. Gemeva.
Blaustein si chinò su di lui. - Ralson.
Brancolando, alla cieca, Ralson afferrò una mano dello psichiatra.
- Dottore. Mi porti via.
- Sì. Subito. È riuscito a progettare quel campo di forze, è così?
- È tutto sulla carta. Grant, è sulla carta.
Grant aveva in mano i fogli e li stava scorrendo, dubbioso.
Ralson aggiunse, debolmente: - Non è tutto lì. È tutto quello che posso scrivere. Dovrà ricavarlo da lì. Mi porti via, dottore!
- Aspetti - disse Grant. Poi a Blaustein, bisbigliando concitatamente: - Non potrebbe lasciarlo qui finché non avremo fatto delle prove? Non riesco a decifrare quasi niente di quello che c'è scritto qui. La scrittura è illeggibile. Gli domandi che cosa gli fa credere che la cosa funzionerà.
- Domandare a lui? - disse Blaustein, gentilmente. - Non è lui quello che ha sempre ragione?
- Domandatemelo lo stesso - disse Ralson, che, dal punto dove era sdraiato, sul divano, aveva sentito. I suoi occhi si erano fatti all'improvviso sbarrati, ardenti.
I due si girarono.
Ralson disse: - "Loro" non vogliono un campo di forze. "Loro"! Gli sperimentatori! Finché non avevo un'idea chiara della soluzione, le cose rimanevano stazionarie. Ma non ho fatto in tempo a intravedere il delinearsi dell'idea - l'idea che ora è là, su quei fogli - e a seguirla per pochi secondi, che ho sentito... ho sentito... Dottore...
- Che cosa c'è? - disse Blaustein.
Ralson aveva ripreso a bisbigliare: - Sono sempre più immerso nella penicillina. Mi accorgevo di sprofondarci dentro, mano a mano che il problema si avviava alla soluzione. Non sono mai stato immerso a... a tal punto. Ecco come ho capito che l'idea era esatta. Mi porti via.
Blaustein si raddrizzò.
- Dovrò portarlo via, Grant. Non c'è altro da fare. Se riesce a decifrare quello che ha scritto, bene. Se non ci riesce, non posso in nessun modo aiutarla. Quest'uomo non può svolgere altro lavoro nel suo campo senza lasciarci la vita, lo capisce?
- Ma - obiettò Grant - sta morendo per qualcosa di immaginario.
- D'accordo, ammettiamo pure che sia così. Ma alla fine sarà morto ugualmente, no?
Ralson era di nuovo privo di sensi e non udiva niente di tutto questo. Grant lo guardò con espressione cupa, poi disse: - E va bene, dottore, se lo porti via.
Dieci tra gli uomini più importanti dell'Istituto guardavano perplessi mentre, sullo schermo illuminato, sfilavano una alla volta le diapositive. Grant, con espressione dura e accigliata, stava loro di fronte.
- Credo che il concetto sia abbastanza semplice - disse. - Siete matematici e ingegneri. Quegli scarabocchi potranno sembrarvi illeggibili, ma sono stati tracciati seguendo un concetto ben preciso. Quel concetto deve essere presente per forza nello scritto, per quanto sia distorta la scrittura. La prima pagina è abbastanza chiara: dovrebbe essere già un ottimo spunto. Ciascuno di voi studierà a lungo ogni pagina. Dovrete annotare ogni possibile versione di ogni foglio. Ognuno lavorerà per conto suo. Non voglio che vi consultiate.
Uno di loro domandò: - Ma, Grant, come sa che quei fogli significano qualcosa?
- Perché sono appunti di Ralson.
- Di Ralson! Credevo che fosse...
- Credeva che fosse ammalato - disse Grant. Doveva quasi gridare per coprire il brusio che si era levato fra i presenti. - Lo so. E lo è infatti. Quella è la scrittura di un uomo molto vicino a spegnersi. È tutto l'aiuto che potremo avere da Ralson, quello. In quegli scarabocchi, c'è la soluzione al problema del campo di forze. Se non riuscirete a trovarla, dovremo forse perdere dieci anni per cercarla altrove.
Si chinarono sul loro lavoro. La sera passò. Passarono due giorni, tre giorni...
Grant guardò i risultati. Scosse la testa.
- Se lei mi dice che c'è una soluzione, ci credo. Per conto mio, non riesco a vederla.
Lowe che, in assenza di Ralson, poteva senz'altro essere considerato il migliore ingegnere nucleare dell'Istituto, accennò una stretta di spalle.
- Neppure per me è molto chiaro. Se funziona, Ralson non ha spiegato il perché.
- Non ha avuto tempo di spiegarlo. Si può costruire il generatore così come lui lo descrive?
- Posso tentare.
- Le dispiacerebbe esaminare tutte le altre interpretazioni di quei fogli?
- Le altre sono decisamente inconsistenti.
- Ma controllerà, tanto per precauzione?
- Si, certo.
- E la costruzione la inizierà subito?
- Metterò all'opera il personale. Ma le confesso francamente che sono pessimista.
- Lo so. Anch'io.
L'impianto prese forma. Hal Ross, il tecnico più anziano, venne messo a capo della costruzione, e da quel momento smise di dormire. A qualsiasi ora del giorno o della notte, lo si poteva trovare sul posto, intento a grattarsi la testa calva.
Soltanto una volta fece delle domande.
- Che diavolo è, dottor Lowe? Non abbiamo mai costruito niente del genere. A che cosa dovrebbe servire?
- Sa bene dove si trova, Ross - rispose Lowe. - Sa che qui non si fanno domande.
Ross non domandò più niente. Si sapeva, però, che odiava la struttura in costruzione. La definiva orrenda e innaturale. Ma restava al suo posto.
Blaustein telefonò, un giorno.
- Come sta Ralson? - s'informò Grant.
- Non bene. Vuol presenziare al collaudo del Proiettore di Campo da lui disegnato.
Grant esitò.
- È giusto, in fondo. Lo dobbiamo a lui.
- Dovrei venire anch'io ad accompagnarlo.
Grant era sempre più incerto. - Potrebbe essere pericoloso, sa. Perfino in una prova di collaudo pilota, ci troveremo a scherzare con un quantitativo spaventoso di energia.
- Non sarà più pericoloso per noi che per voi - osservò Blaustein.
- Benissimo. L'elenco degli osservatori dovrà essere approvato dalla Commissione e dall'F.B.I., ma includerò anche lei.
Blaustein si guardò intorno. Il proiettore di campo era sistemato proprio al centro del vastissimo laboratorio di collaudo, ma tutto il resto era stato sgomberato. Non c'era nessuna connessione visibile con la pila al plutonio che serviva da fonte di energia, ma stando a quello che lo psichiatra aveva intuito dai discorsi che si facevano lì intorno - Blaustein si guardava bene dal fare domande a Ralson - la connessione si trovava al di sotto.
Da principio, gli osservatori avevano girato intorno alla macchina, facendo commenti incomprensibili, ma ora si stavano allontanando. La galleria si riempiva a poco a poco. Dall'altro lato c'erano almeno tre uomini in uniforme da generale, e tutto un seguito di ufficiali di grado superiore. Blaustein scelse un punto ancora deserto presso la balaustra; per amore di Ralson, più che altro.
- È sempre del parere di restare? - domandò.
Faceva piuttosto caldo, nel laboratorio, ma Ralson aveva il cappotto addosso, con il bavero rialzato. La precauzione è inutile, si diceva Blaustein. Dubitava che qualcuno potesse riconoscere Ralson, ridotto com'era.
- Sì, resterò - disse Ralson.
Blaustein era contento. Desiderava assistere al collaudo. Si girò di nuovo, nell'udire una nuova voce.
- Salve, dottor Blaustein.
Per un attimo, Blaustein non riuscì a dare un nome all'interlocutore, poi disse: - Ah, ispettore Darrity. Che cosa fa, qui?
- Sono qui per la ragione più ovvia. - Darrity indicò gli osservatori. - Non c'è modo di setacciarli al punto da poter essere sicuri che non si verifichino errori. Una volta, mi sono trovato vicino a Klaus Fuchs come ora mi trovo vicino a lei.
Gettò in aria il temperino e, con destrezza, lo riprese al volo.
- Sì, capisco. Dove potremmo trovare la sicurezza assoluta? Quale uomo può fidarsi ciecamente, sia pure della propria coscienza? E stavolta, rimarrà vicino a me, no?
- Sarebbe una precauzione come un'altra. - Darrity sorrise. - Sbaglio o era molto ansioso di essere ammesso qui dentro?
- Non per me, ispettore. E mi farà la cortesia di mettere via quel temperino?
Darrity si girò, meravigliato, nella direzione che Blaustein gli indicava col capo. Poi mise via il temperino e, per la seconda volta, guardò il compagno di Blaustein. Emise un leggero fischio.
- Salve, dottor Ralson - disse.
- Salve - borbottò Ralson, a fatica.
Blaustein non si meravigliò della reazione di Darrity. Ralson aveva perso dieci chili da quando era entrato nella casa di cura. La sua faccia era giallastra e rugosa: la faccia di un uomo che si ritrovava improvvisamente sessantenne.
- Comincerà presto il collaudo? - domandò Blaustein.
- Pare che stiano appunto per iniziare - disse Darrity.
Si voltò e si appoggiò alla balaustra. Blaustein prese Ralson per un braccio e fece l'atto di condurlo via, ma Darrity intimò sottovoce: - Resti qui, dottore. Non voglio che se ne vada in giro.
Blaustein guardò giù nel laboratorio. I tecnici erano fermi qua e là e sembravano a disagio, come se si sentissero impietrire lentamente. Blaustein riconobbe Grant, alto e magro, che accennava di voler accendere una sigaretta, poi cambiava idea e rimetteva in tasca sigaretta e accendino. I giovani tecnici addetti ai quadri di comando aspettavano, con i nervi tesi.
Infine, si udì un leggero ronzio e un lieve odore di ozono si diffuse per l'aria.
Ralson, in tono aspro, disse: - Guardate!
Indicava con l'indice e Blaustein e Darrity guardarono in quella direzione. Il proiettore irradiava una luminosità tremolante, ed era come se tra loro e l'ordigno si stesse levando dell'aria surriscaldata. Una palla di ferro scendeva dall'alto dondolando, a mo' di pendolo, e passava attraverso l'area luminosa.
- Ha rallentato, vero? - disse Blaustein, emozionato.
Ralson assentì.
- Stanno misurando a che altezza è salita dall'altro lato per calcolare la perdita di impulso. Sciocchi! L'avevo detto che avrebbe funzionato.
Ralson parlava con evidente difficoltà.
- Si limiti a osservare, dottor Ralson - raccomandò Blaustein. - Non mi agiterei più del necessario, se fossi in lei.
Il pendolo venne arrestato nel suo dondolio e tirato su. La luminosità del proiettore divenne un po' più intensa e la sfera venne calata di nuovo.
E così di seguito, e ancora, e ogni volta il movimento della sfera veniva rallentato, con una specie di forte strattone. La sfera, nel colpire l'area di luminosità, mandava un suono perfettamente percettibile. E, alla fine, rimbalzò via. Da principio con pesantezza, come se avesse urtato un materiale cedevole; poi, schizzò via come se fosse stata scagliata contro un ostacolo metallico, tanto che tutto il locale risuonò.
I tecnici ritirarono il pendolo e non lo usarono più. Il proiettore si distingueva appena, ora, dietro il tremolio luminoso che l'avvolgeva come una nebbia.
Grant diede un ordine e l'odore di ozono divenne improvvisamente acuto e pungente. Dagli osservatori si levò un grido, mentre ciascuno scambiava commenti col suo vicino. Molti indici erano puntati.
Blaustein, preso dall'eccitazione generale, si sporgeva dalla balaustra. Dove prima c'era il proiettore, ora si vedeva soltanto un enorme specchio semi-sferico. Era perfettamente, meravigliosamente limpido. Blaustein vide la sua immagine riflessa; un ometto proteso da una balconata che correva via ricurva su due lati. Vedeva le lampade fluorescenti riflesse in macchioline di luce. Tutto era meravigliosamente nitido.
Si mise a urlare: - Guardi, Ralson. Riflette l'energia. Riflette le onde di luce come uno specchio! Ralson...
Si girò. - Ralson! Ispettore, dov'è Ralson?
- Cosa? - Darrity si voltò di scatto. - Non l'ho visto.
Si guardava attorno, allarmato.
- Bene, non può andare lontano. Non c'è modo di uscire di qui, per ora. Lei cerchi dall'altro lato, dottore.
Poi, si batté una mano sulla coscia, si frugò per un attimo in tasca e mormorò: - Il mio temperino. Non c'è più.
Fu Blaustein a trovare Ralson. Era nell'interno del piccolo ufficio appartenente a Hal Ross. La stanza si affacciava sulla balconata ma, naturalmente, date le circostanze, era deserta. Lo stesso Ross non era nemmeno compreso tra gli osservatori. Un meccanico anziano non aveva bisogno di osservare. Ma il suo ufficio era il luogo ideale per mettere fine alla lunga lotta contro il suicidio.
Blaustein si arrestò un attimo sulla soglia, in preda a un senso di malessere, poi si voltò. Incontrò lo sguardo di Darrity, mentre quest'ultimo sbucava da un ufficio simile una trentina di metri più in là. Gli fece cenno, e Darrity arrivò di corsa.
Il dottor Grant tremava per l'emozione. Aveva già acceso due sigarette, ne aveva aspirato un paio di boccate e subito le aveva schiacciate sotto il tacco. Ora stava armeggiando con una terza.
Intanto, diceva: - È andata meglio di quanto si potesse umanamente sperare. Domani faremo il collaudo con le armi da fuoco. Sono sicuro del risultato, ormai, ma il collaudo è in programma e tanto vale andare fino in fondo. Salteremo le armi più leggere e cominceremo dal bazooka. O magari no. Potrebbe essere necessario costruire una speciale struttura di collaudo per risolvere il problema del rimbalzo.
Gettò via la terza sigaretta.
Un generale osservò: - Bisognerà provare con un vero e proprio bombardamento atomico, naturalmente.
- Ah, s'intende. Sono già state prese disposizioni per allestire un modello di città a Eniwetok. Potremmo costruire un generatore sul posto e poi sganciare la bomba. Nell'interno, ci saranno animali.
- È proprio convinto che, se regoleremo il campo al massimo della sua potenza, sarà sufficiente a trattenere la bomba?
- Non si tratta solo di questo, generale. Finché la bomba non verrà sganciata, il campo praticamente non si avvertirà nemmeno. La radiazione del plutonio dovrà attivare il campo un attimo prima dell'esplosione. Come è stato fatto qui durante l'ultima fase. Consiste in questo l'essenza della trovata.
- Sapete - obiettò un professore di Princeton - io ci vedo degli inconvenienti. Quando il campo è completamente attivato, tutto quello che è sotto la sua protezione viene a trovarsi nell'oscurità totale, almeno per quanto riguarda il sole. E non basta: resta il fatto che il nemico potrebbe adottare la tattica di lanciare missili radioattivi innocui a intervalli frequenti, al solo scopo di attivare il campo. Sarebbe un'azione di disturbo che scaricherebbe sensibilmente la nostra pila.
- Gli inconvenienti si possono risolvere - disse Grant. - Ora che il problema principale è risolto, sono certo che, un po' alla volta, potremo eliminare tutte le difficoltà.
L'osservatore inglese si era fatto strada verso Grant e gli stava stringendo la mano.
- Mi sento già più tranquillo sul futuro di Londra - stava dicendo. - Non posso fare a meno di desiderare che il vostro governo mi conceda di prendere visione di tutto il progetto. Quello che ho visto mi è parso assolutamente geniale. Adesso sembra ovvio, naturalmente, ma chi è stato ad avere un'idea simile?
Grant sorrise. - Non è la prima volta che viene fatta una domanda del genere in riferimento agli ordigni progettati dal dottor Ralson...
Si voltò perché qualcuno gli aveva battuto sulla spalla.
- Oh, dottor Blaustein! L'avevo quasi dimenticata. Venga, voglio parlarle.
Trascinò da parte il piccolo psichiatra e gli sussurrò nell'orecchio: - Senta, non potrebbe convincere Ralson a lasciarsi presentare a quei signori? Questo è il suo trionfo.
- Ralson è morto - disse Blaustein.
- Cosa?
- Non potrebbe lasciare un momento queste persone?
- Sì... sì... Signori, vogliate scusarmi, scappo per qualche minuto.
Grant si allontanò in fretta, con Blaustein.
Gli uomini dell'F.B.I. erano già entrati in azione. Senza darlo a vedere, sbarravano l'ingresso all'ufficio di Ross. Fuori, c'era la folla di coloro che si attardavano a discutere la soluzione al problema di Alamogordo di cui erano appena stati testimoni. Là dentro, ancora ignota a tutti, c'era la morte di colui che aveva risolto il problema. La barriera di agenti si divise per lasciar entrare Grant a Blaustein. Poi, tornò a richiudersi.
Grant sollevò per un attimo il lenzuolo.
- Sembra sereno - disse.
- Direi quasi... felice - mormorò Blaustein.
Darrity dichiarò, con voce spenta: - L'arma del suicidio è stata il mio temperino. È stata colpa mia; lo metterò nel rapporto.
- No, no - disse Blaustein - sarebbe inutile. Era mio paziente e il responsabile sono io. In ogni caso, non sarebbe vissuto ancora per molto. Da quando aveva inventato il proiettore, era un morente.
- Quanto di questa storia deve finire nelle scartoffie federali? - domandò Grant. - Non potremmo fare finta di niente per quello che riguardava la sua follia?
- Temo di no, dottor Grant - rispose Darrity.
- Ho raccontato all'ispettore tutta la storia - disse Blaustein, con tristezza.
Grant guardava ora l'uno ora l'altro, preoccupato.
- Parlerò con il Capo dell'F.B.I. Andrò perfino dal Presidente, se necessario. Non vedo che bisogno ci sia di nominare la pazzia o il suicidio. Ralson otterrà il pieno riconoscimento come inventore del proiettore di campo. È il meno che possiamo fare per lui. - Grant stringeva i denti.
- Ha lasciato un biglietto disse Blaustein.
- Un biglietto?
Darrity porse a Grant un pezzo di carta.
- I suicidi lo fanno quasi sempre. Anche per questa ragione il dottore mi ha detto che cosa realmente ha ucciso Ralson.
Il biglietto era indirizzato a Blaustein e diceva:
"Il proiettore funziona; sapevo che avrebbe funzionato. È fatta, ormai. Avete ottenuto quello che volevate e non avete più bisogno di me. Perciò me ne vado. Non dovrete più preoccuparvi per la razza umana, dottore: avevate ragione voi. Ci hanno coltivati troppo a lungo; hanno commesso troppe imprudenze. Siamo fuori del brodo di coltura, ormai, e loro non sono più in grado di fermarci. Lo so. È tutto quello che posso dire. Lo so."
Ralson aveva firmato in fretta e, in calce, aveva scarabocchiato un'altra riga:
"Ammesso che vi siano abbastanza uomini resistenti alla penicillina."
Grant fece l'atto di appallottolare il foglio, ma Darrity fu lesto a impedirglielo.
- Quel foglio andrà agli atti, dottore.
Grant glielo diede e disse: - Povero Ralson! Credeva davvero a tutte quelle sciocchezze.
Blaustein assenti. - Ci credeva, sì. A Ralson verranno rese solenni onoranze funebri, suppongo, e verrà fatta pubblicità alla sua invenzione senza che si parli della follia o del suicidio. Ma gli uomini del governo s'interesseranno ugualmente delle sue folli teorie. Del resto, potrebbero non essere tanto folli, vero, ispettore Darrity?
- Ma via, Blaustein, è assurdo - disse Grant. - Non uno degli scienziati che hanno collaborato a questa impresa ha mostrato il minimo segno di inquietudine.
- Glielo dica, ispettore - disse Blaustein.
- C'è stato un altro suicidio - riferì Darrity. - No, no, non si tratta di uno scienziato. Non era neppure un laureato. È accaduto stamattina e abbiamo indagato perché pensavamo che ci fosse qualche rapporto con il collaudo di oggi. Ma pareva che non ce ne fossero, e così volevamo tenere per noi la notizia fino al termine del collaudo. Solo che ora pare che un rapporto ci sia.
"L'uomo che è morto aveva moglie e tre bambini. Nessuna ragione per desiderare la morte. Non aveva mai sofferto di squilibri mentali. Si è gettato sotto una macchina di proposito. Non è morto subito e hanno fatto in tempo a procurargli un medico. Era conciato da far paura, ma riuscì a dire: 'Ora mi sento molto meglio'. Poi, è spirato."
- Ma chi era? - gridò Grant.
- Hal Ross. L'uomo che ha costruito materialmente il proiettore. L'uomo che occupava questo ufficio.
Blaustein si avvicinò alla finestra. Nel cielo che si stava facendo buio, cominciavano a spuntare le stelle.
- Quell'uomo - disse - non sapeva niente delle teorie di Ralson. Non aveva mai parlato con Ralson, lui, così m'ha detto l'ispettore. Probabilmente gli scienziati, nel complesso, sono resistenti. Devono esserlo, o ben presto si vedono costretti ad abbandonare la professione. Ralson era un'eccezione, un individuo sensibile alla penicillina che insisteva nel rimanere. Avete visto tutti che cosa gli è successo. Ma che dire degli altri; quelli che avanzano lungo sentieri di vita dove non c'è una selezione costante dei più sensibili? Quanta parte dell'umanità è sensibile alla penicillina?
- Ma lei crede a Ralson? - domandò Grant, inorridito.
Blaustein alzò gli occhi alle stelle.
Incubatrici?
Titolo originale: Breeds There a Man...?
Prima edizione: Astounding, giugno 1951
Traduzione di Hilia Brinis
Condotto "C"
Dalla cabina in cui era stato rinchiuso con altri passeggeri, il colonnello Anthony Windham poteva ancora seguire le fasi della battaglia in corso. Per un po' ci fu silenzio, nessuna scossa. Significava che le astronavi stavano combattendo, a distanza astronomica, un duello di scariche d'energia e di potenti campi di forza difensivi.
Il colonnello sapeva benissimo che la battaglia poteva finire in un solo modo. La loro astronave terrestre era un semplice mercantile armato mentre, da quello che Windham aveva potuto vedere, la nave dei Kloro, la razza nemica, era un incrociatore leggero. Poi, l'equipaggio lo aveva obbligato a sgomberare il ponte con gli altri passeggeri.
In meno di mezz'ora, infine, si erano cominciati a sentire quei piccoli urti, secchi e duri, che lui si aspettava. I passeggeri venivano sballottati qua e là a ogni impennata della nave, tanto che sembrava d'essere a bordo di un transatlantico durante una tempesta, anziché su un'astronave. Gli spazi cosmici erano calmi e silenziosi come sempre. Era il pilota che lanciava disperati getti di vapore dai tubi di scarico, allo scopo appunto di far compiere alla nave, per normale reazione, una serie di sbalzi e di sbandamenti. Questo voleva dire che l'inevitabile era già avvenuto: gli schermi erano ormai esauriti e la nave non era più in grado di sopportare un colpo diretto.
Il colonnello Windham cercò di appoggiarsi meglio al suo bastone di alluminio. Si sentiva vecchio; era cosciente d'avere passato tutta la vita nell'esercito senza avere mai visto una battaglia, e ora che un combattimento gli si era scatenato intorno, lui era ormai un vecchio grasso, zoppo e senza uomini ai quali dare ordini.
Tra poco i mostruosi Kloro sarebbero saliti a bordo: era la loro tattica. Dato che gli scafandri spaziali costituivano per loro un notevole impaccio, avrebbero subìto perdite gravissime, ma era loro intenzione catturare a tutti i costi l'astronave dei terrestri. Windham osservò per qualche istante i passeggeri intorno a lui. Per un attimo, pensò: "Se fossero armati e io potessi averli ai miei ordini..."
Ma abbandonò subito l'idea: Porter era, evidentemente, in preda al panico, e Leblanc, il ragazzo, non si trovava in condizioni migliori. I fratelli Polyorketes - accidenti, ma non si riusciva a distinguerli l'uno dall'altro - erano rannicchiati in un angolo e non rivolgevano la parola a nessuno. Mullen... be', Mullen era diverso. Sedeva perfettamente eretto sulla persona, senza dare il minimo segno di paura né di qualsiasi altra emozione. Ma non era più alto di un metro e sessanta ed era chiaro che non aveva mai impugnato un'arma in vita sua. Non poteva essere d'aiuto a nessuno.
C'era poi Stuart, con il suo sorriso mezzo stereotipato e il sarcasmo velenoso che impregnava ogni sua parola. Windham lanciò uno sguardo di sottecchi a Stuart, intento in quell'istante a passarsi le mani pallide come quelle di un cadavere nei capelli così biondi da avere riflessi di cenere. In ogni caso, con quelle mani artificiali, Stuart non avrebbe potuto far niente.
Windham sentì le vibrazioni dell'urto in seguito al contatto fra le due astronavi, e dopo cinque minuti si udì il fracasso di una lotta accanita nei corridoi della nave. Uno dei fratelli Polyorketes lanciò un urlo e corse verso la porta. L'altro lo chiamò: - Aristides! Aspettami! - E lo rincorse.
Tutto avvenne con estrema rapidità. Aristides era già oltre la soglia e stava correndo lungo il passaggio, in preda al panico. Un carbonizzatore brillò per un istante, e non vi fu nemmeno un urlo. Windham, dalla soglia, si volse a guardare inorridito il moncone calcinato, tutto quello che restava di un essere umano. Strano... tutta una vita sotto le armi e quella era la prima volta che vedeva morire un uomo di morte violenta.
Ci vollero le forze riunite degli altri passeggeri per riportare nella cabina l'altro fratello, che si divincolava come un pazzo.
Poi, i rumori della battaglia a poco a poco si spensero.
- Ecco fatto - disse Stuart. - Lasceranno a bordo due dei loro per pilotare l'astronave e ci porteranno in uno dei loro pianeti. Siamo ormai prigionieri di guerra.
- Soltanto due Kloro a bordo? - domandò Windham, stupito.
- È la loro usanza - disse Stuart. - Perché colonnello? Avrebbe forse in animo di comandare una brillante operazione per riconquistare la nostra nave?
Windham arrossì. - Dicevo così, tanto per sapere! - Ma sentì che il tono autorevole e la dignità militare gli erano venuti meno proprio quando più avrebbero dovuto imporsi. Ormai, non era più che un vecchio, con una gamba malata.
E Stuart probabilmente aveva ragione. Era stato con i Kloro e conosceva i loro metodi.
John Stuart aveva sostenuto fin da principio che i Kloro erano veri gentiluomini. Ora, dopo ventiquattr'ore di prigionia, lo ripeté, fissandosi le mani e osservando le pieghe andare e venire sulla sostanza plastica di cui erano fatte.
Lo divertiva la spiacevole reazione che la sua frase destava fra gli altri. La gente era fatta per essere punzecchiata; vesciche d'aria, tutti, dal primo all'ultimo. E poi avevano le mani fatte di carne, della stessa carne del corpo.
Quell'Anthony Windham, per esempio. Si faceva chiamare colonnello, e Stuart era dispostissimo a credergli. Un colonnello in pensione, che probabilmente aveva fatto istruzione alle milizie di sicurezza della Terra, una quarantina d'anni prima, e con uno stato di servizio così poco brillante da non venire neppure richiamato in servizio durante la crisi del primo conflitto interstellare della Terra.
- Non mi sembra che le sue parole nei riguardi dei nostri nemici siano molto piacevoli a sentirsi, Stuart, e temo di non approvare affatto il suo atteggiamento. - Windham aveva parlato come sparando le parole attraverso i baffi tagliati corti. Portava i capelli a zero, secondo la moda militare corrente, ma un po' di lanugine grigia aveva cominciato a ricrescergli intorno allo spiazzo lucido che aveva in mezzo al cranio. Le guance gli cadevano flaccide e, con le sottilissime vene rosse che gli solcavano il naso grosso e carnoso, gli davano un aspetto confuso e disordinato, come di chi sia stato svegliato troppo presto e troppo bruscamente qualche minuto prima.
- Sciocchezze - disse Stuart. - Provi a rovesciare la situazione. Supponga che una nave della Terra avesse catturato un mercantile kloro. Che cosa crede che sarebbe successo dei civili kloro a bordo del mercantile?
- Sono certo che la flotta terrestre avrebbe osservato scrupolosamente tutte le norme del diritto di guerra interstellare.
- Salvo che non esiste un codice interstellare di guerra. Se catturassimo una delle loro navi crede che ci prenderemmo il disturbo di mantenere un'atmosfera a base di cloro a favore dei superstiti? Che permetteremmo loro di conservare i beni non contrabbandati di loro proprietà? Che concederemmo loro la più comoda delle cabine di lusso, eccetera, eccetera?
Ben Porter interloquì: - Oh, per l'amor di Dio, la smetta. Se sento ancora uno dei suoi eccetera, eccetera, giuro che divento pazzo!
- Scusi, me ne dispiace - disse Stuart. Ma non era vero.
Porter sembrava avere già messo in esecuzione la sua minaccia di impazzire. La faccia affilata, dal naso a uncino, era lucida di sudore, ed egli continuava a mordicchiarsi l'interno della guancia, fino a quando, improvvisamente, sussultò di dolore; dopo di che, appiccicò la lingua nel punto dove la mucosa gli doleva, assumendo un'aria ancora più ridicola.
Stuart cominciava ad averne abbastanza di stuzzicarli. Windham era un bersaglio troppo debole e Porter non sapeva fare altro che tremare. Gli altri tacevano. Demetrios Polyorketes si era chiuso nel suo muto, disperato dolore. Durante la notte non doveva aver chiuso occhio. Almeno, ogni volta che Stuart si era svegliato per cambiare posizione - perché anche lui era stato notevolmente agitato - aveva sentito il mugolio sommesso di Polyorketes giungere dalla cuccetta accanto alla sua.
Ora Polyorketes se ne stava seduto sulla cuccetta, con aria inebetita, fissando gli altri prigionieri con occhi tondi e arrossati che si aprivano come squarci nella larga faccia non rasata. Sentendosi osservato da Stuart, si nascose la faccia tra le mani callose, così che rimase visibile soltanto la massa arruffata dei suoi capelli folti e ricciuti. Si dondolava da un lato all'altro, lentamente, ma ora che tutti erano svegli, non si lamentava più.
Claude Leblanc cercava, senza riuscirci, di leggere una lettera. Era il più giovane dei sei prigionieri; aveva appena terminato gli studi e tornava sulla Terra per sposarsi. Stuart lo aveva sorpreso quella mattina a piangere in silenzio, la faccia bianca e rosea tutta gonfia e arrossata, come quella di un bambino in preda alla disperazione. Era biondo, di una bellezza quasi femminea, con grandi occhi azzurri e labbra rosse e carnose. Stuart si domandava che specie di ragazza potesse essere quella che aveva accettato di diventarne la moglie. Aveva visto la fotografia della fidanzata. Chi non l'aveva vista, a bordo? Una ragazza graziosa, di quella bellezza stereotipata e un po' sciocca che rende le fidanzate tutte uguali, almeno in fotografia. Stuart si era detto che, se fosse stato una donna, avrebbe preferito un tipo più mascolino di Leblanc.
Rimaneva soltanto Randolph Mullen. Stuart, in verità, non aveva la più pallida idea di che cosa tirar fuori da Mullen. Era l'unico dei sei che avesse vissuto per un certo tempo sui pianeti del sistema di Arturo. Lo stesso Stuart, per esempio, vi era rimasto soltanto il tempo necessario per tenere una serie di conferenze di ingegneria astronautica al Politecnico Arturiano. Windham c'era stato durante un viaggio turistico; Porter aveva cercato di importare verdure extraterrestri per le sue industrie di cibi in scatola della Terra; i fratelli Polyorketes avevano tentato di stabilirsi nel sistema di Arturo come agricoltori indipendenti e, dopo due stagioni di raccolti, avevano venduto tutto con un certo margine di profitto ed erano ripartiti per la Terra.
Randolph Mullen, invece, aveva vissuto nel sistema arturiano per diciassette anni. Come facevano i viaggiatori a scoprire tante cose l'uno dell'altro, in così poco tempo? Da quanto ne sapeva Stuart, quell'ometto non aveva quasi aperto bocca, da quando aveva messo piede a bordo. Era gentilissimo, sempre pronto a farsi da parte per lasciar passare un altro, ma tutto il suo vocabolario, evidentemente, consisteva soltanto in "Grazie" e "Scusi". Pure, tutti sapevano, a bordo, che quella era la prima volta che Mullen ritornava sulla Terra, da diciassette anni.
Era un ometto minuto, molto preciso, così preciso da riuscire quasi irritante. Svegliatosi, quella mattina, s'era rifatto il letto con molta cura, si era rasato, aveva fatto il bagno e si era vestito. Le abitudini di anni e anni non erano state minimamente scalfite dal fatto che ora si trovava prigioniero dei Kloro. Era olimpico, e bisognava anche riconoscere che non aveva l'aria di condannare lo spettacolo penoso dato dalla disperazione dei suoi compagni di prigionia. Se ne stava tranquillamente seduto, quasi con l'aria di chiedere scusa, infagottato negli abiti antiquati e con le mani mollemente intrecciate e abbandonate in grembo. I baffi sottilissimi che si era lasciato crescere, invece di aggiungere rilievo alla faccia, ne accentuavano il carattere scialbo.
Tutto sommato, faceva venire in mente la caricatura di un contabile. E il buffo era che, nella vita, l'ometto faceva proprio il contabile. Stuart l'aveva letto sul registro di bordo: Randolph Fluellen Mullen, di professione contabile; impiegato presso la Prime Paper Box Co., Tobias Avenue 27, Nova Varsavia, Arturo II.
- Signor Stuart?
Stuart alzò gli occhi. Era Leblanc, il labbro inferiore un po' tremante. Stuart cercò di ricordare che cosa si deve fare quando si vuol essere gentili. - Che c'è, Leblanc? - domandò.
- Mi dica, quando saremo liberati?
- Come faccio a saperlo?
- Tutti dicono che lei ha vissuto su un pianeta kloro, e poco fa l'ho sentita dire che si tratta di esseri corretti e leali.
- Sì, ma anche gli esseri corretti e leali combattono le guerre per vincerle. Probabilmente, saremo internati per tutta la durata della guerra!
- Ma potrebbe durare anni e anni! Margaret mi aspetta. Crederà che io sia morto!
- Immagino che ci permetteranno di spedire qualche messaggio, quando saremo sbarcati sul loro pianeta.
Si udì la voce di Porter, resa roca dall'agitazione: - Dica un po', visto che la sa così lunga su questi diavoli, che cosa ci faranno durante l'internamento? Come ci daranno da mangiare? Dove andranno a prendere l'ossigeno per noi? Ci ammazzeranno tutti, ve lo dico io. - Poi, dopo un istante di riflessione, aggiunse: - Ho una moglie che mi aspetta, oltre tutto!
Ma Stuart l'aveva già udito parlare della moglie, nei giorni precedenti all'attacco, e quella frase non lo impressionò. Le dita di Porter, dalle unghie rosicchiate, gli stavano tirando l'oro della manica. Stuart si ritrasse con un senso di ripugnanza: non poteva sopportare quelle mani orribili. Lo irritava fino alla disperazione che tali mostruosità dovessero essere vere, mentre le sue belle mani bianche e affusolate erano soltanto imitazioni, fatte con una sostanza plastica originaria di un altro pianeta.
- Stia tranquillo - disse - non ci ammazzeranno. Se avessero voluto farlo, ci avrebbero ammazzati prima. Scusi, anche noi facciamo prigionieri i Kloro, ed è questione di buon senso, in fondo: trattare bene i prigionieri nemici, se si vuole che siano trattati bene i propri. Vedrà, faranno del loro meglio. Il cibo che ci daranno non sarà molto buono, forse, ma conoscono la chimica meglio di noi, anzi, è la scienza in cui eccellono, e sapranno ben presto quali sostanze e quante calorie, esattamente, ci occorrono. Vivremo. E sarà loro premura che noi si viva.
- Più passa il tempo, più lei, Stuart, si mostra un accanito sostenitore di quei verdoni maledetti - brontolò Windham. - Mi si rivolta lo stomaco nel sentire un terrestre parlare così bene di quelle creature verderame; ma insomma, dico io, dov'è la sua fedeltà?
- La mia fedeltà è dalla parte di chi se la merita. Va all'onestà e alla dignità, dovunque si trovino, indipendentemente dall'aspetto e dal colore della pelle. - Stuart mostrò le mani. - Le vede queste? Sono stati i Kloro a farmele. Mi trovavo da sei mesi su uno dei loro pianeti. Le mani mi rimasero impigliate nell'impianto di condizionamento della mia abitazione. Mi sembrava che l'ossigeno che ci fornivano non fosse sufficiente, e avevo cercato di organizzarmi per conto mio. Fu il più grave errore della mia vita. Non bisogna mai toccare macchine prodotte da extraterrestri. Quando finalmente uno dei Kloro riuscì a mettersi uno scafandro atmosferico e ad accorrere in mio aiuto, per le mie mani era troppo tardi.
"Ebbene, i Kloro hanno costruito per me queste mani plastiche e poi mi hanno operato. Sapete che cosa significava tutto questo per loro? Significava studiare attrezzature e soluzioni nutrienti che potessero operare in un'atmosfera a base di ossigeno. Significava che i loro chirurghi dovevano eseguire un intervento particolare, complesso e delicato, vestiti di scafandri atmosferici. Ma significava anche ridarmi un paio di mani perfette: eccole qua, vede?" Scoppiò a ridere, strinse debolmente i pugni. "Mani..."
- E lei - disse Windham - per questo rinuncerebbe alla sua fedeltà verso la sua razza?
- Rinunciare alla mia fedeltà? Ma lei è pazzo! Per anni ho odiato i Kloro proprio per questo. Ero il primo pilota delle Astrolinee Transgalattiche, prima che mi capitasse la disgrazia. Mentre ora, tutto quello che posso fare è un lavoro di tavolino, più qualche conferenza di tanto in tanto. Mi ci sono voluti anni, le ripeto, prima di ammettere che la disgrazia era stata tutta colpa mia e che i Kloro si erano comportati nei miei riguardi in modo più che lodevole. Hanno un loro codice morale che equivale al nostro, anche se non è il nostro. Se non fosse per l'idiozia di alcuni di loro - e, gran Dio, di alcuni dei nostri - ora non saremmo in guerra. E quando tutto sarà finito...
Polyorketes si era alzato. Le sue grosse dita erano contratte a pugno, gli occhi mandavano lampi. - Non mi piace quello che sta dicendo, amico...
- E perché?
- Perché parla troppo bene di questi maledetti ramarri. I Kloro, lei, l'hanno trattata bene, eh? Ma mio fratello no, non l'hanno trattato bene. L'hanno ammazzato. E io ho una mezza idea di ammazzare te, maledetto spione dei verdi.
E gli si buttò addosso.
Stuart ebbe appena il tempo di alzare le braccia per tenere a bada il contadino inferocito. Riuscì a dire, ansimando: - Ma che diavolo... - e intanto afferrava l'altro per il polso e, con una spalla, cercava di allontanare la mano che voleva afferrarlo alla gola.
Il suo arto di plastica cedette. Polyorketes si liberò quasi senza sforzo.
Windham blaterava parole incoerenti, mentre Leblanc urlava con voce stridula: - Finitela! Finitela! - Ma fu il piccolo Mullen che afferrò il contadino per il collo dal di dietro, tirandolo a sé con tutta la sua forza. Non riuscì a far molto: Polyorketes sembrava non accorgersi nemmeno del peso esercitato dall'ometto sulla sua schiena. Nel chinarsi, lo sollevò da terra, e Mullen si ritrovò a scalciare nel vuoto; ma non allentò la stretta, che tutto sommato riuscì a intralciare Polyorketes quel tanto da permettere a Stuart di liberarsi e afferrare il bastone di alluminio di Windham.
- Indietro, Polyorketes - intimò Stuart, ansimando.
Temeva che l'altro tornasse alla carica. Il cilindro cavo di alluminio non pesava tanto da rappresentare una grande difesa, ma era sempre meglio di un paio di povere mani di plastica.
Mullen aveva mollato la presa e stava girando cautamente intorno all'aggressore, il respiro un po' affannoso e gli abiti in disordine.
Polyorketes, per un momento, non si mosse. Se ne stava là, con la testa scarmigliata protesa in avanti. - È inutile - disse poi. - Devo ammazzare qualche Kloro. Ma attento a come parli, Stuart. Tieni la lingua a freno. Se continui a parlare così, rischi qualche grosso guaio. Ho detto grosso, bada!
Stuart si passò l'avambraccio sulla fronte e gettò il bastone a Windham, che lo prese al volo con la sinistra, mentre con la destra si asciugava vigorosamente la testa pelata.
- Signori - disse infine il colonnello, rimettendosi in tasca il fazzoletto - dobbiamo evitare scene di questo genere. Degradano il nostro prestigio. Ricordiamoci del comune nemico. Siamo tutti terrestri e dobbiamo comportarci per quello che siamo: la razza dominante della Galassia. Badiamo bene a non sminuirci davanti agli inferiori.
- Sì, colonnello - disse Stuart in tono stanco - rimandiamo il resto del discorso a domani.
Si rivolse a Mullen: - Debbo ringraziarla.
Gli seccava, ma doveva farlo. Il piccolo contabile lo aveva letteralmente sorpreso.
Ma Mullen, con una voce secca, ch'era poco più di un sussurro, replicò: - Non è il caso di ringraziarmi, signor Stuart. Era la sola cosa logica da farsi. Se dovremo essere internati, avremo forse bisogno di lei come interprete, ci servirà una persona che conosca bene i Kloro.
Stuart s'irrigidì. Era il modo di ragionare di un contabile, c'era una logica troppo meschina, uno spirito utilitaristico troppo gretto. Colonna del dare e dell'avere. Partita doppia, utili e perdite. Stuart avrebbe preferito che Mullen fosse intervenuto in sua difesa obbedendo a... ebbene, obbedendo a che cosa? a un istinto di puro, onorevole altruismo?
Stuart rise silenziosamente di sé. Era dunque arrivato al punto di aspettarsi dagli essere umani prove di idealismo, anziché dimostrazioni di egocentrismo profondo, aperto, dichiarato?
Polyorketes era come inebetito. Il dolore e la rabbia agivano come un acido dentro di lui, ma non avevano parole per uscire. Se fosse stato come Stuart, dalla parola facile, dalle mani troppo bianche, avrebbe potuto anche lui parlare e parlare, e forse si sarebbe sentito meglio. E invece doveva starsene seduto là, con la metà di se stesso distrutta; senza più suo fratello, senza più Aristides...
Era accaduto tutto così rapidamente. Se soltanto egli avesse potuto tornare indietro, avere un solo secondo di più a disposizione per lanciare un altro avvertimento, così da salvare Aristides, trattenerlo, strapparlo al pericolo...
Ma era soprattutto l'odio per i Kloro, il pensiero che lo dominava. Due mesi fa, quasi non li conosceva, e ora li odiava con tale forza che sarebbe stato felice di morire, se prima avesse potuto ucciderne qualcuno.
Domandò, senza alzare gli occhi: - Si può sapere, insomma, chi è stato a far scoppiare questa guerra?
Temeva che fosse la voce di Stuart, a rispondergli. Odiava la voce di Stuart. Ma era quella di Windham, il calvo.
- La causa immediata - disse il vecchio - È stata una disputa sulle concessioni minerarie nel sistema planetario di Wyandotte. I Kloro avevano interferito in quelle che erano proprietà terrestri.
- C'era posto per tutti, colonnello!
A quelle parole Polyorketes guardò in su, furente. Stuart! Non c'era verso di farlo star zitto. Ecco che aveva ripreso a parlare, quello storpio, quel Kloromane saccente.
- Le pare che valesse la pena di far scoppiare una guerra per così poco, colonnello? - stava dicendo Stuart. - Noi non possiamo sfruttare i loro pianeti e loro non possono sfruttare i nostri. I loro, con atmosfera a base di cloro, sono inutili per noi così come lo sono i nostri per loro. Non esistono motivi per un'ostilità permanente. Le nostre razze non hanno niente in comune, non coincidono. C'è dunque qualche seria ragione per combatterci solo perché le nostre due razze vogliono estrarre il ferro dagli stessi planetoidi privi di atmosfera, quando ce ne sono milioni di altri simili, nella Galassia?
- C'è la questione - disse Windham - dell'onore planetario...
- Concime planetario, direi. Come può l'onore giustificare una guerra ridicola come questa? La si può combattere soltanto sugli avamposti. Tutto si riduce a una serie di scaramucce e presto si dovrà giungere a negoziati che si sarebbero potuti intavolare in partenza prima delle ostilità. Né i Kloro né noi ci avremo guadagnato niente.
Polyorketes si accorgeva, suo malgrado, d'essere d'accordo con Stuart. Importava qualcosa, a lui o ad Aristides, che fosse la Terra o i Kloro ad avere quel ferro?
Valeva la pena che, per quel ferro, Aristides ci rimettesse la vita?
Si udì il ronzio del campanello.
Polyorketes sollevò la testa di scatto e si alzò lentamente, le labbra tirate fino a scoprire i denti. Soltanto una di quelle creature poteva essere dietro la porta. Aspettò, le braccia tese e i pugni contratti. Stuart si stava spostando lentamente verso di lui. Polyorketes se ne accorse e rise tra sé. Lascia che il Kloro entri, pensò, e né Stuart né gli altri potranno fermarmi.
Aspetta, Aristides, aspetta un istante solo e almeno una parte di vendetta sarà compiuta.
La porta si aprì e sulla soglia apparve una figura completamente nascosta entro l'involucro voluminoso e informe di uno scafandro spaziale.
Una voce strana, innaturale ma non del tutto sgradevole, cominciò a dire: - È con qualche apprensione, uomini della Terra, che il mio compagno e io...
S'interruppe bruscamente nell'istante in cui Polyorketes, con un vero e proprio muggito, caricò di nuovo, a testa bassa, come un bisonte infuriato. Stuart venne scaraventato in là con tanta forza che andò a finire su una delle cuccette, prim'ancora di poter intervenire.
Il Kloro avrebbe potuto, senza sforzo, fermare il terrestre con la sola pressione delle braccia tese, o farsi semplicemente da parte, lasciando che quella catapulta umana venisse trascinata via dal proprio impeto. Ma non fece né una cosa né l'altra. Con gesto rapido, puntò un piccolo radiodiffusore, e un filo sottilissimo di luce rossa collegò l'arma con il corpo del terrestre. Polyorketes incespicò e si abbatté sul pavimento, il corpo ancora inarcato, un piede sollevato a mezz'aria, come colpito da una fulminea paralisi. Era rotolato su un fianco e rimase in quella posizione, gli occhi vivi e fiammeggianti di furore.
- Non è leso in modo permanente - disse il Kloro. Non sembrava risentito per la tentata aggressione. Riprese: - È con qualche apprensione, uomini della Terra, che il mio compagno e io ci siamo resi conto di una certa agitazione in questa cabina. Avete per caso qualche necessità che noi possiamo soddisfare?
Stuart si stava massaggiando rabbiosamente il ginocchio, sbucciatosi nell'urto contro la sponda del lettino. - No, grazie, Kloro - disse.
- Ehi, un momento - proruppe Windham. - Cos'è questo sopruso di tenerci imprigionati qui dentro? Chiediamo che si provveda al nostro rilascio.
La piccola testa da insetto del Kloro si volse in direzione del vecchio. L'extraterrestre non aveva certo un aspetto gradevole, per chi non vi fosse abituato. Alto circa come un terrestre, la parte superiore del suo corpo era formata da uno stelo sottilissimo, che in cima si dilatava in una minuscola testa. Questa comprendeva una proboscide triangolare sul davanti e due occhi laterali, molto sporgenti. Non c'era altro. Né scatola cranica né cervello. Quello che in un Kloro corrispondeva al cervello umano era situato là dove un terrestre ha l'addome, per cui la testa non era altro che un semplice organo sensorio. Lo scafandro kloriano seguiva i contorni della testa con sufficiente aderenza, e i due occhi erano messi in mostra da due semicerchi di una sostanza vetrosa, trasparente, che l'atmosfera interna a base di cloro rendeva verdastra.
Uno degli occhi fissava ora con forza Windham che, pur sentendosi a disagio sotto quello sguardo disumano, trovò la forza di insistere. - Non avete nessun diritto di tenerci prigionieri. Noi non siamo combattenti.
La voce del Kloro, dal timbro meccanico e artificiale, proveniva da un piccolo apparecchio di cromo applicato a quello che si poteva definire il torace della creatura. La cassa sonora era manipolata dai delicatissimi tentacoli biforcuti che si irradiavano da due cerchi posti nella parte superiore del corpo e nascosti, per fortuna, dallo scafandro.
- Parli sul serio, terrestre? - disse la voce. - Avrai pur sentito parlare di guerra e di norme relative ai prigionieri di guerra.
Si guardava intorno, spostando il capo con rapidi scatti e fissando ogni oggetto prima con un occhio e poi con l'altro. Stuart sapeva che ogni occhio trasmetteva un messaggio diverso al cervello addominale, che doveva poi coordinare le immagini ricevute per avere l'informazione completa.
Windham non sapeva che cosa rispondere. Nessuno lo sapeva. Il Kloro, con le sue quattro membra principali - due paia d'arti, l'uno superiore e l'altro inferiore - aveva un aspetto vagamente umano sotto lo scafandro, se non lo si guardava più su del torace, ma non c'era modo di capire come la pensasse.
I prigionieri lo videro voltarsi e uscire.
Porter tossì e disse con voce strozzata: - Dio, che puzza di cloro! Se non provvedono in qualche modo, qui finiremo tutti con i polmoni a pezzi.
- Ma la smetta - disse Stuart. - Non c'è abbastanza cloro, nell'aria, da far starnutire una zanzara, e quella minima quantità che vi si trova si dissiperà entro un minuto o due. Senza contare che un po' di cloro non fa male, anzi: uccide il virus dell'influenza.
Windham tossì a sua volta. - Stuart - disse - mi sembra che avrebbe potuto dire qualcosa al suo amico Kloro, in merito al nostro rilascio. In loro presenza, non ha neppure la metà della parlantina che tira fuori appena rimaniamo tra noi.
- Ha pur sentito che cos'ha detto il Kloro, colonnello. Noi siamo prigionieri, e in base alle norme di guerra gli scambi di prigionieri avvengono tramite negoziati diplomatici. Dovremo aspettare.
Leblanc, che all'entrare del Kloro si era fatto più bianco di un panno lavato, si alzò e corse in bagno. Gli altri lo sentirono dar di stomaco.
Un silenzio penoso scese sul gruppo, mentre Stuart cercava qualcosa da dire per coprire quei rumori sgradevoli. Fu Mullen a venirgli in aiuto. Stava frugando in una scatoletta che aveva tratto da sotto il cuscino.
- Forse - disse - il signor Leblanc dovrebbe prendere un calmante, prima di coricarsi. Ho ancora qualche pillola. Sarei lieto di dargliene una. - Spiegò immediatamente il motivo della sua generosità. - Diversamente, potrebbe tenerci tutti quanti svegli, non vi pare?
- Più che logico - osservò seccamente Stuart. - E farà bene a tenerne una anche per il nostro Sir Lancillotto, qui; anzi, teniamone da parte una mezza dozzina. - Si avvicinò a Polyorketes, sempre disteso al suolo, e gli si inginocchiò accanto: - Stai comodo, piccolo?
- Non è di buon gusto parlare così, Stuart - s'indignò Windham.
- Be', visto che le sta tanto a cuore, perché non si fa aiutare da Porter a stenderlo sul letto?
Lo aiutò a fare quanto aveva suggerito. Le braccia di Polyorketes tremavano spasmodicamente, ora. Da quello che Stuart sapeva delle armi dei Kloro, Polyorketes doveva essere ora in preda a una serie di fitte acutissime, sparse per tutto il corpo.
- E cercate anche di non essere troppo gentili con lui, ora - aggiunse. - Quest'idiota poteva farci ammazzare tutti. E a quale scopo?
Spinse il corpo irrigidito di Polyorketes sull'altro lato della cuccetta e si sedette sulla sponda. - Mi senti, Polyorketes?
Gli occhi del contadino scintillarono. Polyorketes tentò di alzare un braccio ma non vi riuscì; il braccio ricadde sul letto.
- Benissimo, allora stammi a sentire. Non tentare mai più una cosa del genere. La prossima volta potrebbe essere la fine per tutti noi. Se tu fossi stato un Kloro e lui un terrestre, a quest'ora saremmo tutti morti. Perciò, mettiti bene in testa una cosa sola: siamo tutti molto addolorati per tuo fratello ed è atroce che sia finito così, ma la colpa è stata sua.
Polyorketes cercò di sollevarsi, ma Stuart lo costrinse a rimanere disteso.
- No, devi starmi a sentire, ora. Forse questa è l'unica volta che possa parlarti mentre sei costretto ad ascoltare. Tuo fratello ha fatto molto male ad abbandonare l'alloggio dei passeggeri. Non c'era un solo posto, su questa nave, dove rifugiarsi. È andato a cacciarsi tra i nostri uomini e i Kloro. Non sappiamo nemmeno con certezza se sia stato un disintegratore nemico a ucciderlo. Potrebbe essere stato anche uno dei nostri.
- Oh, andiamo, Stuart - protestò il colonnello.
Stuart si voltò di scatto verso Windham. - Ha forse le prove che non sono stati i nostri? Ha visto per caso sparare il colpo? Può stabilire, dai resti di quel poveretto, se si trattava di energia kloro o di energia terrestre?
Polyorketes ritrovò la voce, mentre la sua lingua intorpidita farfugliava in tono ringhioso: - Maledetta sporca spia dei verdi!
- Io, eh? - disse Stuart. - So benissimo quello che ti passa per la mente, Polyorketes. Pensi che, quando la paralisi ti sarà passata, potrai rifarti un po', dandomele di santa ragione. Bene, ti avverto che, se lo farai, sarà probabilmente la fine di tutti noi.
Si alzò e andò ad appoggiarsi con le spalle alla parete. Per il momento, li aveva tutti contro. - Nessuno di voi conosce i Kloro come li conosco io. Le differenze fisiche che avete visto non sono importanti. Lo sono, invece, le differenze di temperamento. Loro non capiscono, per esempio, il nostro punto di vista sui rapporti sessuali. Per loro, si tratta di un riflesso biologico, come respirare. Non danno perciò più importanza alla cosa di quanta ne meriti. Ma danno invece la massima importanza ai gruppi sociali. Non dimenticate che i loro progenitori, sotto il profilo dell'evoluzione biologica, avevano molto in comune con i nostri insetti più evoluti. Presumono sempre, quando trovano un gruppo di terrestri riuniti, che questi formino un'unità sociale.
"Per loro, questo rappresenta quanto c'è di più importante al mondo. Io non capisco esattamente, e nessun altro terrestre potrebbe capire. Ma il risultato di tale concetto è che i Kloro non dividono mai un gruppo, così come noi non separiamo una madre dai suoi piccoli, se appena appena è possibile. Uno dei motivi per i quali ci trattano con tanta delicatezza è perché sono convinti che siamo sconvolti e disintegrati come gruppo, dato che hanno ucciso uno di noi: e se ne sentono colpevoli.
"Ma c'è una cosa che dobbiamo sempre tenere presente: saremo internati e tenuti insieme per tutta la durata della nostra prigionia. Non è un'idea che mi sorrida molto. Non avrei scelto nessuno di voi come compagno di prigionia, così come sono convinto che nessuno di voi avrebbe scelto me. Ma non c'è niente da fare. I Kloro non potranno mai capire che il nostro trovarci insieme su questa nave è stato puramente accidentale.
"Ragion per cui, dovremo rassegnarci ad andare d'accordo, in un modo o nell'altro. E intendiamoci, non ve lo dico per ragioni sentimentali. Sapete che cos'avrebbero fatto, i Kloro, se fossero entrati qui e avessero trovato Polyorketes e me mentre tentavamo di ammazzarci a vicenda? Voi che cosa pensereste, che so...?, di una madre sorpresa nell'atto di uccidere i suoi figli?
"Be', è lo stesso. Ci avrebbero eliminati, uno a uno, come una manica di pervertiti e di mostri. Avete capito bene? E tu, Polyorketes, hai capito come stanno le cose? Per cui insultiamoci pure, se proprio non possiamo farne a meno, ma teniamo le mani a posto. E ora, se permettete, massaggerò un po' le mie mani per ridare loro la forma giusta... queste povere mani sintetiche che mi hanno dato i Kloro, e che uno della mia specie ha cercato di maciullarmi un'altra volta."
Per Claude Leblanc, il peggio era passato. Si era sentito tanto male, per tante ragioni, ma soprattutto per avere avuto la pessima idea di allontanarsi dalla Terra. Certo, andare a studiare su un altro pianeta gli era sembrata una cosa bellissima: un'avventura, prima di tutto, e poi un modo per affrancarsi dal dominio materno. Il primo mese, be', si era sentito disorientato, ma una volta assuefatto era stato felicissimo di quell'iniziativa.
Poi, durante le vacanze estive, non si era più sentito Claude, lo studente timido, ma Leblanc, il viaggiatore spaziale. E come l'aveva sbandierata, la sua esperienza di viaggiatore. Si era sentito un vero uomo a poter parlare di stelle, di tragitti interplanetari, di dogane, di ambienti d'altri mondi; gli aveva dato coraggio anche con Margaret. Lei lo aveva amato e preso sul serio proprio per i rischi che aveva corso...
Salvo che quello era stato il primo, in realtà, e per giunta lui l'aveva affrontato malissimo. Lo sapeva, ne aveva vergogna, e avrebbe dato chissà che cosa per essere come Stuart.
Prese la scusa del pasto per tentare un approccio. - Signor Stuart? - disse.
Stuart gli lanciò un'occhiata e borbottò: - Come va, meglio?
Leblanc si sentì arrossire. Arrossiva facilmente e lo sforzo di non darlo a vedere lo faceva diventare addirittura paonazzo. - Sì, molto meglio, grazie - rispose. - Stiamo mangiando. Ho pensato di portarle la sua razione.
Stuart prese la scatola che gli veniva offerta. Si trattava delle solite razioni distribuite a bordo: alimenti sintetici, concentrati, nutrienti e, in certo qual modo, i più insipidi dell'universo. Si riscaldavano automaticamente, quando la scatola veniva aperta, ma potevano essere mangiati anche freddi se necessario. Sebbene un utensile che combinava in sé la duplice funzione di cucchiaio e di forchetta fosse incluso nella scatola, la razione era di una consistenza che rendeva l'uso delle dita pratico e, tutto sommato, anche igienico.
- Ha sentito il mio discorsetto? - domandò Stuart.
- Si, signor Stuart. Volevo appunto dirle che può contare su me.
- Ah, bene. Vada pure a mangiare, ora.
- Posso rimanere qui?
- Prego, si accomodi.
Mangiarono per qualche istante in silenzio. A un tratto, Leblanc proruppe: - Lei è così sicuro di sé, signor Stuart! Dev'essere meraviglioso, sentirsi così.
- Sicuro di me? Grazie della stima, ma se cerca uno sicuro di sé, eccolo là.
Leblanc guardò sorpreso nella direzione che l'altro indicava con un cenno. - Il signor Mullen? Quell'omino? Oh, no!
- Non le sembra un uomo sicuro di sé?
Leblanc scosse la testa. Guardò Stuart attentamente, non sapendo se scherzasse o parlasse sul serio. - Quella è soltanto freddezza - disse. - Mullen è incapace di reazione. È come una macchinetta. Per conto mio, lo trovo repellente. Lei è diverso, signor Stuart. Lei sì, è capace di reagire, ma sa anche controllarsi. Mi piacerebbe essere come lei.
Come attratto dall'essere stato nominato, Mullen, che pure non aveva sentito niente, si avvicinò. La sua razione era quasi intatta. Dalla scatoletta si levava ancora un po' di vapore, mentre l'omino si accoccolava di fronte a loro.
La voce di Mullen ricordava il fruscio caratteristico che si sente tra il fogliame del sottobosco. - Quanto pensa che durerà il viaggio, signor Stuart?
- Non saprei, Mullen. Ma non c'è dubbio che i Kloro eviteranno le solite rotte commerciali e faranno più balzi nell'iperspazio di quanto sia necessario, per evitare eventuali inseguimenti. Non mi sorprenderebbe che il viaggio durasse ancora una settimana. Perché vuole saperlo? Immagino che avrà un motivo logico e pratico, vero?
- Oh, sì, certo. - L'ometto sembrava ignorare ogni forma di sarcasmo. - Avevo pensato che potrebb'essere prudente razionare i viveri, per così dire.
- Abbiamo cibo e acqua sufficienti per un mese. È la prima cosa di cui ho voluto assicurarmi.
- Vedo. In questo caso, posso dare fondo alla mia scatola. - E così fece, usando con molto garbo la posata multipla e pulendosi ogni tanto le labbra con il fazzoletto, elegantemente, sebbene non ve ne fosse bisogno.
Un paio d'ore dopo, Polyorketes riuscì ad alzarsi in piedi, barcollando. Sembrava uno che si riprenda, dopo una ubriacatura solenne. Non cercò di avvicinarsi a Stuart, ma parlò da dove si trovava.
- Attento a quello che fai, sporca spia dei verdi.
- Non hai sentito quello che ti ho detto prima, Polyorketes?
- Ho sentito, sì. Ma ho sentito anche quello che hai detto di Aristides. Non voglio occuparmi di te, perché non sei che una vescica piena d'aria, che farà rumore. Ma aspetta un po', e vedrai che un giorno o l'altro la tua aria farà troppo rumore, e troverai chi ti fa scoppiare come un pallone.
- Vedremo - disse Stuart.
Windham si fece avanti, zoppicando appoggiato al suo bastone. - Su, su - esortò, con una sorta di forzata allegria che metteva in risalto, invece di nasconderla, l'ansia da cui era pervaso. - Siamo tutti figli della Terra, perdiana! Ricordiamocelo! Questo pensiero dev'essere la luce ispiratrice di ogni nostro gesto. Mai scendere in basso davanti ai maledetti Kloro! Dobbiamo dimenticare le nostre rivalità personali e ricordarci soltanto che siamo dei terrestri, uniti come un solo uomo contro il nemico comune.
Stuart se ne uscì in un commento irriferibile.
Porter si teneva alle spalle del colonnello: i due erano rimasti in disparte a confabulare per più di un'ora, e ora la voce di Porter vibrava d'indignazione: - Non giova a nessuno prendere quel tono, Stuart. Cerchi piuttosto di dare ascolto al colonnello. Windham e io abbiamo studiato a lungo la situazione.
Benissimo, colonnello - disse Stuart. - Che cos'ha intenzione di fare?
- Preferirei che ci riunissimo tutti - disse Windham.
- Benissimo, chiami anche gli altri.
Leblanc accorse subito; Mullen si avvicinò con la solita calma.
- Vuole anche quello là? - domandò Stuart, accennando col mento a Polyorketes.
- Sì, certo. Signor Polyorketes, possiamo averla con noi, caro amico?
- Oh, lasciatemi in pace.
- Su, sentiamo - disse Stuart al colonnello. - Lo lasci perdere. Non ce lo voglio, qui.
- No e no - protestò Windham. - Questa è una cosa che riguarda tutti i terrestri. Signor Polyorketes, è necessario che ascolti anche lei.
Polyorketes, disteso sulla brandina, si girò su un fianco. - Sono abbastanza vicino. Sento benissimo anche da qui.
Windham guardò Stuart. - Pensa che quelli... i Kloro, voglio dire, abbiano installato un microfono?
- No - rispose Stuart. - E a che scopo, poi?
- Ne è sicuro?
- Sicurissimo. Non sapevano che cosa fosse successo, quando Polyorketes mi è saltato alla gola. Hanno sentito solamente il rumore della colluttazione, ma nient'altro.
- Forse hanno voluto darci l'impressione che la cabina non era sotto controllo.
- Senta, colonnello, non ho mai visto un Kloro mentire volutamente...
Polyorketes lo interruppe, calmo calmo. - Quel pallone pieno d'aria è addirittura innamorato dei Kloro.
Windham s'intromise immediatamente. - Ora non ricominciamo. Senta, Stuart, Porter e io abbiamo analizzato la situazione e siamo convinti che lei conosca i Kloro quanto basta per trovare un modo di tornarcene sulla Terra.
- Purtroppo si sbaglia. Non conosco nessun modo per tornare sulla Terra.
- Pure dovrebb'esserci un modo che ci permetta di riprendere la nave a questi maledetti verdi - tornò a insistere Windham. - Qualche debolezza insita nella loro natura. Insomma, Stuart, sa benissimo quello che voglio dire.
- Mi dica, colonnello, che cosa le preme di più? La sua pelle o gli interessi del nostro pianeta?
- Considero offensiva questa domanda. Desidero lei sappia che, mentre mi preoccupo della mia incolumità personale, come è diritto di tutti, è alla Terra che penso, in primo luogo. E penso che questo valga per ognuno di noi.
- Perfetto - disse subito Porter. Leblanc era preoccupato? Polyorketes risentito, e Mullen si manteneva inespressivo come sempre.
- Bene - disse Stuart. - Naturalmente, non credo che noi possiamo riprendere possesso della nave. I Kloro sono armati e noi no. E poi c'è un'altra cosa. Sapete tutti perché i Kloro hanno catturato questa nave senza colpirla, vero? Perché hanno bisogno di navi. Come chimici saranno anche migliori dei terrestri, ma i terrestri sono migliori ingegneri navali. Noi abbiamo navi più grandi, migliori e più numerose. Anzi, se l'equipaggio di questa nave avesse tenuto nel rispetto dovuto le norme della strategia militare, avrebbe fatto saltare in aria la nave non appena si fosse profilato il pericolo che i Kloro potessero abbordarla.
Leblanc sembrava inorridito. - Uccidendo così tutti i passeggeri?
- E perché no? Ha sentito quello che il nostro colonnello ha detto un minuto fa? Ognuno di noi deve anteporre gli interessi del pianeta alla sua piccola esistenza miserabile. Di che utilità siamo sulla Terra, ora? Nessuna. Mentre questa nave, in mano ai Kloro, sarà probabilmente causa di danni enormi per i nostri fratelli.
- Ma allora perché - domandò Mullen - i nostri uomini non hanno fatto saltare in aria la nave? Ci sarà stata bene una ragione.
- Certo. Secondo le tradizioni militari della Terra, non deve mai esserci uno squilibrio sfavorevole nelle perdite. Se la nostra nave fosse saltata in aria, venti militari e sette civili sarebbero morti, mentre le perdite del nostro nemico sarebbero assommate a zero. Per cui, che cosa si è fatto? Si è lasciato che salissero a bordo, ne abbiamo uccisi ventotto - non uno di meno, sarei pronto a giurarlo - e abbiamo lasciato che s'impadronissero della nave.
- Parole, parole, parole - sbuffò Polyorketes.
- C'è una morale, a tutto questo - disse Stuart. - Non possiamo riprendere la nave ai Kloro. Ma potremmo riuscire ad attaccarli, e a tenerli impegnati abbastanza a lungo da permettere a uno di noi di provocare un corto circuito nei motori.
- Che cosa? - urlò Porter, e Windham lo zittì, spaventato.
- Provocare un corto circuito nei motori - ripeté Stuart. - Si distruggerebbe la nave, naturalmente, ma è quello che noi vogliamo, no?
Leblanc aveva le labbra livide. - Non credo che il piano possa riuscire.
- Come possiamo dirlo, se prima non tentiamo? E che cos'avremo da perdere, in fondo, se tentassimo?
- La vita, la nostra pelle, accidenti! - urlò Porter. - Fanatico maledetto, pazzo da manicomio che non è altro!
- Se sono pazzo e fanatico - osservò Stuart - va da sé che sono da manicomio. Vorrei farvi notare, però, che se dovessimo rimetterci la pelle, cosa molto probabile, non toglieremmo niente di prezioso alla Terra; mentre, se distruggiamo la nave, come potremmo fare con qualche probabilità di riuscita, faremmo molto bene al nostro pianeta. Quale patriota esiterebbe? Chi di noi preferirebbe anteporre se stesso al suo mondo? - Si guardò intorno, in un silenzio di piombo. - Non certo lei, colonnello Windham.
Windham venne colto da un accesso di tosse. - Mio caro giovanotto, non è questo il punto. Il punto è: c'è un modo di salvare la nave per il nostro pianeta, senza per questo rimetterci la pelle?
- D'accordo. Lo dica lei, se c'è.
- Pensiamoci tutti. Al momento, a bordo della nave ci sono soltanto due Kloro. Se uno di noi potesse portarsi furtivamente alle loro spalle e attaccarli...
- E come? Il resto della nave è immerso in un'atmosfera di cloro. Dovremmo indossare le tute spaziali. E la gravità, nella parte della nave occupata da loro, è stata portata ai valori cui sono abituati, per cui quello di noi che dovesse avere a che fare con loro dovrebbe trascinarsi lentamente, pesantissimo, strisciando sul pavimento. Una cosa da niente, per chi dovesse attaccarli di sorpresa, giocando di astuzia e di... agilità.
- E allora bisognerà abbandonare l'idea. - A Porter tremava la voce. - Stia a sentire, Windham, non si parli neppure di distruggere la nave. Io alla vita ci tengo, e molto! Se c'è qualcuno di voi deciso a tentare colpi di testa, chiamerò i Kloro: siete avvertiti tutti!
- Bene - disse Stuart - ecco qui l'eroe numero uno.
- Io voglio tornarmene sulla Terra - disse Leblanc - ma non vedo...
- Non credo - lo interruppe Mullen - che ci siano molte probabilità di riuscire a distruggere la nave, a meno che...
- Ed ecco gli eroi numero due e tre - disse Stuart. - E tu, Polyorketes? Avresti una buona occasione per ammazzare due Kloro.
- Io voglio ammazzarli con le mie stesse mani - ruggì il contadino, agitando freneticamente i pugni. - Sul loro pianeta li farò fuori a dozzine.
- Ecco un bel progettino, che per ora non costa niente. E lei, colonnello? Non vuole marciare con me verso la morte e la gloria?
- Parla con un cinismo e un'arroganza riprovevoli, Stuart. Il fatto è che, se gli altri non sono disposti ad agire, il suo piano rimarrà lettera morta.
- A meno che non cerchi di metterlo in esecuzione io, eh?
- Lei non muoverà un dito, intesi? - scattò immediatamente Porter.
- Certo che non lo muoverò - lo tranquillizzò Stuart. - Non ho mai preteso di passare per un eroe, io. Sono un patriota di mezza tacca, più che disposto a far rotta per il primo pianeta dove mi si voglia portare, ad aspettare in pace che la guerra sia finita.
Fu Mullen a rompere il silenzio. - Volendo - disse, pensosamente - il modo di cogliere di sorpresa i Kloro ci sarebbe. - Stuart, alzando gli occhi sull'ometto, vide che Mullen si rivolgeva proprio a lui. - Potremmo attaccare i Kloro dall'esterno. Anche questa cabina, ne sono sicuro, deve avere il Condotto "C".
- Cosa sarebbe il Condotto "C" - domandò Leblanc.
- Be', si tratta... - cominciò a dire Mullen, e non ebbe il coraggio di continuare.
Stuart disse, sogghignando: - È il solito eufemismo, ragazzo mio. La denominazione completa è: Condotto per Cadaveri. È un argomento sul quale si tace, in genere, ma tutte le astronavi ne hanno uno, nella cabina principale. Sono piccole camere di decompressione automatiche, nelle quali si lascia scivolare il cadavere, quando c'è un morto a bordo. Sepoltura nello spazio. Atmosfera solenne, di circostanza, e il capitano che fa un bel discorso, di quelli che a Polyorketes non piacciono.
Leblanc fece una smorfia. - Dovremmo servirci di quello, per lasciare la nave?
- Perché no? Superstizioso?... Continui, Mullen.
L'ometto stava aspettando, pazientemente, di riprendere la parola. - Una volta all'esterno, si potrebbe rientrare nell'astronave attraverso i tubi di scarico del vapore. È una cosa che si può fare... con un po' di fortuna. E se si riesce, si arriva inaspettati nella cabina di comando.
Stuart lo fissava, incuriosito. - Scusi, ma... come ci ha pensato? Che cosa ne sa, lei, di tubi di scarico del vapore?
Mullen si schiarì la gola. - Perché sono impiegato in una fabbrica di scatole, dice? Vede... - Arrossì, prese tempo, poi ricominciò a parlare con voce distaccata e incolore. - La mia ditta, che fabbrica scatole per dolci e contenitori fantasia, aveva ideato, tempo fa, una scatola di dolciumi a forma di nave spaziale destinata ai consumatori più giovani. Mediante un sistema di sfiatatoi ad aria compressa, appena si scioglieva la cordicella che la legava, la scatola saltava per aria e si metteva a svolazzare per la stanza, sparpagliando dolci qua e là. In teoria, i ragazzi, oltre a divertirsi a giocare con la nave, avrebbero fatto a gara a raccattare i dolciumi.
"In pratica, fu un fallimento completo. La scatola-astronave rompeva piatti e finiva di solito negli occhi di qualcuno. E i ragazzi, invece di divertirsi a raccattare caramelle e cioccolatini, si prendevano a pugni, aumentando il disastro. Fu la peggiore idea commerciale che si potesse avere, e costò alla mia ditta molti milioni.
Tuttavia, la fase sperimentale, diremo così, aveva creato negli uffici commerciali della ditta un grande entusiasmo per la tecnica astronautica. Per un po', diventammo tutti specialisti della propulsione spaziale mediante getti di vapore. Ricordo d'aver letto io stesso molti trattati sull'argomento. Ma a casa, intendiamoci, non nelle ore d'ufficio."
Stuart sembrava affascinato. - Sa - disse - sembra una cosa presa a prestito da un romanzo di fantascienza, ma è un'idea che potrebbe funzionare, se soltanto avessimo a disposizione il solito eroe superuomo. Ma... l'abbiamo?
- Perché non si fa avanti lei? - scattò subito Porter, risentito. - Non fa che prenderci in giro, con le sue frecciate maligne. Però di offrirsi volontario si guarda bene, ho notato.
- Proprio perché non sono un eroe, Porter. Lo ammetto. Il mio scopo è di restare vivo e vegeto, e strisciare giù per gli sfiatatoi a vapore non è il sistema migliore per vivere a lungo. Ma voialtri siete tutti patrioti ardenti. Il colonnello dice di esserlo. Vero, colonnello? Lei è l'eroe capo, qui.
- Se fossi più giovane, per la miseria - disse Windham - e se lei avesse le mani, Stuart, sarebbe per me un raffinato piacere torcerle il collo e farle ingoiare il suo sarcasmo.
- Non ne dubito, ma questa non è una risposta.
- Sa benissimo che, alla mia età e con una gamba in queste condizioni... - batté la mano aperta sul ginocchio rigido -...non sono in grado di fare niente di tutto questo, anche se lo vorrei.
- Eh, si - disse Stuart - e anch'io, con le mie povere mani, sono soltanto uno storpio, come mi ha fatto notare Polyorketes. Noi due, perciò, siamo da escludere. E il resto dei presenti, da quali malaugurate infermità è afflitto?
- Sentite un po' - interruppe Porter - intendo capirci qualcosa di tutta questa faccenda. Come si fa a infilarsi dentro quei tubi di scappamento? E se poi i Kloro li usano proprio mentre c'è dentro uno di noi?
- Eh, caro Porter, quello è il coefficiente di rischio, per così dire. Sta tutto lì, il bello dell'avventura.
- Ma si va a rischio di venire lessati con tutto il guscio, come un'aragosta.
- L'immagine è pittoresca, ma non è esatta. Innanzitutto, il vapore avvolgerebbe il malcapitato per un secondo o due, al massimo, e il tessuto isolante della tuta lo difenderebbe a dovere, per un così breve spazio di tempo. Ma il vapore, vede, viene lanciato negli sfiatatoi a una velocità di molte centinaia di miglia al minuto, per cui lei, mettiamo, verrebbe scagliato fuori dalla nave prim'ancora di sentirne il calore. Anzi, verrebbe scaraventato molti chilometri lontano, nello spazio, dopo di che non avrebbe più niente da temere, da parte dei Kloro; in compenso, non potrebbe nemmeno ritornare all'astronave.
Porter sudava freddo: - Non s'illuda di spaventarmi, Stuart.
- No? Allora ha deciso di offrirsi come volontario? è sicuro d'avere capito bene che cosa significa trovarsi alla deriva nello spazio interstellare? Significa essere soli, capisce; assolutamente soli. Il getto di vapore le avrà probabilmente impresso un movimento rotatorio, a capriola; ma lei non se ne accorgerà: le sembrerà di essere completamente immobile. Ma le stelle intorno a lei gireranno, gireranno, tanto che per lei non saranno che strisce di luce. E non si fermeranno mai. Non rallenteranno nemmeno. Poi, il suo radiatore cesserà di emanare calore, la riserva di ossigeno si esaurirà e lei morirà, con estrema lentezza. Avrà tutto il tempo di pensare. Oppure, se deciderà di farla finita alla svelta, potrà aprire la tuta. Neppure questo sarà piacevole, intendiamoci. Ho visto facce di individui ai quali, per disgrazia, si era lacerata la tuta mentre si trovavano nello spazio, e le assicuro che non erano belle da vedere. Ma, se non altro, sarebbe una fine più rapida, e...
Porter gli voltò le spalle e si allontanò con passo malfermo.
Allegramente, Stuart commentò: - Un'altra defezione. L'atto di eroismo è qui che aspetta d'essere aggiudicato al miglior offerente, ma a quanto pare nessuno si lascia tentare.
Polyorketes volle dire la sua, e la voce rozza rendeva le parole ancora più volgari. - Continua pure a blaterare, Signor Linguacciuto. Continua pure a battere sul tamburo. Quando meno te l'aspetti, troverai chi ti farà ingoiare i denti. Conosco un tale che muore dalla voglia di farlo, eh, signor Porter?
L'occhiata che Porter lanciò a Stuart confermò la verità delle osservazioni di Polyorketes, ma non venne accompagnata da alcun commento.
- Oh, a proposito, Polyorketes - disse Stuart. - Mi stavo dimenticando di te! Tu sei quello che ammazza a mani nude, appena si presenta l'occasione. Vuoi che ti aiuti a entrare dentro una tuta spaziale?
- Quando vorrò il tuo aiuto te lo farò sapere.
- E lei, Leblanc?
Il giovane si ritrasse, inorridito.
- Nemmeno per tornare da Margaret?
Ma Leblanc poté soltanto scuotere la testa.
- Mullen?
- Be'... tenterò io.
- Cosa farà?
- Ho detto di sì, che farò il tentativo. L'idea è mia, alla fin fine.
Stuart sembrava sinceramente sbalordito. - Dice sul serio? E come mai si è offerto?
Mullen sporse le labbra in una smorfia. - Visto che nessun altro se la sente...
- Ma non è una ragione. Specie per lei.
Mullen si strinse nelle spalle.
Stuart udì dietro di sé il battere di un mazza sul pavimento. Poi, si sentì spingere in là da Windham.
- Davvero è deciso ad andare, Mullen? - domandò il colonnello.
- Sì, certo.
- In questo caso, per Giove, mi permetta di stringerle la mano. Lei mi piace. È un vero... un vero terrestre! La fortuna l'accompagni e, che lei vinca o che muoia, ci sarò io a testimoniare del suo valore!
Mullen ritirò la mano, un po' impacciato, dalla stretta sentita e vibrante dell'altro.
E Stuart rimase là, a guardare. Si trovava in una situazione veramente insolita, per lui: così insolita, anzi come mai gli era capitato in vita sua.
Non aveva niente da dire.
La tensione era di tutt'altra natura, ora. Lo sconforto e l'abbattimento erano passati, e al loro posto era subentrata un'ansia febbrile, da cospiratori. Perfino Polyorketes esaminava le tute spaziali, facendo brevi e rauchi commenti su quella che gli sembrava la più adatta.
Mullen era alle prese con le prime difficoltà. La tuta gli pendeva addosso come un sacco, e sì che era stata stretta al massimo in tutti i punti dov'era possibile regolarla. Ora stava là, ad aspettare che gli avvitassero il casco. Tirava il collo, ogni tanto, come se si sentisse soffocare.
Stuart reggeva il casco con un certo sforzo. Era pesante, e le sue mani di plastica facevano fatica a reggerlo. - Si gratti pure il naso, se le prude. Dopo non potrà più farlo, per un po' di tempo. - Non aggiunse: "Forse in eterno" ma lo pensò.
Mullen osservò, con voce incolore: - Forse sarà meglio che prenda con me un serbatoio d'ossigeno di scorta.
- Ottima idea.
- Con una valvola di riduzione.
Stuart assentiva. - Sì, capisco a che cosa sta pensando. Se mai venisse scagliato lontano dalla nave, potrebbe tentare di riavvicinarsi, usando il serbatoio come motore a reazione.
Gli avvitarono il casco e gli agganciarono alla vita il serbatoio supplementare di ossigeno. Polyorketes e Leblanc lo sollevarono fino all'apertura sbadigliante del Condotto "C". L'interno era paurosamente buio, dato che le pareti metalliche del condotto erano state verniciate di nero. Stuart aveva l'impressione che l'interno emanasse un odore di putrido, ma sapeva benissimo che era soltanto frutto della sua fantasia.
Fermò l'operazione di calo, quando Mullen era già per metà dentro il tubo, per battere sulla visiera trasparente del casco.
- Mi sente?
Dall'interno, arrivò un cenno d'assenso.
- L'aria filtra normalmente? Nessun inconveniente dell'ultimo minuto?
Mullen sollevò il braccio rivestito di plastica in un gesto che voleva essere rassicurante.
- Allora mi raccomando, una volta fuori non usi la radio della tuta. I Kloro potrebbero captare i segnali.
A malincuore, Stuart si trasse indietro. Poi, le mani abbronzate di Polyorketes ripresero a calare Mullen, finché si sentirono le suole metalliche risonare contro la porta esterna del compartimento stagno. Poi, quella interna prese a chiudersi con un movimento implacabile, definitivo, finché, con una sorta di sibilo sordo, il portello di silicone rientrò tra le sue scanalature. I morsetti vennero rimandati a posto.
Stuart stava davanti al quadro di controllo della valvola esterna. Azionò una leva e il manometro che indicava la pressione dell'aria all'interno del tubo scese a zero. Un puntino di luce rossa si accese all'improvviso, avvertendo che la valvola esterna era aperta. Poi la luce si spense, la valvola si richiuse e la lancetta del manometro risalì lentamente verso le quindici libbre.
Riaprirono il portello dalla parte interna e videro che il condotto era vuoto.
Il primo a parlare fu Polyorketes. - Quel piccolo tanghero, chi se lo sarebbe immaginato! è andato davvero! - Guardava gli altri, quasi incredulo. - Un ometto da niente, pensate che fegato!
- Sentite, sarà bene che ci teniamo pronti, qui dentro. Non è escluso che i Kloro si siano accorti dell'apertura e della chiusura dei due portelli. In tal caso verranno subito qui, a indagare, e noi dovremo cercare di tenere nascosta la cosa.
- In che modo? - domandò Windham.
- Noteranno l'assenza di Mullen. Diremo che è andato al gabinetto. I Kloro sanno che è una delle caratteristiche dei terrestri quella di esigere la massima discrezione quando si tratta di necessità del genere, e non si prenderanno la briga di controllare. Se riusciamo a trattenerli fino a...
- Già, ma... se decidessero di aspettare, o se si mettessero a contare le tute? - obiettò Porter.
Stuart allargò le braccia. - Speriamo di no. E mi raccomando, Polyorketes, cerca di non commettere imprudenze, nel caso i Kloro venissero qui.
- Con quell'ometto là fuori? - borbotto Polyorketes. - Ma per chi mi hai preso? - Fissò Stuart senza alcuna animosità, poi si grattò vigorosamente la testa ricciuta. - Sai, me la ridevo di lui. Lo credevo proprio una donnetta. Ora me ne vergogno.
Stuart si schiarì la voce. - Senti, ho detto cose che non erano poi tanto spiritose, ora che ci penso. Ecco, vorrei dirti che me ne dispiace, sinceramente.
Si girò, con fare irsuto, e si allontanò verso la sua cuccetta. Udì dei passi dietro di sé, si sentì toccare la manica. Si voltò: era Leblanc.
Il ragazzo disse a bassa voce: - Continuo a pensare che Mullen è un uomo d'età, in fondo.
- Per lo meno, non è più un bambino. Avrà i suoi quarantacinque o cinquant'anni.
- Signor Stuart - disse Leblanc - pensa che avrei dovuto andare io, al suo posto? Sono il più giovane, qui. Non mi va l'idea d'aver lasciato andare un vecchio al posto mio. Mi fa sentire un verme.
- Lo so. Se dovesse morire, non potremo mai perdonarcelo.
- Ma si è offerto lui di andare. Non siamo stati noi a costringerlo, vero?
- Non cercare di scaricarti delle responsabilità, Leblanc. Non ti darà il minimo sollievo. Non c'è nessuno, qui tra noi, che non avesse motivi più seri dei suoi per andare. - E Stuart, seduto là sul suo letto, si chiuse nel silenzio, a meditare.
Mullen sentì il portello sotto di lui aprirsi e le pareti tutt'intorno scivolar via rapidamente, troppo rapidamente. Capì che era l'aria a trascinarlo con sé, nello sfuggire dal condotto, e puntò disperatamente braccia e gambe contro le pareti, per frenarsi. Il condotto era studiato in modo che i cadaveri venissero scagliati il più lontano possibile dalla nave, ma lui non era un cadavere... almeno per il momento.
I suoi piedi incontrarono il vuoto e si misero a scalciare. Udì il rumore sordo di uno scarpone magnetico contro lo scafo, mentre il resto del suo corpo schizzava fuori, come un tappo da una bottiglia di spumante. Barcollò paurosamente sull'orlo del compartimento - Sì era improvvisamente capovolto, e ora si trovava a fissare quella buca ai suoi piedi - poi fece un passo indietro perché già il portello stava per richiudersi automaticamente, fino a combaciare in modo perfetto con la superficie esterna della nave.
Era sopraffatto da un senso di irrealtà. Non era possibile, non era lui a starsene ritto sopra la superficie esterna di un'astronave. No che non era lui, Randolph F. Mullen. Erano pochissimi gli esseri umani che potevano dire d'essersi trovati in una situazione del genere, perfino tra quelli che attraversavano continuamente gli spazi cosmici.
A poco a poco, si rendeva conto d'essere tutto indolenzito. A schizzar fuori così da quel buco mentre, con un piede, era praticamente incollato allo scafo, per poco non si era spezzato in due. Tentò di muoversi, con precauzione, e scoprì che i suoi movimenti erano dissociati e quasi impossibili da controllare. Non c'era niente di rotto, o almeno non sembrava, ma i muscoli del lato sinistro avevano subìto un brutto stiramento.
Infine ritrovò la padronanza di sé e notò che le luci dei polsi della tuta erano accese. Appunto grazie a quelle luci aveva potuto guardare dentro le tenebre del Condotto "C". Trasalì, innervosito al pensiero che i Kloro potessero scorgere quelle due luci gemelle che si muovevano proprio rasente all'astronave. Poi, si affrettò a far scattare l'interruttore che si trovava nella parte centrale della tuta.
Mullen non avrebbe mai immaginato che, standosene ritto all'esterno di un'astronave, non sarebbe riuscito a vederne lo scafo. Ma il buio era totale, in basso come in alto. C'erano le stelle, piccoli punti brillanti, senza dimensione. E nient'altro. Niente altro da nessuna parte. Sotto di lui, nemmeno le stelle... nemmeno i suoi stessi piedi!
Gettò il capo all'indietro per vedere le stelle. La testa gli girava. Si muoveva lentamente. O meglio, le stelle stavano ferme ed era la nave che ruotava, ma per i suoi occhi era esattamente l'inverso. Erano le stelle a spostarsi. Provò a seguirle con lo sguardo... scendevano fino a sparire dietro la nave. Nuove stelle sorgevano e salivano dal lato opposto. Un orizzonte nero. La nave esisteva soltanto come una zona in cui non vi erano stelle.
Eppure una c'era, si, quasi ai suoi piedi. Fece quasi il gesto di chinarsi a toccarla; poi, si rese conto che si trattava di un semplice riflesso scintillante nel metallo lucido come uno specchio.
Si muovevano a migliaia di chilometri all'ora. Le stelle. L'astronave. Lui. Ma tutto questo non aveva alcun significato. Per i suoi sensi, c'era soltanto oscurità, silenzio, e quel lento ruotare delle stelle. I suoi occhi seguivano incantati quel lento ruotare...
E la sua testa, chiusa nel casco, urtò contro lo scafo con un rintocco smorzato, simile a quello di una campana.
Tastò attorno a sé, in preda al panico, con i grossi guanti insensibili. I suoi piedi erano ancorati fermamente allo scafo dalle piastre magnetiche, ma il resto del corpo, dalle ginocchia in su, era piegato all'indietro ad angolo retto. Non c'era la gravità, all'esterno della nave. Se uno si piegava all'indietro, non c'era niente ad attirare verso il basso la parte superiore del busto e ad avvertire le giunture che si stavano piegando. Il corpo stava così, come uno lo metteva.
Mullen si diede disperatamente la spinta, puntellandosi contro lo scafo, e subito il busto schizzò verso l'alto e, una volta ritto, rifiutò di fermarsi. Mullen si sentì cadere in avanti.
Ritentò, stavolta più lentamente, puntando le mani contro lo scafo per ritrovare l'equilibrio e riuscendo, alla fine, a mettersi acquattato. Cominciò allora a tirarsi su. Piano piano, con le braccia stese in fuori per bilanciarsi.
Ecco, era ritto, ma in preda a un senso di nausea e di capogiro. Si guardò attorno. Santo Dio, dov'erano gli sfiatatoi del vapore? Non riusciva a vederli. Erano nero su nero, il niente sul niente.
Si affrettò ad accendere le luci dei polsi. Nello spazio, non c'erano raggi luminosi, le luci erano soltanto chiazze ellittiche e ben definite di un chiarore azzurro acciaio, che ammiccavano verso di lui. Là dove investivano una saldatura, si vedeva soltanto un'ombra breve, tagliente e nera come lo spazio, e la zona era illuminata da una luce cruda, senza diffusione.
Mullen mosse le braccia e il suo corpo oscillò dolcemente nella direzione opposta: azione e reazione. La visione di un tubo di sfiatamento, dalle pareti lisce e cilindriche, gli balzò incontro.
Tentò di muoversi a quella volta. Il suo piede aderiva saldamente allo scafo. Mullen tirò, e il piede cominciò a cedere, lottando contro una viscosità tenace, da sabbie mobili. Su, su, per un palmo, ed ecco, il piede si era quasi liberato di quel risucchio; un altro palmo, e Mullen provò la sensazione che il piede gli volasse via.
Lo spinse in avanti e lo lasciò ricadere, lo sentì sprofondare di nuovo nelle sabbie mobili. Poi, arrivata a cinque centimetri dallo scafo, la suola, sfuggendo al controllo, venne attirata all'ingiù e si stampò sulla piastra metallica. La tuta spaziale trasmise a Mullen le vibrazioni prodotte dall'urto, amplificandole.
Lui si arrestò, paralizzato dal terrore. I disidratatori che eliminavano l'eccesso di umidità all'interno della tuta non riuscirono ad assorbire l'improvviso fiotto di sudore che gli inzuppava la fronte e le ascelle.
Aspettò, poi tentò nuovamente di sollevare il piede: di due soli centimetri, tenendolo sospeso con tutte le sue forze e spostandolo in senso orizzontale. Il moto in senso orizzontale non comportava alcuno sforzo; era perpendicolare alle linee di forza magnetica. Ma bisognava tenere il piede in tensione, per impedirgli di farsi tirar giù di colpo, e poi calarlo con molta lentezza.
Ansimava per la fatica. Ogni passo era una tortura. I tendini delle ginocchia gli scricchiolavano e aveva l'impressione d'avere dei coltelli piantati nei fianchi.
Si fermò, per dar tempo al sudore di asciugarsi. Non era prudente lasciare che la visiera del casco si appannasse. Riaccese le luci dei polsi e vide che lo sfiatatoio era a un passo da lui.
La nave ne aveva quattro, a intervalli di novanta gradi: sporgevano dalla fascia mediana, formando un angolo. Erano i "normalizzatori di rotta" dell'astronave. La forza di propulsione vera e propria era rappresentata dai potenti getti di prua e di poppa, che stabilivano la velocità desiderata mediante la loro forza di accelerazione e di decelerazione, nonché dal motore iperatomico, che entrava in funzione quando l'astronave doveva compiere un balzo nello spazio.
Ma la rotta, di tanto in tanto, doveva essere corretta lievemente, e allora entravano in azione i getti a vapore. Ogni getto poteva, isolatamente, innalzare o abbassare l'astronave, spostarla a destra o a sinistra. A coppie, dosando proporzionalmente la spinta, potevano far compiere alla nave qualsiasi manovra.
Da secoli, il sistema non aveva subito modifiche, essendo troppo semplice per essere perfezionato. La pila atomica riscaldava l'acqua contenuta in un apposito serbatoio, trasformandola in vapore e portando poi il vapore, in meno di un secondo, a temperature che ne provocavano la scissione in idrogeno e ossigeno e, infine, lo trasformavano in un miscuglio di elettroni e di ioni. Nessuno si era mai preso la briga di controllare se la scissione avvenisse davvero; il sistema funzionava e, in fondo, l'essenziale era questo.
Al punto critico, una valvola di sicurezza cedeva e il vapore si lanciava fuori a velocità folle, con uno sbuffo breve ma di una potenza incredibile. E l'astronave, sotto la spinta inesorabile, cambiava maestosamente direzione, girando attorno al proprio centro di gravità. Quando il numero di gradi necessari era stato raggiunto, veniva lanciato un getto uguale e opposto, e il movimento di rotazione si arrestava. L'astronave continuava il suo viaggio alla velocità originaria, ma in una nuova direzione.
Mullen era riuscito ormai a trascinarsi sull'orlo dello sfiatatoio. Si vide, macchiolina scura, oscillare paurosamente all'estremità di una struttura sporgente da uno scafo ovoidale lanciato nello spazio a quindicimila chilometri al secondo.
Ma non c'era nessuna corrente che tendesse a strapparlo via dallo scafo, e le suole magnetiche lo tenevano ancorato alla nave ancor più saldamente di quanto desiderasse.
Con le luci accese, si chinò a scrutare dentro il tubo e, avendo mutato il suo orientamento visivo, provò l'impressione che la nave gli sfuggisse di sotto. Tese un braccio, per aggrapparsi istintivamente a qualcosa, ma non stava cadendo. Non c'era alto e basso, nello spazio; c'erano soltanto le impressioni errate della sua mente confusa.
Il cilindro era largo a sufficienza per contenere un uomo, e questo per consentire i lavori di manutenzione. Le luci misero in mostra le intaccature proprio di fronte al punto in cui egli si trovava, presso l'orlo della cavità. Con quel po' di fiato che gli restava, Mullen trasse un sospiro di sollievo. Molte astronavi non avevano scalette, all'interno degli sfiatatoi.
Vi si diresse lentamente, mentre la nave sembrava scivolare e torcersi sotto di lui, a ogni suo movimento. Sollevò un braccio oltre l'orlo dello sfiatatoio, cercando il primo scalino a tentoni; sollevò prima un piede, poi l'altro, e si issò nell'interno.
Il nodo allo stomaco che l'aveva tormentato fin dal principio divenne ora uno spasimo quasi insostenibile. E se avessero deciso proprio ora di modificare la rotta, e il vapore fosse esploso all'improvviso, sibilando...?
Lui non avrebbe fatto in tempo né a vederlo né ad accorgersene. Un istante prima sarebbe stato appeso a un gradino, brancolando lentamente con un braccio per trovare il piolo superiore; l'istante dopo si sarebbe ritrovato solo nello spazio, la nave una nera, indistinguibile nullità perduta per sempre tra le stelle. Vi sarebbe stata, forse, una girandola effimera di cristalli di ghiaccio roteanti, lanciati nello spazio insieme a lui e scintillanti nella luce che aveva ai polsi; cristalli che, lentamente, gli si sarebbero avvicinati con progressivo moto rotatorio, attratti dalla sua massa come microscopici pianeti attorno a un sole assurdamente piccolo e freddo.
Ecco che ricominciava a sudare, e per di più la sete cominciava a torturarlo. Decise risolutamente di non pensarci. Non c'era speranza di bere se non quando fosse uscito dalla tuta... ammesso che ne fosse uscito.
Un piolo; poi un altro; un altro ancora. Quanti erano? La mano gli scivolò ed egli si accorse di fissare, incredulo, lo scintillio che tremolava sotto la sua luce.
Ghiaccio?
Perché no? Il vapore, per bollente che potesse essere, nell'uscire veniva a contatto con il metallo la cui temperatura era prossima allo zero assoluto. Nella frazione di secondo in cui durava il getto, il metallo non aveva il tempo di riscaldarsi oltre il punto di congelamento dell'acqua. Si formava perciò uno strato di ghiaccio, che poi si dissolveva lentamente nel vuoto assoluto. Era la velocità con cui si produceva il getto di vapore a impedire che i tubi e la stessa caldaia si fondessero per il calore.
La sua mano brancolante trovò finalmente l'ultimo scalino. Mullen tornò ad accendere le luci delle maniche e fissò, con orrore crescente, il tubo di sbocco dello sfiatatoio vero e proprio, dal diametro di un centimetro o poco più. Visto così sembrava freddo, inerte; ma era l'aspetto che aveva sempre, fino a un microsecondo prima del getto...
Attorno a esso c'era il portello di chiusura esterna, che girava su di un perno montato su molle dal lato esterno e su vite da quello interno. Le molle gli permettevano di cedere al primo urto irresistibile della pressione del vapore, prima che la gigantesca forza d'inerzia della nave potesse essere vinta. Il vapore veniva fatto passare nella camera interna in modo da spezzare la forza dell'urto, lasciando immutata l'energia totale ma graduandola nel tempo, così da eliminare il pericolo che nello scafo potesse aprirsi una falla.
Mullen si puntellò contro uno scalino e fece energicamente forza contro il portello esterno, tanto che quello cedette un poco. Era durissimo, ma non occorreva che cedesse molto; solo quel tanto che bastava a ingranare la vite. Sentì che ingranava, infatti.
Spinse ancora con tutta la forza e la girò, sentendo il proprio corpo torcersi nella direzione opposta. Ecco, ora teneva, la vite assorbiva lo sforzo e lui poteva azionare con cura la piccola manopola di controllo che liberava le molle. Come si ricordava bene di quello che aveva letto nei manuali, per divertimento!
Era nel compartimento tra le due valvole, ora, uno spazio abbastanza largo da ospitare un uomo comodamente, sempre per ragioni di manutenzione. Non rischiava più di venire scaraventato lontano dalla nave. Se il getto fosse stato aperto ora, l'avrebbe semplicemente spinto contro il portello interno del compartimento... con una violenza tale da ridurlo in poltiglia. Una morte così rapida da non dargli nemmeno il tempo di accorgersene.
Lentamente, si sganciò dalla cintura il serbatoio di scorta. C'era soltanto il portello interno, ora, tra lui e la cabina di comando. Quel portello si apriva verso l'esterno, rispetto alla cabina, affinché il getto di vapore potesse al massimo chiuderlo ancora di più, anziché rischiare di spalancarlo. E combaciava in modo perfetto. Non c'era assolutamente modo di aprirlo dall'esterno.
Si sollevò al di sopra del portello, spingendo forte con la schiena incurvata contro la superficie interna del compartimento. Respirare, in quella posizione, gli era difficile. Il serbatoio d'ossigeno di scorta gli pendeva dalla cintola con una strana inclinazione. Mullen afferrò il cannello a due mani e lo raddrizzò, puntandolo contro il portello interno e bombardandolo con un getto di ossigeno, così da farlo vibrare. Ancora... ancora...
Doveva assolutamente attirare l'attenzione dei Kloro. Prima o poi, sarebbero stati costretti a indagare su quel rumore.
Mullen non avrebbe avuto modo di capire quando un fatto del genere si sarebbe verificato. In circostanze normali, prima di aprire il portello interno veniva immessa aria nel compartimento, per chiudere ermeticamente quello esterno. Ma ora il portello esterno era avvitato al perno centrale e ben discosto dal suo orlo. L'aria sarebbe stata risucchiata fuori, perdendosi nello spazio.
Mullen continuò a dirigere il getto sul portello. Chissà se i Kloro osservando il manometro dell'aria, si sarebbero accorti che segnava ben poco al di sopra dello zero, o se avrebbero preso per scontato che tutto andava bene?
- Ormai è assente da un'ora e mezzo - disse Porter.
- Lo so - mormorò Stuart.
Erano tutti in uno stato di estrema tensione, sussultavano per un nonnulla, ma ogni rancore tra loro era scomparso. Era come se tutte le loro capacità emotive fossero orientate verso lo scafo della nave.
Porter era perplesso. Aveva sempre avuto una concezione della vita molto semplice: bada a te stesso, perché nessun altro lo farà. Lo sconvolgeva vedere la sua filosofia distrutta dai fatti.
- Crede che l'abbiano preso? - domandò.
- Se così fosse, a quest'ora lo sapremmo - rispose Stuart, sbrigativo.
Porter si era accorto che gli altri poco ci tenevano a parlare con lui, e questo lo avviliva, anche se poteva capirlo: non aveva fatto molto per meritarsi il loro rispetto. Per il momento, la sua mente era sommersa da un torrente di autogiustificazioni. Anche gli altri avevano avuto paura, non solo lui. E un uomo aveva diritto, in fondo, d'avere paura. Non piace a nessuno rimetterci la pelle. Lui, se non altro, non aveva perso la testa come Aristides Polyorketes. Non si era messo a piangere, come Leblanc. Non...
Ma c'era Mullen, là fuori sullo scafo.
- Sentite, voialtri - gridò - perché l'ha fatto? - Si girarono tutti a guardarlo, senza capire, ma Porter non se ne curò. Era talmente disorientato che doveva cercare di comprendere. - Voglio sapere perché Mullen sta rischiando la vita.
- Mullen - disse Windham - È un patriota...
- Macché, non è così! - Porter era sull'orlo di una crisi isterica. - Quell'ometto non è tipo da agire per dei sentimentalismi. Ha delle ragioni concrete, e io voglio sapere quali sono, queste ragioni, perché...
Non finì la frase. Poteva forse dire che, se quelle ragioni erano valide per un piccolo ragioniere di mezz'età, tanto più valide dovevano esserlo per lui?
- Perché è un omino coraggioso - disse Polyorketes.
Porter si alzò di scatto. - Sentite - disse. - Può darsi che sia nei guai, là fuori. Qualsiasi cosa stia facendo, può darsi che da solo non sia in grado di portarla a termine. Io... mi offro volontario per andare a dargli una mano.
Tremava, mentre lo diceva, e aspettava timoroso di sentirsi frustare da una risposta sarcastica di Stuart. In realtà Stuart lo stava fissando, probabilmente per la sorpresa, ma Porter non osava affrontarne lo sguardo, per accertarsene.
- Diamogli un'altra mezz'ora - propose gentilmente Stuart.
Porter guardò in su, meravigliato. Non c'era scherno, nell'espressione di Stuart. Il comportamento era anzi quello di un amico. Tutti avevano un comportamento da amici.
- E poi...? - domandò.
- Poi tutti quelli che si saranno offerti volontari tireranno a sorte tra loro, o qualcosa del genere. L'importante è che sia una scelta democratica. Chi si offre volontario, oltre Porter?
Tutti alzarono la mano; perfino Stuart.
Ma Porter era felice. Era stato il primo a offrirsi e adesso non vedeva l'ora che quei trenta minuti passassero.
Mullen venne colto di sorpresa. Il portello si spalancò e il lungo collo da rettile e quasi acefalo di un Kloro, impossibilitato a opporre resistenza all'aria che sfuggiva dalla cabina di comando, venne risucchiato verso l'esterno.
Il cilindro dell'ossigeno scappò di mano a Mullen, e per poco non si staccò anche dalla tuta, finendo nel vuoto. Passato il primo istante di panico, Mullen lottò per riafferrarlo, lo sollevò al di sopra del violento getto d'aria; infine, dopo avere aspettato il più possibile che il primo impeto di quel tornado perdesse di intensità con il diminuire dell'aria all'interno della cabina, lo calò con forza.
Il cilindro si abbatté in pieno sul collo del Kloro, schiacciandolo. Mullen, rannicchiato al di sopra del portello, quasi completamente al riparo dalla corrente impetuosa, sollevò di nuovo il cilindro e tornò a calarlo, colpendo stavolta la testa e spappolando quegli occhi fissi fino a ridurli in poltiglia. Da quello che restava del collo, sangue verde sfuggiva ora nel semivuoto del compartimento.
Mullen era assalito da una nausea tremenda, ma non osava lasciarsene travolgere.
Distogliendo lo sguardo, indietreggiò, afferrò con una mano il portello esterno e gli impresse una spinta. Per diversi secondi, la piastra continuò a roteare come una trottola. Arrivata al termine della vite, venne automaticamente riafferrata dalle molle e si richiuse. Quel poco di atmosfera che rimaneva ne aumentò la tenuta, rendendola ermetica, per cui il lavorio delle pompe poteva ora tornare a riempire d'aria la cabina di comando.
Mullen strisciò al di sopra del corpo maciullato del Kloro ed entrò nel locale. Era deserto.
Ebbe sì e no il tempo di accorgersene che si ritrovò in ginocchio. Si rialzò, con molta difficoltà. Il passaggio dall'assenza di peso di poc'anzi a uno stato gravitazionale l'aveva colto alla sprovvista. Senza contare, poi, che si trattava di gravità kloriana, il che voleva dire per lui, con quel po' po' di tuta addosso, sostenere un peso che era una volta e mezzo quello normale. In compenso, però, le pesanti suole metalliche non aderivano più in modo così esasperante all'impiantino. All'interno dell'astronave, paratie e pavimenti erano di una lega d'alluminio ricoperta di sughero.
Girò lentamente su se stesso. Il Kloro decollato giaceva in un mucchio e soltanto qualche occasionale sussulto indicava che era stato, fino a poco prima, un organismo vivente. Mullen lo scavalcò, con disgusto, e azionò il congegno che richiudeva il portello interno della cabina.
Il locale era immerso in una deprimente atmosfera verdastra e le luci mandavano un chiarore giallognolo. L'atmosfera dei Kloro, naturalmente.
Suo malgrado, Mullen provava un vago senso di sorpresa e di ammirazione. Evidentemente i Kloro avevano un loro modo di trattare i materiali, così da renderli refrattari all'effetto ossidante del cloro. Perfino la mappa murale della Terra, di lucida carta plastificata, sembrava fresca e intatta. Mullen si avvicinò alla parete, attratto dai contorni familiari dei continenti...
In quel momento, con la coda dell'occhio, colse un movimento improvviso. Si girò, con tutta la rapidità che la tuta gli consentiva, poi mandò un grido. Il Kloro che lui aveva creduto morto si stava rialzando.
Il collo pendeva inerte, ammasso di tessuti spappolati e di umori, ma le braccia si tendevano qua e là, brancolando alla cieca, e i tentacoli all'altezza del petto vibravano rapidamente, come innumerevoli lingue di serpi.
Era cieco, naturalmente. La distruzione del collo a stelo lo aveva privato di tutti i suoi organi sensori, e inoltre era in uno stato di semiasfissia. Ma il cervello, all'interno dell'addome, era ancora indenne. Il Kloro era malconcio ma vivo.
Mullen indietreggiò. Voleva tenersi alla larga e, al tempo stesso, si sforzava goffamente e inutilmente di camminare in punta di piedi, pur sapendo che il Kloro, oltre che cieco e mutilato, era sordo. Infatti si muoveva a tentoni, finché andò a sbattere contro una parete e, dopo averne tastata la base, prese a strisciare lungo quella.
Mullen si guardò disperatamente attorno alla ricerca di un'arma, ma non la trovò. C'era la fondina del Kloro. ma lui non osava allungare una mano per impossessarsene. Perché non se n'era impadronito al primo momento? Che idiota!
La porta della cabina di comando si aprì, quasi senza rumore. Mullen si voltò, tremando come una foglia.
L'altro Kloro entrò, indenne, perfettamente sano. Si arrestò per un attimo sulla soglia, i tentacoli del petto rigidamente tesi e immobili; il collo a stelo si protese in avanti, gli occhi orribili fissarono prima Mullen poi il compagno moribondo.
Di scatto, l'extraterrestre si portò la mano al fianco.
Mullen, senza rendersene conto, si mosse altrettanto rapidamente, come per un riflesso condizionato. Afferrò il tubo del cilindro d'ossigeno di riserva che, da quando era entrato nella cabina di comando, aveva riappeso all'apposito gancio della tuta, e lo puntò, aprendo contemporaneamente la valvola del serbatoio. Non si era nemmeno curato di regolare la pressione. Lasciò che il getto uscisse incontrollato, tanto che barcollò sotto la spinta improvvisa.
Riusciva a vedere materialmente il getto di ossigeno. Era un pallido sbuffo, che si gonfiava e si diffondeva nel verde diffuso del cloro. Il getto investì il Kloro nell'attimo in cui stava per estrarre l'arma.
Mullen vide il mostro alzare le mani. Il piccolo becco in cima alla testa a pomolo si aprì come per mandare un grido d'allarme ma senza che ne uscisse alcun suono. Poi, l'essere barcollò e cadde, si contorse per qualche istante, infine giacque immobile. Mullen s'avvicinò e continuò a investirlo con il getto dell'ossigeno, come se stesse azionando un estintore. Infine, alzò il piede appesantito dallo scarpone di ferro e lo calò con forza sul collo a stelo, schiacciandolo ben bene al suolo.
Si girò allora verso il primo e lo vide disteso a terra, stecchito.
L'intero locale era saturo di ossigeno, ora, ce n'era abbastanza da annientare intere legioni di Kloro, e il cilindro era vuoto.
Mullen scavalcò il Kloro morto, uscì dalla cabina di comando e si diresse, seguendo il corridoio principale, lungo la cabina dei prigionieri.
Era subentrata la reazione nervosa, ora. Mullen stava singhiozzando, in preda a un terrore cieco, che lo faceva sragionare.
Stuart era stanco. Nonostante le mani artificiali, si ritrovava ancora una volta a pilotare un'astronave. Due incrociatori leggeri erano già partiti dalla Terra per venire a rimorchiarli. Da quasi ventiquattr'ore stava ai quadri di comando, praticamente da solo. Aveva dovuto smontare l'impianto di clorizzazione, riattivare quello dell'ossigeno, fare il punto per individuare la posizione della nave nello spazio, tentare di calcolare una rotta e trasmettere una serie di segnali, preoccupandosi che non venissero intercettati: segnali che, per fortuna, erano stati raccolti da chi di dovere.
Così, quando sentì che la porta della cabina di comando si apriva, provò un lieve senso di irritazione. Era stanco per scambiare le solite quattro chiacchiere oziose. Si voltò, e vide che stava entrando Mullen.
- Per amor di Dio, Mullen - gridò - torni subito a letto!
- Non ho più voglia di dormire - disse Mullen - anche se c'è stato un momento in cui ho creduto che non avrei più chiuso occhio in vita mia.
- Come si sente?
- Ancora tutto indolenzito. Da un lato, in modo particolare. - Fece una smorfia e, involontariamente, si guardò attorno.
- Che cosa cerca, i Kloro? - domandò Stuart. - Li abbiamo gettati nello spazio, poveracci. - Scosse la testa. - Facevano pena, tutto sommato. Mettiamoci nei loro panni: dal loro punto di vista, i mostri eravamo noi. Intendiamoci, con questo non voglio dire che avrei preferito che fossero stati loro a farle la pelle.
- Lo so, capisco benissimo.
Stuart guardò di sottecchi l'omino, che si era seduto davanti alla mappa murale della Terra. - Le devo delle scuse particolari e personalissime, Mullen - aggiunse. - Confesso che non mi ero fatto una grande opinione di lei.
- Era nel suo diritto - assicurò Mullen, con la sua voce asciutta. Il tono era indifferente.
- No, invece. Nessuno ha il diritto di disprezzare un altro, se non dopo una lunga esperienza di dure prove che gliene accordino il privilegio.
- È a questo che stava pensando?
- Sì, ed è tutto il giorno che ci penso. Non so se riuscirò a spiegarmi. Vede, sono queste mani. - Le teneva allargate davanti a sé. - Era un tormento, capisce, sapere che gli altri avevano le loro mani normali, vive. Non potevo fare a meno di odiarli, per questo. Istintivamente, facevo di tutto per sminuire le loro qualità, mettere in mostra i loro difetti, dare rilievo alle loro debolezze. Insomma, dovevo fare il possibile per dimostrare a me stesso che non valeva la pena di invidiarli.
Mullen si mosse, a disagio. - Mi creda, non è affatto tenuto a giustificarsi. Non è necessario.
- Oh, lo è. Lo è! - Stuart frugava nei propri pensieri, si sforzava di tradurli in parole. - Da anni, ormai, avevo abbandonato la speranza di trovare negli altri un minimo di dignità, di onestà. Ed ecco che arriva lei, e s'infila dentro quel condotto per i cadaveri.
- Chiariamo subito un particolare - disse Mullen - e cioè che io ho agito spinto unicamente da considerazioni pratiche ed egoistiche. Non posso accettare, perciò, che lei mi presenti a me stesso come un eroe.
- Non è mia intenzione, gliel'assicuro. So che non avrebbe alzato un dito, senza un motivo. Io mi riferisco all'effetto che la sua azione ha avuto su tutti noi. Ha trasformato una manica di buffoni e di idioti in gente per bene. E non per magia, al contrario! Erano già persone per bene fin dal primo momento, solo che avevano bisogno di un incentivo per dimostrarlo, e lei gliel'ha offerto. E io... sono anch'io uno di loro. È merito suo, lei mi è stato di esempio, capisce? Un esempio che mi basterà per tutta la vita, probabilmente.
Mullen volse la faccia altrove, impacciato. Si lisciava le maniche, che non erano per niente gualcite. Poi, posò il dito sulla mappa.
- Sa - disse - io sono nato a Richmond, nella Virginia. Qui, ecco. Sarà il primo posto dove andrò. E lei di dov'è?
- Di Toronto - disse Stuart.
- Toronto è... qui. Non sono molto distanti, vero, viste sulla mappa?
- Posso farle una domanda? - disse Stuart.
- Sentiamo.
- Perché, esattamente, si è avventurato là fuori?
Mullen sporse le labbra. Seccamente, osservò: - Non teme che la mia ragione piuttosto prosaica possa rovinare l'effetto ispiratore?
- La chiami pure curiosità intellettuale, se crede. Ognuno di noi aveva i suoi motivi, tutti molto ovvi. Porter tremava al pensiero di venire internato; Leblanc voleva tornare dalla fidanzata; Polyorketes voleva accoppare dei Kloro; e Windham, secondo lui, era un patriota. Quanto a me, mi ritenevo una specie di nobile idealista, temo. Tuttavia, in nessuno di noi la motivazione era sufficientemente forte da indurci a entrare in una tuta spaziale e a calarci poi giù per quel condotto. Che cosa ha indotto proprio lei, fra tanti, a farlo?
- Perché dice "fra tanti"?
- Non se l'abbia a male ma... ha un'aria così freddina, lei, così poco emotiva.
- Le sembra? - La voce di Mullen non era cambiata di tono. Si manteneva precisa, sommessa, e tuttavia tradiva ora una certa tensione. - È tutta auto-disciplina, signor Stuart; continua, paziente auto-disciplina, perché di natura non ero affatto così. Un uomo piccolo di statura non può avere stati d'animo degni di rispetto. Che c'è di più ridicolo di un piccoletto come me che si arrabbia, eh? Sono alto un metro e cinquantadue, peso quarantasei chili e duecento grammi, se ci tiene alla precisione. Insisto sui due centimetri e sui duecento grammi.
"Posso darmi arie di dignità, io? Posso mostrarmi orgoglioso? Ergermi in tutta la mia statura, senza suscitare il riso? Dove posso trovare una donna che non mi liquidi subito con una risatina? Naturalmente, ho dovuto imparare a mascherare ogni mio sentimento.
"Lei parla di deformità! Alle sue mani nessuno baderebbe, nessuno si accorgerebbe che sono diverse dalle altre se lei stesso non si affrettasse a parlarne con tutti quelli che ha occasione di conoscere. Crede che i dieci centimetri di statura che mancano a me si possano nascondere? Che non siano la prima e, nella maggior parte dei casi, la sola cosa di me di cui gli altri si accorgano?"
Stuart era mortificato. Aveva invaso un'intimità che non avrebbe dovuto violare. - La prego di scusarmi - mormorò.
- Perché?
- Non avrei dovuto costringerla a parlare di queste cose. Avrei dovuto capirlo da me che lei... che lei...
- Che io... cosa? Avevo tentato di mettere alla prova me stesso? Di dimostrare che, pur essendo piccolo come persona, avevo un cuore da gigante?
- Io non intendevo mettere la cosa sotto una luce di scherno.
- Perché no? Sarebbe stata un'idea sciocca, senza niente a che fare con la vera ragione che mi ha spinto. Se davvero avessi avuto questo, in mente, cosa crede che avrei concluso? Pensa che adesso, sulla Terra, mi metteranno davanti alle telecamere - bene abbassate, s'intende, per inquadrarmi la faccia, a meno che non facciano salire me su una sedia - e mi appunteranno addosso delle medaglie?
- Eh, be', è proprio quello che faranno, secondo me.
- E cosa crede che me ne verrà in tasca? Tutti diranno: "Ma pensa, piccolo com'è!". E poi? Dovrò dire a tutti quelli che incontro:
"Sapete? Io sono quel tale che è stato decorato al valore il mese scorso!". Signor Stuart, quante medaglie pensa che ci vorrebbero per farmi aumentare di dieci centimetri nonché di una ventina di chili?
- Se la mette così - ammise Stuart - Sì, capisco benissimo.
Mullen parlava un tantino più in fretta, ora; un po' di fervore, sia pure ben controllato, era entrato nelle sue parole, rendendole leggermente più calde. - Ci fu un tempo in cui pensavo: "Gliela farò vedere io, chi sono!" intendendo riferirmi, con questo, al mondo intero. Avrei lasciato la Terra, sarei andato alla conquista di nuovi mondi. Sarei stato un novello Napoleone, anche più piccolo di quell'altro. E così, un bel giorno lasciai la Terra e me ne andai su Arturo. E che cos'ho fatto, su Arturo, che non avrei potuto fare anche sulla Terra? Niente. Tengo il bilancio di una società commerciale. Come vede, caro signor Stuart, ho rinunciato da un pezzo alla vanità di sollevarmi sulla punta dei piedi.
- Ma perché lo ha fatto, allora?
- Avevo ventotto anni quando lasciai la Terra e mi stabilii nel Sistema Arturiano. Non mi sono più mosso di là. Questo viaggio doveva essere la mia prima vacanza, la mia prima rimpatriata, sulla Terra, dopo tanti anni. Avevo in progetto di restare sulla Terra sei mesi. Invece i Kloro ci hanno fatto prigionieri e chissà per quanto tempo ci avrebbero tenuti internati. Ma io non potevo, capisce... proprio non potevo permettere loro di mandare a monte il mio viaggio. A costo di qualunque cosa, dovevo impedire loro di interferire nei miei programmi. Volevo tornare sulla Terra, e a spingermi ad agire non era l'amore di una donna, o la paura, o l'odio, o l'idealismo, o che so io. Era qualcosa di più forte di tutti questi sentimenti.
S'interruppe, allungò una mano come per accarezzare la mappa sulla parete.
- Signor Stuart - domandò sommessamente - ha mai sofferto la nostalgia di casa?
Titolo originale: The C-Chute
Prima edizione: Galaxy, ottobre 1951
Traduzione di Hilia Brinis