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20 luglio 1999

La ragazza dell’aspirante Vegesack si chiamava Marlene Urdis. La sera prima si erano scambiati solennemente la promessa di non fare l’amore anche quella notte. Due notti consecutive bastavano, senza contare il pomeriggio.

Secondo i patti, erano andati a letto a dormire prima delle undici, ma qualche ora dopo lei si era avvicinata un po’ troppo e così ci erano ricascati. E il piano era andato a gambe all’aria. Come se tre settimane di separazione (Marlene era stata in Sicilia con un’amica per lavoro ma anche per piacere; un mensile patinato di viaggi, arredamento e altro ancora aveva coperto parte delle spese) avessero lasciato una specie di vuoto. Un vacuum erotico che doveva essere colmato con misure retroattive. Ogni occasione perduta andava recuperata il prima possibile e nel migliore dei modi.

Perché si vive una volta sola, e certe volte nemmeno quella.

Innegabilmente fa uno strano effetto, pensò Vegesack dopo aver vuotato la seconda tazza di caffè nero alle sette e mezzo del mattino. Ed è pure piuttosto impegnativo. Se andava avanti così, probabilmente sarebbe stato costretto a mettersi in malattia. Marlene era in vacanza dai suoi studi di architettura e poteva dormire tutta la mattina; lui invece era obbligato a presentarsi alla stazione di polizia cercando di tenersi sveglio con ogni metodo a disposizione.

Vale a dire il caffè. The life-blood of tired men, come aveva detto il grande Chandler.

E un omicidio, rammentò a se stesso.

Magari anche quell’ispettore così carina. Si era fissata su quella vecchia storia del caso Maager, chissà poi perché. Be’, meno male che c’era qualcosa di cui doversi occupare, riassunse ottimisticamente mentre recuperava la bicicletta dallo sgabuzzino. Forse anche quel giorno sarebbe riuscito a stare sveglio.

Se solo non fosse caduto dalla bicicletta nel tragitto verso la stazione di polizia, cosa che di solito non succedeva.

Il commissario Vrommel non si era ancora fatto vedere, ma come ogni mattina c’erano già la signorina Glossmann e uno degli agenti, Helme.

Oltre a una bionda sulla trentina che nel corso dell’ultima settimana sembrava aver preso il sole per moltissime ore. Era seduta di fronte alla scrivania di Helme e, mentre quest’ultimo era occupato a scrivere su un blocco, si mordicchiava il labbro inferiore color rosso ciliegia.

«Bene» disse l’agente quando vide comparire Vegesack sulla soglia. «Questa è Damita Fuchsbein. È un quarto d’ora che aspetta, ma pensavo che sarebbe stato meglio se ve ne foste occupati tu o Vrommel.»

Vegesack strinse la mano alla donna e si presentò.

«Di che cosa si tratta?» chiese.

«Il morto giù in spiaggia» bisbigliò Helme rapido come il fulmine prima ancora che Damita Fuchsbein facesse in tempo a levarsi di bocca il labbro inferiore.

«Capisco» disse Vegesack.

Guardò l’ora. Solo un paio di minuti alle otto. Di rado Vrommel compariva prima delle nove. Forse oggi sarebbe arrivato un po’ prima, date le circostanze... ci sarebbe stato sicuramente un briefing con i colleghi di Wallburg. Ma perché aspettare?

Già, perché? Con un cenno della testa invitò la donna a trasferirsi davanti alla sua scrivania. Chiese se gradiva un caffè, ma lei fece segno di no. I suoi riccioli secchissimi produssero un leggero fruscio.

«Sì?» disse poi, premendo il pulsante della biro. «Cosa deve dirci?»

«Credo di sapere chi sia.»

«L’uomo della spiaggia?»

«Sì. Ne ho sentito parlare ieri sera, dicevano che non l’avete ancora identificato.»

«Esatto» disse Vegesack, pensando rapidamente se la conosceva. Gli sembrava di no, ma non ne era affatto certo. Sia la pelle che i capelli avrebbero potuto avere tutt’altro aspetto in un’altra stagione. In ogni caso, Damita Fuchsbein sembrava coltivare da molto tempo un hobby che non faceva nulla per nascondere. Il corpo. Il proprio.

«Chi è?» le chiese.

Lei si schiarì la gola e sbatté le palpebre qualche volta.

«Tim Van Rippe» disse. «Lo conosce?»

Vegesack scrisse il nome sul suo bloc-notes. Ci pensò e disse che non gli sembrava di conoscerlo.

«Abita a Klimmerstoft. Lavora da Klingmann. Come posso dire, non è che avessimo una relazione vera e propria, ma ogni tanto ci vedevamo. E avevamo deciso di andare a Wimsbaden lunedì scorso... al festival della canzone... ma lui non è arrivato. Gli ho telefonato tutta la settimana, ma non ha mai risposto.»

La sua voce tremò e Vegesack capì che, sotto la superficie patinata, stava lottando con le lacrime.

«Tim Van Rippe? Ha qualche motivo particolare per ritenere che si tratti proprio di lui? Oltre al fatto che è irreperibile?»

Damita Fuchsbein tirò un respiro profondo e si aggiustò i capelli.

«Ho parlato con altri che hanno cercato di contattarlo. Nessuno sembra averlo più visto dall’altra domenica...»

«Ha famiglia?»

«No.»

«Qualche parente prossimo, che lei sappia?»

«Un fratello ad Aarlach, a quanto mi risulta. Suo padre è morto, ma credo che la madre sia ancora viva. Ma neppure lei abita qui in città. Si è risposata a Karpatz, mi pare.»

Vegesack annotò.

«Mmm» fece. «Dovremo andare a dare un’occhiata, allora. Si sente abbastanza forte da affrontare questa cosa? Potrebbe essere piuttosto sgradevole.»

Evviva l’understatement, pensò.

«Dov’è... il cadavere?»

«Wallburg. All’istituto di medicina legale. La accompagno là, saremo di ritorno in un’ora e mezzo.»

Per un attimo Damita Fuchsbein parve esitare. Poi si ricompose e intrecciò le mani in grembo.

«Okay. Suppongo di doverlo fare.»

Era Tim Van Rippe.

Almeno stando a Damita Fuchsbein, e ovviamente non c’era nessun motivo per mettere in dubbio la sua identificazione condita di lacrime. Affiancato dal medico legale, un certo dottor Goormann, un uomo enormemente sovrappeso, e da una poliziotta, per diversi minuti Vegesack dovette consolare la donna in preda alla disperazione. Si domandò se la Fuchsbein non fosse un po’ più vicina al morto di quanto avesse lasciato intendere.

Forse, o forse no, pensò Vegesack. Il tempo l’avrebbe chiarito. Mentre erano seduti nel minuscolo ufficio di Goormann e le allungavano un fazzoletto di carta dopo l’altro, sopraggiunse il sovrintendente Kohler, uno dei due investigatori della polizia di Wallburg che erano stati «prestati» a Vrommel per dare una mano nel caso. Era un tipo sui cinquant’anni, riservato e con pochi capelli, che fece subito un’impressione positiva a Vegesack. Kohler si assunse l’incarico di cercare e contattare i parenti di Van Rippe: il fratello ad Aarlach e la madre a Karpatz, secondo le informazioni che Damita Fuchsbein aveva fornito quando ancora riusciva a parlare.

D’altra parte non c’era motivo di metterle in discussione.

Per parte sua, Vegesack si fece carico della signorina Fuchsbein. La scortò con tatto fuori da quel luogo di morte e le offrì un caffè e un bicchierino di calvados in uno dei bar della piazza, prima di risalire in auto e tornare a Lejnice.

Vegesack accompagnò Damita Fuchsbein a casa, in Goopsweg, e promise di chiamarla verso sera per sentire come stava.

Non andare a prendere il sole anche oggi, pensò pure, ma non lo disse.

Quando rientrò alla stazione di polizia erano le undici e dieci e il commissario Vrommel aveva appena aperto una piccola conferenza stampa sul macabro ritrovamento del giorno prima. Vegesack si accomodò su una sedia libera dietro una dozzina di giornalisti e ascoltò.

Sì, stavano lavorando alacremente.

Sì, c’erano ottime probabilità che si trattasse di omicidio. Era difficile morire di morte naturale in quel modo, e poi seppellirsi nella sabbia.

Sì, stavano indagando in diverse direzioni, ma non c’era una pista privilegiata. Da Wallburg avevano mandato dei rinforzi.

Sì, il commissario in persona dirigeva le indagini, naturalmente; non c’erano ancora sospettati e stavano attendendo i risultati della scientifica.

No, il morto non era stato ancora identificato.

Avrei dovuto telefonargli da Wallburg, pensò Vegesack.

Ewa Moreno si svegliò alle sette meno un quarto con il sole in faccia. Aveva abbassato l’antiquata tenda a rullo blu scuro prima di andare a dormire, è vero, ma durante la notte quella doveva essersi stancata e riarrotolata. Con molta discrezione, in effetti, dal momento che nessun colpo secco l’aveva svegliata.

Si mise a sedere sul letto e rifletté un istante. Poi tirò fuori dallo zaino un paio di calzoncini, una maglietta e le scarpe da jogging e uscì.

La spiaggia, naturalmente. Verso sud questa volta, per evitare richiami troppo invadenti a cadaveri nella sabbia e ad amanti (uomini? ragazzi? fidanzati?) abbandonati.

Era una mattina stupenda. La spiaggia era deserta e il mare uno specchio. Dopo poche centinaia di metri si domandò seriamente perché non iniziasse tutti i giorni della sua vita così. Non riusciva a trovare neppure un argomento a sfavore.

Be’, forse le ventose mattine di gennaio avevano un fascino un po’ diverso. E in centro a Maardam non c’era molto mare.

Venti minuti dopo fece dietrofront. Alle otto meno un quarto era di ritorno alla pensione Dombrowski. Fece la doccia e poi la colazione in giardino sotto gli alberi, in compagnia di due quotidiani. Entrambi riportavano la notizia del ritrovamento del cadavere, in particolare il «Westerblatt», il foglio locale. Mentre leggeva, beveva il suo caffè e masticava del pane nero casereccio con formaggio e anelli di peperone, cercò di elaborare le strategie per la giornata.

Non sarebbe stato semplice. Doveva tenersi in contatto con la polizia di Lejnice, ma con una certa discrezione. Era una situazione insolita, ma che Vrommel non fosse molto disposto a intromissioni sembrava a dir poco evidente. Si poteva magari discutere sul perché, ma non subito. Era più sicuro limitarsi a Vegesack, per il momento, e magari aspettare il pomeriggio, decise. Se non altro, per offrire a se stessa la possibilità di sbrigare qualche faccenda. In effetti anche Vegesack aveva bisogno di un po’ di calma per lavorare, anche se fino a quel momento non aveva dimostrato grandi ambizioni investigative.

Nemmeno si poteva pretenderlo, forse, pensò Moreno. Con una fidanzata appena tornata a casa e tutto il resto; però aveva promesso di informarsi se qualcuno fosse stato da Maager alla clinica. O gli avesse telefonato. Quel punto andava chiarito il prima possibile.

In quel momento squillò il cellulare.

Era Mikael Bau. Si erano parlati un quarto d’ora anche la sera prima. Non era stata certo una conversazione molto profonda, questo è vero, ma almeno avevano trovato la giusta distanza da cui comunicare, il che non era poi tanto male.

E lui non aveva neppure accennato al fatto di amarla.

Ora telefonava solo per informarla che aveva intenzione di saldare personalmente il conto di Kluivert, Kluivert & Figli; ci aveva riflettuto ed era arrivato alla conclusione che era stato ingiusto. Dopo una breve discussione Ewa acconsentì.

Terminata la conversazione, rimase seduta un momento a riflettere. Si accorse che non riusciva a trattenere un sorriso amaro. Poi tirò fuori il suo bloc-notes e annotò tre domande.

Che cos’è successo a Mikaela Lijphart?

Che cos’è successo ad Arnold Maager?

Perché mi interesso a questa faccenda, anziché godermi le vacanze come qualsiasi persona normale?

Fissò le domande e finì il caffè. Quindi aggiunse una quarta domanda.

Che cosa posso fare oggi per rispondere ad almeno una di queste domande?

In breve il Piano A fu pronto. Erano le nove e cinque. La giornata non era iniziata affatto male.

La donna che venne ad aprirle la fece subito pensare a un pesce.

Forse era qualcosa nel suo aspetto, forse era la puzza. Probabilmente una disgraziata combinazione di entrambe, dove un’impressione sensoriale rafforzava in qualche modo l’altra.

«La signora Maas?»

«Sì.»

Ewa Moreno si presentò e chiese se poteva entrare un momento a scambiare qualche parola.

No, non poteva.

Allora domandò se poteva offrirle un caffè e un bicchierino da qualche parte. Giù alla Strandterrassen, magari?

Sì, d’accordo.

Ma non alla Strandterrassen. Lì ci andavano solo i ricconi e altra gentaglia, spiegò la signora Maas, guidandola invece verso il caffè Darms, nella piazza degli autobus. Qui la gente perbene poteva sedersi a un tavolino sul marciapiede a guardare il viavai delle persone sulla piazza. E se ci si stancava della gente si potevano guardare i piccioni.

Perfetto. Che diavolo voleva, allora?

Moreno aspettò finché non ebbero sul tavolo caffè e cognac. Quindi raccontò di essere un detective privato in cerca di una ragazza di diciott’anni. E che la cosa era in relazione con la tragica fine della figlia della signora Maas, Winnie. Era successo sedici anni prima, non è vero?

«Piedipiatti privato?» disse Sigrid Maas buttando giù il cognac in un colpo solo. «Se ne vada all’inferno!»

E poi io sarei quella stronza? pensò Ewa Moreno. Ne ho di cose da imparare.

«Le farò una proposta semplice» spiegò mettendo una mano intorno al proprio bicchiere di cognac, come a proteggerlo. «Se risponderà sinceramente alle mie domande senza fare scenate, le darò cinquanta gulden.»

Sigrid Maas la guardò in cagnesco e strinse la bocca in una linea sottile. Non rispose, ma era evidente che stava valutando l’offerta.

«Può prendersi anche il mio, di cognac» aggiunse Moreno togliendo la mano.

«Se cerchi di fregarmi ti ammazzo» disse Sigrid Maas.

«Non cercherò di fregarti» disse Moreno, e controllò di avere davvero cinquanta gulden in contanti nel portafogli. «Come potrei?»

Sigrid Maas non rispose. Accese una sigaretta e spostò il bicchiere di cognac un po’ più a portata di mano.

«Prego, allora.»

«Mikaela Lijphart» disse Moreno. «È la figlia di Arnold Maager, quello che ha ucciso tua figlia. Ha diciott’anni, e ne aveva due all’epoca dell’omicidio. La mia prima domanda è: è venuta a farti visita di recente?»

Sigrid Maas tirò una boccata di fumo e annusò il cognac.

«È venuta» disse. «L’altra domenica, mi pare. Sa il cazzo perché è venuta, e sa il cazzo perché l’ho fatta entrare... la figlia di quel porco maledetto che ha distrutto la mia vita. Siamo sempre troppo buoni, ecco perché.»

Per un attimo Moreno sospettò che la donna seduta di fronte a lei stesse mentendo. Per compiacerla e per ottenere il denaro, magari. Ma era facile verificare.

«Che aspetto aveva?»

Sigrid Maas la guardò in tralice per un secondo. Poi si appoggiò allo schienale e si lanciò in una descrizione piuttosto vivida di Mikaela Lijphart, e Moreno capì che doveva trattarsi della ragazza. Nessun dubbio. Mikaela Lijphart aveva veramente fatto visita a Sigrid Maas quando era arrivata con l’autobus dall’ostello la domenica mattina. Un centro perfetto e inatteso.

E d’improvviso avvertì quel lieve fremito nervoso, quella rapida fitta adrenalinica, forse il motivo principale per cui era entrata nella polizia giudiziaria. Se doveva essere onesta.

O quanto meno che la aiutava ad andare avanti. Una tessera del puzzle si sistemava al suo posto. Un’intuizione trovava conferma e certe supposizioni apparentemente insensate all’improvviso avevano un senso. Allora provava una scossa di vitalità che aveva perfino qualcosa di sensuale.

Non ne aveva mai parlato con nessuno, nemmeno con Münster. Forse perché aveva paura che non la prendesse sul serio – o che la prendesse in giro –, ma anche perché non era necessario. Non aveva bisogno di discutere con qualcuno di quell’emozione così speciale, né di esprimerla a parole. Era più che sufficiente che ci fosse. Fine a se stessa, aveva pensato in altre occasioni.

E ora, seduta al tavolo di un caffè in compagnia di quella donna distrutta e alcolizzata, aveva di nuovo avvertito la stessa vibrante tensione. Mikaela Lijphart era stata da lei. Quella famosa domenica. Proprio come aveva immaginato.

Proprio come lei stessa avrebbe fatto se fosse stata nei panni di Mikaela Lijphart: avrebbe cercato la madre della povera ragazza che suo padre aveva ammazzato. Avrebbe cercato quella donna per... già, perché?

Difficile dirlo. Certi gesti erano così ovvi che non serviva indagarne le ragioni; istintivi, eppure adeguati. Proprio come quella sensazione bruciante.

«Perché sta cercando quella mocciosa?» chiese Sigrid Maas interrompendo le sue riflessioni.

«È scomparsa» ripeté Moreno.

«Scomparsa?»

«Sì. Nessuno l’ha più vista da quella domenica in cui venne a trovarla. Nove giorni fa.»

«Ah, ecco. Sarà scappata con un ragazzo, allora. Fanno così, a quell’età.»

Bevve un sorso di caffè e poi vuotò il bicchiere di cognac nella tazza. Annusò la mistura con aria da intenditore. Moreno non dubitò un istante che Sigrid Maas avesse avuto l’abitudine di scappare con gli uomini quando era una ragazzina, ma non credeva che Mikaela Lijphart fosse il tipo.

«Di che cosa avete parlato?» le chiese.

«Poco o niente. Lei voleva parlare di suo padre, quel maledettissimo bastardo, ma io non ne avevo nessuna voglia. Perché dovrei essere costretta a ricordare quel pezzo di merda che ha fatto fuori mia figlia? Eh? Me lo spiega?»

Ewa Moreno non sapeva spiegarlo.

«È a conoscenza del fatto che Arnold Maager vive all’istituto Sidonis?» domandò invece.

Sigrid Maas sbuffò.

«Accidenti se lo so. Quello stronzo può stare dove diavolo gli pare, purché io possa evitare di pensare a lui. O di sentirne parlare.»

«Perciò avete parlato d’altro?» tentò Moreno. «Lei e Mikaela Lijphart, voglio dire.»

Sigrid Maas alzò le spalle.

«Non mi ricordo. Non abbiamo parlato granché. Lo sa Dio se non era anche una signorina piuttosto sfacciata, fra l’altro.»

«Sfacciata? In che senso?»

«Sosteneva che forse non era stato lui.»

«Non era stato lui? Che cosa intende dire?»

«Sì, si è messa a blaterare che lei poteva essere saltata giù dal viadotto per conto suo e un sacco di altre stronzate. La mia Winnie? Eh? Io ovviamente sono andata su tutte le furie e le ho detto di chiudere il becco.»

«Ha spiegato perché?»

«Cosa?»

«Avrà pur avuto un motivo per sostenere che suo padre potesse essere innocente.»

Sigrid Maas schiacciò il mozzicone della sigaretta e cominciò subito a frugare nel pacchetto alla ricerca di un’altra.

«E io che cavolo ne so. Tutte scemenze, comunque, anche se lei era stata al manicomio e gli aveva parlato. Lui non avrà certo avuto il coraggio di ammettere le sue responsabilità di fronte alla figlia, quel vigliacco schifoso! Chiaro come il sole che è stato lui. Farsela con una ragazzina! Una sedicenne! La mia Winnie! Riesce a immaginarsi che razza di bastardo è?»

Moreno rifletté.

«Che cosa fece poi?»

«Eh?»

«Sa dove andò Mikaela Lijphart dopo aver parlato con lei?»

Sigrid Maas accese la sigaretta, con l’aria di pensarci su.

«Non lo so» disse infine.

Moreno restò seduta in silenzio, in attesa.

«Voleva parlare con qualcun altro, credo» riprese Sigrid Maas controvoglia. «Amici di Winnie, chissà poi perché.»

Bevve un lungo sorso dalla tazza tenendo gli occhi chiusi mentre il liquido le scivolava in gola.

«Quali? Lei le ha fornito qualche nome?»

Sigrid Maas fumava cercando di mantenere un’aria noncurante. Come se non avesse voglia di dire altro.

«Non mi sembra che si stia guadagnando quei cinquanta gulden» disse Moreno.

«Un paio» disse Sigrid Maas. «Un paio di nomi, mi pare di ricordare... era così insistente, non la smetteva più di parlare. Non riuscivo a liberarmi di lei. Così le ho detto di andare da Vera Sauger e di lasciarmi in pace.»

«Vera Sauger?»

«Gran brava ragazza. Era l’amica del cuore di Winnie fin dalle elementari. Ha continuato a farsi sentire, anche quando tutti gli altri ti avevano piantato in asso e guardavano il culo di Dio quando ti incontravano in città.»

Il culo di Dio? pensò Moreno. Questa piacerebbe a Reinhart.

«Perciò ha suggerito a Mikaela Lijphart di andare a trovare Vera Sauger?»

Sigrid Maas annuì e vuotò la sua tazza. Fece una piccola smorfia.

«Sa se ci è andata?»

«E come cavolo faccio a saperlo? Le ho solo dato il numero di telefono. Su, cacci quel maledetto cinquantone adesso, ho cose più importanti da fare che stare qui a farmi tormentare.»

Moreno si rese conto che anche lei aveva da fare. Le allungò la banconota e ringraziò dell’aiuto. Sigrid Maas prese il denaro e se ne andò senza dire una parola.

Vera Sauger? pensò Ewa Moreno. Dove l’ho già sentita?