«La vita è sbagliata. Ma quando si apre una porta, dobbiamo andare avanti. Non è nient’altro che un dovere.»
Queste erano state le sue parole e sapevo che doveva averle lette o sentite. Succedeva spesso, con Ewa. Coglieva al volo frasi e perle di saggezza da ogni possibile fonte: film, giornali, dibattiti alla televisione; poi le conservava per settimane o per mesi, per riportarle in seguito come farina del suo sacco in situazioni e contesti dove le parole, in qualche modo, sembravano avere un peso particolare.
Come in quel mattino d’estate.
Sbagliata?
A posteriori so che molto di quanto disse in quel periodo veniva da Mauritz Winckler. Forse lo intuivo già allora, ma il fatto è che non me ne importava poi molto. Non reagivo: lei era il mio uccellino ferito, io il suo uomo e benefattore, era così che funzionava fra noi… Io ero il terreno solido. Ewa la cerva che si era smarrita nella palude. Cambiava idea di continuo, umori e stati d’animo mutavano da un giorno all’altro, a volte da un’ora all’altra. Ma io l’ascoltavo sempre e non vacillavo mai; ero sempre lì, saldo come uno scoglio su cui lei poteva sempre arrampicarsi ogni volta che rischiava di sprofondare.
La sua roccia. Il punto fermo.
L’adagio adesso era stato superato.
Ripensavo a queste cose mentre camminavo per A. in quella calda giornata di maggio. L’indirizzo era in Greiijpstraat; avrei potuto prendere il tram, ma qualcosa mi aveva trattenuto. Forse il fattore tempo; avevo bisogno di tempo, avevo bisogno di una lunga passeggiata prima di essere pronto a trovarmi di nuovo faccia a faccia con lei. Forse avevo anche bisogno di una piccola sosta in un caffè lungo il percorso. Era una giornata calda. Un’altra.
Haarmann chiese se volessi conoscere i dettagli o se mi accontentavo di nome e indirizzo.
«Nome?» replicai, e lui mi rispose che adesso si chiamava Edita Sobranska.
«Edita Sobranska?»
«Sì, esatto.»
Dissi che potevo occuparmi di tutto il resto da solo e che non ero interessato a sapere come avesse fatto a rintracciarla. Lui annuì e forse c’era un velo di perplessità nel suo sguardo, ma io rimasi impassibile. Mi tese un biglietto con nome, indirizzo e numero di telefono. Lo infilai nel portafogli e gli diedi quanto mi aveva chiesto. Ottocento gulden senza ricevuta.
«Ti riferisci alla tua vita o a quella di chi?» ricordo che replicai quella volta.
«Alla nostra» rispose lei subito e in modo sorprendente. «Alla nostra vita insieme.»
Di solito lei non proseguiva con le sue argomentazioni dopo che io avevo espresso un’obiezione.
«La nostra vita?»
«Sì, la nostra. Non ci diamo più forza a vicenda. Non cresciamo, ci divoriamo soltanto e cadiamo di continuo su noi stessi. Su noi stessi. Riducendoci e riducendoci, tu non lo senti? Devi sentirlo, non c’è niente di più chiaro in questo momento. Se continuiamo così, un bel giorno spariremo.»
«Sono solo parole, Ewa» dissi. «Parole senza senso, devi rendertene conto. Non significano nulla.»
«Significano tutto» disse lei.
Tutto.
Chi decide quali parole abbiano un senso e quali no?
Camminai a lungo in Prinzengracht. Nella pigra acqua scura, anatre e oche girovagavano flemmatiche. Fra Keyserstraat e Valdemarlaan gli ippocastani erano in fiore; gli enormi rami bianchi e verdi sembravano protesi al tempo stesso verso l’alto e verso il basso. A cercare il sole come l’acqua; ricordo che riflettei un momento su questa ambivalenza, e sul fatto che non riuscissi a chiarire se si trattasse di un sia/sia o di un o/o. Col senno di poi, mi rendo conto che era una riflessione del tutto sterile, ma ricordo l’immagine: tre anni dopo riesco ancora a vedermi mentre cammino sotto gli alberi in Prinzengracht in quella giornata di metà maggio. Camminare e riflettere sul soddisfacimento dei fabbisogni di quegli alberi imponenti.
Calore e acqua. Calore o acqua.
Giunto in Kreuger Plein, mi fermai. Esitai per qualche secondo nella scelta del caffè, e infine optai per l’Oldner Maas. Rimasi seduto un’ora a uno dei tavolini sul marciapiede, ma senza bere nient’altro che caffè e un bicchiere di spremuta con dei cubetti di ghiaccio.
Ero in preda a un forte senso di irresolutezza, forse collegato agli ippocastani. Ogni tanto prendevo il biglietto dal portafogli e lo fissavo.
Edita Sobranska. Bergenerstraat 174.
Cercai di capire da dove avesse preso quel nome; suonava polacco, ma non sapevo di alcun collegamento slavo nella vita di Ewa. Allora perché era andata a pescare proprio un nome del genere?
Magari non è lei, pensai. Forse è un’altra donna, e Haarmann ha preso un granchio. Non era quella l’ipotesi più verosimile, a ben vedere?
In quel caso, se la donna di Bergenerstraat non fosse stata mia moglie svanita nel nulla, allora… avrei lasciato perdere. Avrei detto basta; sono certissimo di essere uscito dall’Oldner Maas con quel proposito. Che – qualsiasi cosa fosse successa – sarebbe finito tutto; era l’ultimo giorno, quella storia era andata avanti fin troppo… Me ne sarei dovuto rendere conto prima, ma meglio tardi che mai.
Un quarto d’ora dopo ero arrivato in Bergenerstraat. Era una via lunga e non molto larga che partiva da Bergener Plein e correva in direzione nord-est verso il V-parken e gli impianti sportivi. Palazzine anonime di quattro o cinque piani in mattoni scuri su entrambi i lati. Portoni verniciati di nero e finestre molto ravvicinate. Un negozio ogni tanto. Un caffè ogni tre incroci, grossomodo.
Mi fermai al numero 174. Mi guardai a destra e a sinistra prima di avvicinarmi per leggere i nomi degli inquilini. Terzo piano: E. Sobranska, M. Winck. Provai a spingere il portone. Chiuso. Suonai il citofono. Non rispose nessuno, ma si udì uno scatto nella serratura. Entrai e salii la scala stretta e piuttosto ripida.
Bussai, ma nessuno venne ad aprire, così provai un’altra volta, un po’ più forte. Sentii una radio che veniva spenta all’interno dell’appartamento e un rumore di passi che si avvicinavano. Una chiave girò nella toppa due volte, la porta si aprì e mi trovai faccia a faccia con…
Mi piace ricordare che mi occorse un secondo prima di capire che era lei, ma non ne sono certo. Era vestita in maniera molto semplice, jeans neri e una lunga T-shirt con stampa batik, e il suo viso mi era così noto da costringermi quasi a difendermi; credo che fu proprio questo forte senso di identità a indurmi paradossalmente a dubitare.
Mi piace anche ricordare che rimanemmo immobili un istante a guardarci e basta, prima di parlare, ma nemmeno di questo sono più così sicuro. Forse lei prese la parola senza indugi, in ogni caso fu lei a rompere il silenzio.
«Ah, vedo che alla fine sei arrivato» disse.
Arretrò di un passo e io entrai nel piccolo ingresso.
«Sì» dissi. «Sono arrivato.»
Mi fece segno di accomodarmi. Mi precedette e andò a sedersi in una delle tre poltrone disposte intorno a un basso tavolino di vimini e cristallo. Esitai di nuovo, ma poi lei annuì, e allora presi posto nella poltrona di fronte.
«Vedo che alla fine sei arrivato» ripeté, facendo oscillare lo sguardo, come sempre quando cercava di concentrarsi su qualcosa di poco chiaro o difficile. Non risposi.
«Vuoi una tazza di tè?» mi chiese dopo un momento.
Annuii e lei uscì dal soggiorno. Chiusi gli occhi e appoggiai la testa all’indietro, contro l’alto e morbido schienale. La udii trafficare in cucina con acqua, bollitore e tazze; ero seduto perfettamente immobile, pensieri e azioni dentro di me erano senza parole e astratti, molto oltre il confine dell’intelligibile. Ma belli, indubbiamente belli; ricordo di essermene reso conto con chiarezza. Poi avvertii la presenza di qualcun altro nella stanza. Aprii gli occhi e vidi Mauritz Winckler che mi fissava, appoggiato con un gomito contro un alto cassettone.
Ricambiai il suo sguardo. Aveva gli stessi occhiali rotondi e gli stessi capelli corti e brizzolati di quattro anni prima. Anche la camicia con il collo alla coreana e i pantaloni di velluto a coste potevano benissimo essere gli stessi che indossava nelle rare occasioni in cui l’avevo incontrato, ma non ne sono certo.
Nessuno dei due disse nulla. Qualche minuto dopo Ewa tornò con il vassoio del tè. Si fermò un istante al centro della stanza; ci guardò, prima Mauritz Winckler e poi me. Quindi si concedette un sorriso, rapido e passeggero come il volo di una rondine, e mise il vassoio sul tavolo.
«Che ci fai ad A.?» mi chiese.
«Lavoro» risposi.
«A che cosa?»
«A una traduzione.»
«Rein?»
«Sì.»
«Lo sospettavo.»
Mauritz Winckler fece un colpo di tosse e venne a sedersi. Ewa cominciò a versare il tè da una grossa teiera di terracotta.
«È da tanto che vivete qui?» domandai.
«Tre anni.»
«Tre anni? Fin da…?»
«Sì» rispose Mauritz Winckler. «Fin da allora.»
Bevemmo un po’ di tè. Guardai la piccola voglia sulla guancia di Ewa e ricordai come ci fossimo contati nei e altri segni sulla pelle a vicenda, in un hotel di Nizza, all’inizio della nostra relazione.
«Per quanto ti fermi?» chiese lei.
Mi strinsi nelle spalle.
«Non molto, credo. Il mio lavoro è quasi terminato.»
«Capisco» disse Mauritz Winckler, e mi domandai che cosa capisse.
Restammo di nuovo in silenzio, evitando di guardarci. Mauritz Winckler mangiò una tortina morbida.
«Che cosa è successo a Graues?» domandai alla fine.
Avevo creduto che si sarebbero almeno scambiati un’occhiata, ma non fu così. Invece sollevarono entrambi lo sguardo e mi fissarono con una…
… con una serietà che al momento giudicai al limite dell’insolenza; ero venuto come un ospite pieno di buone intenzioni. Vuotai rapidamente la mia tazza di tè, la posai sul piattino con un colpo secco e raddrizzai la schiena.
«Cosa è successo a Graues?» ripetei, a voce un po’ più alta.
Mauritz Winckler scosse lentamente la testa. Ewa si alzò.
«Credo che sia meglio se te ne vai, adesso» disse.
Rimasi seduto ancora un attimo a riflettere, poi anch’io mi alzai. Ewa mi precedette nell’ingresso e, quando aveva già la mano sulla maniglia della porta, le feci la stessa domanda per la terza volta, ora a bassa voce, in modo che Mauritz Winckler non sentisse.
«Che cosa è successo a Graues?»
Lei aprì la porta.
«Non ho intenzione di dirtelo, David» rispose.
«Come, scusa?»
Mi guardò con la stessa serietà quasi soffocante.
«Tu vuoi sapere che cosa è successo a Graues. Eppure dovresti capire che non ne hai diritto.»
«Non ne ho diritto?»
«Non hai diritto di sapere che cosa è successo.»
Non replicai.
«Forse è questa la cosa più avvilente» aggiunse, senza staccarmi gli occhi di dosso. «Che tu non lo capisca.»
Due pensieri discordanti mi si affacciarono alla mente; li soppesai, poi mi arresi.
«Addio, Ewa.»
Me ne andai senza neppure guardarla.
Dieci minuti dopo ero in Windemeerstraat. Camminando sull’ampio marciapiede presi la direzione sud-ovest, verso il centro, con il sole ormai basso ma ancora caldo sul volto. C’era molto movimento, ogni tanto chiudevo gli occhi qualche secondo e urtavo la spalla di qualcuno nella calca – ricordo che mi dava una curiosa sensazione di appartenenza –, ma a parte questo mi comportavo come chiunque altro nella folla.
Lasciai passare tre tram, prima di cogliere l’attimo. Fu molto semplice; due passi verso il centro della carreggiata, e poi all’improvviso tutto finì.
Tutto.