Per il terzo giorno consecutivo mi sveglio presto. Mi piazzo in vestaglia sul balcone e osservo i due robusti figli del signor Kazantsakis prendere il largo sull’acqua perfettamente immobile.
È quasi un rituale, come tanti altri lavori da queste parti. Di solito rimangono fuori tre o quattro ore, tornano entro la mattinata e mostrano, fra lamenti e scrollate di spalle, il misero pescato del giorno ai turisti. In genere, una dozzina di piccole triglie rossastre, che poi – se si arriva in tempo e si ha fortuna – si possono mangiare a pranzo al ristorante. Arrostite così come sono, con tanto di squame e di pinne, e senza sale né aromi né grande fantasia.
Thalatta, penso, e torno nel buio della camera. Tiro fuori quaderno e penne, sigarette e bottiglia d’acqua. Esco di nuovo sul balcone. Mi sistemo bene sulle sedie di corda intrecciata per cominciare a scrivere. Sono solo le sei e venti. La frescura della notte c’è ancora e durerà almeno per un’altra ora. Il balcone è all’ombra, e questo è l’unico momento in cui lo si può sfruttare durante la giornata.
L’isola è bellissima. Anche per questo spero di potermi fidare di Henderson, e che sia davvero il posto giusto. Comunque sia, ho intenzione di fermarmi fino alla fine del mese e di non lasciare nulla al caso.
Anche stamattina penso un attimo a Henderson e alle sue fotografie sfocate. E al mare e alle montagne e ai boschetti di ulivi. Poi accendo una sigaretta e comincio a scrivere.
Il 3 aprile Mariam Kadhar e Otto Gerlach furono arrestati. Lo sentii al notiziario della radio; l’avevo appena accesa mentre mi preparavo il caffè nell’angusto cucinino.
Lo sapevo già, ma sentirlo dire dalla bocca dello speaker mi fece comunque sobbalzare. Come se solo in quel momento fosse diventato realtà; in un certo senso era proprio così. Fino a quel mattino nulla era trapelato – per oltre due settimane la polizia aveva lavorato nella massima segretezza; non so se fosse solo un caso, o se si fossero davvero impegnati a mantenere il riserbo più totale.
Tutto d’un tratto era diventata una storia di pubblico dominio. Un’ora dopo, mentre mi trovavo alla stazione centrale per prendere il treno per Wassingen, sembrava che tutto pulsasse della novità. Immagini dei tre – Rein, Mariam Kadhar e Otto Gerlach – campeggiavano sulle locandine e sulle prime pagine dei quotidiani, e ricordo che pensai come l’atmosfera somigliasse a quella di un film, in cui il regista aveva deciso senza preavviso di infliggere quei colpi di stiletto agli spettatori; una scena decisiva in cui tutto viene stravolto, i punti oscuri si chiariscono e parte un ritmo completamente nuovo.
Gli istanti in cui spesso decidiamo se lasciare la sala o se valga la pena di rimanere e vedere il film fino alla fine.
Quando salii in carrozza e il treno partì, avvertii quanto fosse liberatorio lasciare quella città.
Non tornavo a Wassingen da un mese. Dopo aver completato la traduzione del manoscritto di Rein, avevo passato alcune serate abbastanza fiacche alla Nieuwe Halle e al Concertgebouw, ma senza vedere Ewa. Non ero neppure riuscito a elaborare dei piani accettabili mentre, dopo i concerti, consumavo birra e sigarette seduto al Vlissingen o in altri bar. Forse mi ero gingillato un po’ col pensiero di farla cercare, ma nella luce sobria del mattino avevo scacciato quell’idea.
Gradualmente mi decisi per un nuovo tentativo a Wassingen. Se davvero mi fossi illuso che avrebbe portato a qualcosa, è difficile dirlo a posteriori. A voler essere onesti, forse non avevo mai veramente creduto che la donna notata alla fine di febbraio dal collaboratore di Maertens fosse Ewa. E forse ero arrivato addirittura a pensare che nessuno avesse visto niente, e che Maertens si fosse inventato tutto per dare l’impressione di aver ottenuto un qualche risultato. Ero convinto che la pista di Wassingen offrisse una speranza piuttosto esile, ma in mancanza d’altro dovevo accontentarmi.
Tra la fine di marzo e i primi di aprile cominciai a considerare la ricerca di Ewa come fine a se stessa. In certi momenti di lucidità intuivo che probabilmente non l’avrei mai più rivista, ma continuare a vivere senza aver fatto tutto ciò che era in mio potere per trovarla sarebbe stato quasi impossibile.
O almeno, così mi pareva allora.
Inoltre avevo tempo. Fino a metà giugno la mia sussistenza era garantita. Non avevo un lavoro e nessun incarico da svolgere. Ogni giorno era una pagina bianca.
Perciò, perché non cercare?
Al bancone del bar della stazione c’era ancora il culturista con i capelli cortissimi, che mi servì un whisky con lo stesso incrollabile fascino da paese dell’Est. Vuotai il bicchiere in un sorso e uscii sulla piazza. Tirava vento, più o meno come l’altra volta, ma faceva molto più caldo. Fuori della gelateria pseudoitaliana avevano perfino sistemato delle sedie di plastica bianca e qualche tavolino, benché probabilmente nessuno si sarebbe fermato prima di un mese.
La piazza era quasi deserta; era il primo pomeriggio, e anche se in un sobborgo come quello dovevano esserci schiere di disoccupati e di persone in congedo prolungato per malattia, capii che i negozi si sarebbero riempiti solo più tardi.
Attraversai la breve arcata e mi trovai davanti all’edificio numero 36. La casa di Ewa.
La casa di Ewa? Accesi una sigaretta e mi fermai un momento a studiarla. Sedici piani. La facciata marrone grigiastro, macchiata di umidità. Una serie infinita di finestre fredde e minuscoli balconi incassati.
Tirai un sospiro e due boccate di fumo. Una sensazione di disperata insensatezza – forse unita a un pizzico di paradossalità – cominciò a invadermi, ma poi il sole sbucò attraverso una nuvola e mi abbagliò, tanto che per un attimo fui sul punto di perdere l’equilibrio. Chiusi gli occhi e mi ripresi. Cominciai a ripensare al concerto per violino di Beethoven e al colpo di tosse, e alla catena di eventi che mi aveva portato davanti a quel palazzo in un sobborgo di A., e mi resi subito conto che era proprio da quel tipo di pensieri che dovevo cercare di tenermi lontano, se volevo arrivare da qualche parte.
Così spensi la sigaretta ed entrai nel portone. Mi piazzai davanti al pannello che riportava i nomi degli inquilini e li trascrissi nel mio bloc-notes. Ci volle qualche minuto, e due donne – entrambe straniere, entrambe con mocciosi inzaccherati al seguito – mi lanciarono occhiate sospettose passandomi davanti.
Ritornai nella piazza e mi diressi al caffè dov’ero stato la volta precedente. Mostrai un paio di fotografie alla ragazza alla cassa: si dimostrò molto disponibile e le studiò a lungo e con cura, ma alla fine scosse la testa dispiaciuta.
La ringraziai e presi un caffè. Nelle ore che seguirono, mostrai le foto a una ventina di persone – sia nella zona sia fuori della casa di Ewa – ma il risultato fu scoraggiante, come mi sarei dovuto aspettare.
Zero assoluto.
Avevo deciso di dedicare in tutto dieci giorni a Wassingen, né più né meno, e per non esaurire tutte le possibilità il primo giorno, mi accontentai e presi il treno delle 16.28 per A.
Alla stazione centrale comprai tre quotidiani, e poi andai a sedermi a un tavolo del Planner’s per cenare e leggere dell’omicidio di Germund Rein.
La notizia era senza dubbio una bomba, ed era chiaro che nessuno sapeva di preciso come gestirla. La polizia aveva emesso un breve comunicato, ma a quanto pareva il contenuto era assai scarso, e altre dichiarazioni non erano state fatte. Ciò che si sapeva nell’ambiente giornalistico era che Mariam Kadhar e Otto Gerlach erano stati arrestati con l’accusa di aver provocato la morte di Germund Rein. Tutto qui.
Il resto erano solo supposizioni.
Sulla storia d’amore. Sul fatale triangolo, come qualcuno lo definiva. Su ciò che doveva essere accaduto al Giardino dei ciliegi in quella famosa giornata di novembre. Sulla lettera d’addio.
Su che cosa avesse messo la polizia sulla pista giusta.
Quest’ultimo argomento era un campo sconfinato. La polizia non si era lasciata sfuggire nemmeno un accenno, e le teorie che riempivano i giornali che stavo scorrendo avevano ben pochi punti di contatto con la realtà.
Si dava per scontato che M e G avessero avuto una relazione, e che quello fosse l’elemento cruciale. C’erano numerose foto dei due, ma non ne trovai nemmeno una in cui comparissero insieme. Proprio questo dettaglio mi colpì per la sua stranezza, e mi resi conto che M e G dovevano aver fatto di tutto per proteggere la loro relazione dagli occhi del mondo.
Ed era evidente che ci fossero riusciti molto bene. Nessuno di coloro che parlarono del caso fece la benché minima allusione che fossero girate voci in proposito, né prima né dopo la morte di Rein.
Era una bomba, e nessuno aveva avvertito l’odore della miccia che bruciava.
Mentre bevevo il mio caffè, studiai Otto Gerlach con la massima attenzione. Rispetto al ricordo che avevo di lui, devo ammettere che le foto sui giornali gli rendevano maggior giustizia. Capii che l’editore, così come Mariam Kadhar, era molto più giovane di Rein, e anche se mi era difficile accettare che una donna come Mariam avesse bisogno di un uomo del genere, trovavo ancora più difficile capire che cosa ne avesse fatto del marito. Pensai di nuovo a quelle spalle esili, e mi rividi davanti il suo viso con gli occhi scuri e le narici sottili. D’un tratto capii anche che in circostanze diverse avrei potuto innamorarmi pazzamente di lei.
In circostanze diverse. Questo tengo a sottolinearlo.
Tornando a casa dopo cena entrai nell’ufficio delle poste in Falckstraat e mi procurai entrambi gli elenchi telefonici di A., poi dedicai buona parte della serata a cercare i numeri dei settantadue inquilini del palazzo di Wassingen.
Ne trovai cinquantanove, ben più di quanti mi aspettassi. Forse era un buon segno. Se non altro la cosa mi avrebbe tenuto occupato per un po’, e date le circostanze ricordo che provai un certo senso di gratitudine.
Allora mi era difficile trovare dei salvagente, lo confesso, ed ero attento ad afferrare tutti quelli che mi venivano lanciati. Proprio quella sera Beatrice si diede alla fuga. Quando uscii sul balcone che affacciava sul giardino per portarla dentro, subito prima di andare a letto, mi accorsi che era sparita. Come avesse fatto ad allontanarsi e quali intenzioni avesse erano domande su cui mi arrovellai a lungo nei giorni successivi, ma quando, dopo nemmeno una settimana, la rividi di nuovo seduta fuori a osservare i piccioni, capii che si era solo rifugiata in una piega della realtà a cui né io né nessun altro essere umano avevamo accesso.
Forse la invidiai anche un po’. Quanto meno, so che provai per lei un profondo rispetto.