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13 luglio 1999

Sigrid Lijphart ottenne una stanza al Kongershuus grazie a una disdetta. Qualcuno cancellò una prenotazione per telefono mentre la donna era ancora alla reception senza sapere cosa fare. Era alta stagione, e trovare una stanza libera nella zona di Lejnice era pressoché impossibile. In un momento di debolezza aveva pensato di rivolgersi a qualche conoscente – qualcuno che aveva conosciuto nella sua vita precedente, sedici anni prima e oltre –, ma scacciò con fastidio quell’idea.

In effetti avrebbe potuto chiedere aiuto a molti.

E tutti l’avrebbero accolta volentieri. Per esprimerle la loro vicinanza e, se non altro, ottenere qualche informazione.

Ma quello che è stato è stato. Sigrid Lijphart aveva troncato ogni rapporto con quelle persone senza alcuna esitazione, e non aveva mai avuto la sensazione che le mancassero. L’idea di contattare qualcuno era stato solo un capriccio passeggero. Mai avrebbe pensato di sfruttare i contatti di allora, né in circostanze normali né tanto meno ora. Sarebbe stato come... come sentire la puzza di qualcosa che fosse rimasto a marcire chissà dove per sedici anni. Al diavolo.

Piuttosto avrei dormito in spiaggia, pensò entrando nell’ascensore. Meno male che ho trovato una camera.

La stanza era al quinto piano. Dal balcone si godeva un panorama imponente a ovest e sud-ovest, sulle dune e sul lungo arco che la costa disegnava dolcemente verso sud, fino al faro di Punta Gordon.

Costava ben duecentoquaranta gulden a notte, ma poiché non aveva intenzione di fermarsi oltre il giorno successivo, andava bene così.

Telefonò a Vrommel e gli comunicò dove poteva rintracciarla. Poi fece una doccia. Ordinò un thermos di caffè dalla reception e si sedette sul balcone.

Erano le due. Il sole andava e veniva. Le nuvole, per l’esattezza, ma presto cominciò a fare così caldo che avrebbe potuto starsene nuda. A parte elicotteri e gabbiani, non correva il rischio di sguardi indiscreti. Ciò nonostante preferì tenere slip e reggiseno.

Cappello di paglia a tesa larga e occhiali da sole. Come se temesse comunque gli sguardi indiscreti di qualcuno.

E adesso? pensò. Cosa devo fare adesso?

E il panico arrivò strisciando, come la febbre di notte.

Colpa?

Perché mi sento in colpa? si chiese.

Inquietudine, terrore. Panico. D’accordo. Ma perché mi sento responsabile?

In fondo aveva fatto solo ciò che doveva fare. Allora come adesso.

I figli devono conoscere la verità sui genitori. Una parte di verità, almeno. Ne hanno il diritto, un diritto incontestabile.

Prima o poi sarebbe accaduto. E la decisione di rivelare a Mikaela l’identità di suo padre in occasione del diciottesimo compleanno era stata presa da tempo.

Pensò a Helmut e alla discussione della sera prima.

A Mikaela e alla sua reazione. Del resto era quello che si aspettava.

O no? Forse aveva creduto che la figlia avrebbe seguito il suo consiglio? Che avrebbe abbandonato la cosa, lasciando tutto com’era, intatto, come qualcosa di muto, dimenticato? Pensava che Mikaela non avrebbe cercato di scoprire la verità?

Era così? Pensava forse che sua figlia non sarebbe andata a cercarlo?

Naturalmente no. Mikaela era Mikaela, era la figlia di sua madre. E aveva agito esattamente come lei aveva previsto. Come avrebbe fatto lei stessa.

Sua figlia l’aveva accusata?

Mikaela aveva accusato la madre per non averle detto prima la verità? Oppure perché lo aveva fatto adesso?

No, in entrambi i casi.

Forse perché non le aveva raccontato tutto. Ma quando Mikaela avrebbe scoperto ogni cosa, avrebbe capito. Senza dubbio. Anche Arnold doveva avere una parte in tutto questo. Doveva offrirgli la possibilità di raccontare la sua versione.

E le critiche di Helmut, allora?

Niente di serio. Come al solito.

E allora perché quel senso di colpa così soffocante?

Aveva comprato un pacchetto di sigarette, per le emergenze. Entrò in camera a cercarle nella borsa. Tornò sul balcone, ne accese una e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.

Il primo tiro le diede una leggera vertigine.

Arnold? pensò.

Forse sono in debito con lui?

Ridicolo. Tirò un’altra boccata di fumo.

Cominciò a pensare ad Arnold.

Non una telefonata.

Non una lettera, non una riga, non una parola.

Da parte di entrambi.

Improvvisamente si rese conto che, se fosse morto, forse lei nemmeno l’avrebbe saputo. Oppure l’istituto Sidonis era tenuto a informarla? Aveva sottoscritto un accordo di questo tipo? Avevano il suo nome e indirizzo? Non se lo ricordava.

E se fosse stato trasferito? Forse Mikaela non era riuscita a trovarlo.

Ma ora sapeva che Arnold era ancora là. Aveva telefonato il giorno precedente per verificare. Certo, Mikaela era stata all’istituto, e lui era lì. Questi erano i fatti.

Per tutti quegli anni era rimasto chiuso nel suo silenzioso inferno personale. In attesa. Forse l’aveva aspettata? Aveva aspettato che Mikaela andasse a trovarlo? O magari proprio lei, la moglie che aveva perduto?

No, probabilmente no. Probabilmente Arnold aveva cancellato ogni ricordo. Non era sano di mente quando Sigrid aveva preso con sé la figlia e l’aveva lasciato. Per quanto ne sapesse, l’ipotesi di chiuderlo in carcere non era mai stata presa in considerazione.

Pazzo. Totalmente obnubilato. Si era perfino fatto la pipì addosso durante l’udienza. Ricordava sempre quel dettaglio con impietosa chiarezza... lui che, seduto nell’aula del tribunale, l’aveva lasciata gocciolare, impassibile... No, sedici anni prima Arnold aveva davvero superato il punto di non ritorno.

Aveva perso ogni direzione. Nient’altro che oblio, e paesaggi interiori sempre più desolati.

Spense il mozzicone. Troppe parole, pensò. Troppe parole mi vorticano dentro. Non riesco a pensare con chiarezza.

Arnold? Mikaela?

Ma sotto tutte quelle parole c’era solo il panico, lo sapeva, e d’un tratto rimpianse di non aver chiesto a Helmut di accompagnarla.

Helmut lo scoglio, Helmut la roccia.

Lui si era offerto, aveva perfino insistito, ma Sigrid gli aveva tenuto testa.

Quella faccenda non lo riguardava. Era una questione fra Mikaela e suo padre. E forse anche lei.

Una questione fra Mikaela e suo padre? pensò. Ma cosa sto dicendo?

E cosa è successo?

Dopo aver fumato un’altra metà sigaretta ed essersi accorta che era riuscita a inzupparla di lacrime, entrò in camera a telefonare.

Non era in casa, ma si ricordò il numero del cellulare e riuscì a trovarlo.

Gli spiegò che aveva parlato con la polizia e che sicuramente avrebbero risolto tutto prima di sera.

Ma per sicurezza aveva preso una stanza in albergo per la notte. Inoltre era troppo stanca per guidare di nuovo fino a casa quel giorno stesso.

Helmut non aveva molto da commentare. Chiusero la conversazione. Lei tornò sul balcone a sedersi e pregò Dio per la prima volta in quindici anni.

Dubitava che l’avrebbe ascoltata.