È stato Gallis Kazantsakis a farmi notare la cappella di famiglia che sorge in alto, sulla cresta della montagna a sud-est. Pare ne esistano circa trecentosessanta, piccoli santuari bianchi tinteggiati a calce sparsi sull’isola; ogni famiglia che si rispetti ne ha una, situata di preferenza il più vicino possibile al cielo, e non facilmente raggiungibile.

Mi metto in marcia prima del levar del sole e, dopo una camminata sempre più calda, in un’ora e un quarto raggiungo la mia meta. Entro e accendo una candela sul minuscolo altare, poi vado a sedermi nella stretta striscia d’ombra sul lato occidentale della cappella. Posso abbracciare con lo sguardo tutta l’isola; le scogliere a strapiombo a sud e a ovest, le coste un po’ più accessibili a est e a nord. Fuori del paese noto diverse spiaggette di sabbia protette che non ho mai visto prima; e qualche casa isolata, raggiungibile solo dal mare, poiché la strada termina all’hotel Phraxos, che sorge all’estremità orientale della spiaggia. Ho deciso di scoprire a chi appartengano quelle – e altre – case private; ce ne sono parecchie in giro per l’isola. L’ipotesi più verosimile è che proprio in uno di questi luoghi sperduti e nascosti troverò ciò per cui sono venuto qui.

Rifletto anche sul tempo. Sul concetto di tempo. Sono trascorsi più di tre anni dagli eventi di A., ma in questo paesaggio incredibile, in queste prime ore del giorno, tutt’a un tratto mi pare che il tempo si sia ridotto quasi a nulla. Il passato lontano sembra crescere e avvicinare a sé il fragile presente, che al momento è costituito solo dal mio zaino con le provviste e dal mio corpo sudato appoggiato contro la parete bianca. Il cielo, le montagne e il mare – il cui orizzonte comincia a sfumarsi nella foschia del sole – sono eterni e immutabili.

Un punto nel tempo e nello spazio, evanescente e arbitrario come il raglio dell’asino che proprio in quel momento sale dal paese, esaurendosi lungo i pendii coperti di ulivi. Tutte le presenze parallele del flusso del tempo di cui scrive Zimjonovitj; non sono sensazioni particolarmente inattese, o forse è qualcosa di totalmente diverso. Come sempre ho difficoltà con le parole, e quando l’asino successivo fa udire il suo raglio lamentoso mi sento solo stanco e sudato, e inizio a consumare ciò che mi sono portato. Tengo saggiamente da parte una delle bottiglie d’acqua per la discesa, accendo una sigaretta e tiro fuori il mio quaderno per rileggere ciò che ho buttato giù la sera prima alla luce tremolante del lume a petrolio.

E intanto il tempo continua a restringersi.

La mia più segreta speranza quando cominciai a spuntare la lista di numeri telefonici era stata quella di sentire all’improvviso la voce di Ewa dall’altra parte del filo. Era questa illusione a farmi andare avanti, e nel corso della settimana mi risposero a poco a poco cinquantasette dei cinquantanove inquilini. A trentanove chiamate risposero donne, solo a diciotto uomini; se non altro una conferma dell’idea che le donne parlano di più al telefono di noi uomini. La mia tattica era banale: chiedevo di poter parlare con Ewa, spiegando di essere un suo vecchio conoscente, e poi cercavo di interpretare dalle risposte e dalle esitazioni se potesse esserci sotto qualcosa di sospetto.

Per sistematizzare il lavoro avevo adottato una sorta di scala di giudizio: subito dopo la conversazione mettevo accanto al nome un meno se ritenevo che fosse fuori discussione, un più se poteva esserci una possibilità, e due più se la persona mi era parsa sotto pressione o in qualche modo strana.

Due delle donne con cui parlai si chiamavano Ewa, e in entrambi i casi ci furono alcune battute confuse prima che il malinteso fosse chiarito. Andò più o meno così quando un certo signor Weivers, dopo una lunga esitazione, passò il telefono alla figlia adolescente. Alla fine di tutte le telefonate, quando riguardai le mie annotazioni, risultò che avevo tracciato ben quarantadue segni meno, tredici segni più e soltanto due doppi più.

Mi rendevo conto che quel metodo aveva margini d’errore enormi, ma decisi comunque di indirizzare i miei sforzi successivi ai due doppi più – un certo Laurids Reisin e una N. Chomowska – oltre che ai tredici inquilini che ancora non ero riuscito a contattare. Il metodo – la fedeltà al sistema – è una sorta di necessità vitale in un mondo olistico, come sostiene Rimley nel suo libro sulla cosa e la percezione, e io ebbi il buonsenso di basarmi proprio su questo.

Trascrissi i quindici nomi su un’altra pagina del mio bloc-notes, e quando il lunedì successivo, all’arresto di Mariam Kadhar e Otto Gerlach, fui di nuovo a bordo del treno diretto a Wassingen, ero pieno di nuove speranze. Era il sesto giorno che mi occupavo della pista di Wassingen e, poiché avevo deciso per dieci, constatai che ero a più di metà strada. Decisi anche di trascorrere tutta la settimana nel sobborgo – ogni giorno, dal mattino alla sera – e se non avessi ottenuto risultati, almeno avrei avuto la soddisfazione di aver fatto ciò che era in mio potere, e avrei potuto dedicarmi con buona coscienza a trovare altre strade.

Come prima cosa, bussai alle porte. Nonostante l’ora, c’era gente in casa in dieci dei quindici appartamenti; la mia teoria sulla disoccupazione era corretta, senza dubbio; quando qualcuno apriva, chiedevo di poter parlare con Ewa, e quando questo qualcuno scuoteva la testa o cercava di richiudermi la porta in faccia, rispondevo infilandomi lestamente nell’ingresso e mostrando una sua foto. Spiegavo che ero un investigatore privato e che stavo cercando la donna della fotografia. Per il suo stesso bene, si capisce. C’era il rischio che il collaboratore di Maertens avesse già fatto la stessa cosa un mese e mezzo prima, ma dalle reazioni capii presto che non era così. La mia fiducia in Maertens non era mai stata così scarsa come quel giorno.

In qualche caso cercai anche di alludere – stando sul vago – che poteva esserci una qualche forma di ricompensa, ma l’esca funzionò solo con il signor Kaunis, un anziano che emanava un pessimo odore. Purtroppo però era evidente che l’uomo vedeva in quella faccenda la possibilità di raggranellare un po’ di soldi per la sua dose quotidiana di stimolanti. Sia l’appartamento sia il suo inquilino si trovavano in uno stato avanzato di decadenza; gli diedi cinque gulden e lo lasciai in preda a un grande sconforto.

Una volta terminato il giro, mi resi conto che non era cambiato nulla. Nessuno aveva reagito alla fotografia di Ewa. Nessuno sapeva chi fosse, e nessuno l’aveva vista nel palazzo o nella zona.

Ricordo che per un istante mi attraversò la mente l’immagine della verde superficie impenetrabile del lago artificiale di Lauern. Era la prima volta che succedeva da molto tempo, ma la forza con cui si presentò fu notevole.

Entrai al caffè. Bevvi due birre e spuntai i nomi nel mio elenco. Mi stava riprendendo lo sconforto, e un tempo piovigginoso arrivato da ovest non migliorava le cose. Mentre fumavo e sfogliavo avanti e indietro il mio patetico bloc-notes, avvertii un’insidiosa fragilità che cominciava a impadronirsi di me. Il bisogno di stare da solo, lontano da sguardi e parole, cresceva al medesimo ritmo, e non era certo lo stato d’animo adatto ai compiti che mi ero imposto.

Al tempo stesso sapevo di essere arrivato a un punto in cui non avevo più la forza di affrontare altre persone. Nel palazzo, poi, sicuramente iniziavano a conoscermi. Avevo contattato quasi tutti gli inquilini – anche se la maggior parte di loro aveva solo udito la mia voce al telefono – e non era improbabile supporre che cominciassero a farsi delle domande. Se Ewa abitava lì – non osavo pensare a quanto giudicassi remota tale eventualità – era verosimile che fosse venuta a sapere delle mie indagini; forse era addirittura possibile che, più ci provavo, più le prospettive di trovarla si riducevano.

Quella fu la conclusione a cui giunsi mentre ero nel caffè; presto iniziai a riflettere su quante possibilità avessi mandato in fumo con le mie goffe telefonate e bussando alle porte, così decisi che era il momento di agire con più discrezione.

L’ideale, stabilii, sarebbe stato trovare una posizione da cui poter sorvegliare indisturbato l’ingresso del palazzo e il flusso di gente che entrava e usciva, e non impiegai molto a scoprire la soluzione migliore a tale problema.

Mi serviva un’automobile. L’unico modo per avere una buona visuale sull’ingresso del palazzo era stare in un’auto parcheggiata. Sedermi su una panchina con la pioggia, e poi rimanere lì con un giornale o un libro otto ore al giorno, era impensabile.

Finii la birra e mi rivolsi alla ragazza del bar. Credo che avesse maturato un’istintiva simpatia materna per me, e quando le chiesi se sapeva dove potessi noleggiare una macchina a poco prezzo per un paio di giorni, mi rispose subito. Prese un foglietto dalla tasca del grembiule e scrisse l’indirizzo di una stazione di servizio a cinque minuti a piedi dal centro commerciale. Mi consigliò anche di dire che mi mandava Christa, così forse avrei risparmiato qualcosa.

La ringraziai e mi avviai. Mezz’ora dopo avevo pagato quattro giorni di noleggio anticipato per una Peugeot seriamente intaccata dalla ruggine; il costo non era esagerato, ma ricordo che mi domandai se corrispondesse al reale valore della vettura.

Comunque fosse, funzionava. Alle quattro di quel pomeriggio parcheggiai fuori del mio appartamento in Ferdinand Bolstraat, e il giorno successivo iniziai la sorveglianza del civico 36D, nel centro dimenticato da Dio del sobborgo di Wassingen.

Trascorsi lì tre giornate di calma piatta prima che succedesse qualcosa. Vagamente nascosto dietro un giornale, ero seduto in macchina con la radio gracchiante accesa, le sigarette e una modesta dose di whisky come unica compagnia. La posizione era senza dubbio ottimale: trovavo sempre un parcheggio a quindici o venti metri al massimo dall’ingresso del palazzo, un punto da cui avevo una visuale completa su tutti quelli che entravano e uscivano. Prendevo anche degli appunti, soprattutto per tenere vivo il gioco e allontanare i dubbi, ma fu proprio grazie a quegli appunti che notai un dettaglio che fino ad allora non avevo considerato.

La cosa si chiarì grazie a una persona che nelle mie note era indicata come M6; in poche parole, l’uomo numero 6 (avevo anche una descrizione sommaria: sulla sessantina, brutto, cappello di feltro, pantofolaio, il che era più che sufficiente a distinguerlo da tutti gli altri). Nel tardo pomeriggio di giovedì, M6 mi passò davanti ed entrò dal portone due volte di fila. A distanza di un’ora, è vero, ma senza nel frattempo essere mai uscito. Poiché c’era un solo portone, e non volevo credere che quell’anemico individuo si fosse calato dal balcone sul retro, l’evento – per qualche minuto confuso prima che arrivassi alla soluzione – mi parve un’assurdità e un mistero.

Poi capii. Doveva esserci un garage nel seminterrato.

Feci il giro del palazzo, ci misi qualche minuto a individuare la rampa, ma quando la trovai mi sentii innegabilmente un po’ fesso. E decisi che il giorno dopo mi sarei appostato da quella parte.

Se non altro, per cambiare.

Fu dunque grazie a quel cambiamento – quella piccola variazione nel parcheggio fuori dal numero 36 di Wassingen Centrum – che il filo non si spezzò.

Che nella ricerca della mia consorte scomparsa ci fu finalmente la svolta che avevo atteso fin dal mio arrivo ad A. tre mesi prima. A posteriori non è dato saperlo, ma ho la sensazione che sarebbe stato difficile andare avanti ancora per molto, se anche quella settimana non avesse dato risultati.

Erano passate da poco le cinque. La pioggia grigia e monotona era momentaneamente cessata, e io stavo fumando una sigaretta appena accesa con il finestrino abbassato. Il cancello del garage si aprì, e una Mazda blu scuro salì lentamente la stretta rampa. Nell’istante in cui mi passò davanti – ad appena un metro di distanza – il conducente si voltò nella mia direzione per controllare che l’uscita fosse libera, proprio come avevano fatto tutti gli altri nel corso della giornata. I nostri sguardi non si incrociarono, ma ebbi modo di osservare il suo volto quasi frontalmente. Era il mio pedinatore.

Non lo riconobbi subito, poi ricordai. Quando mi aveva seguito di soppiatto nel quartiere di Deijkstraa. Quando si era seduto dietro di me in biblioteca. Quando si era fermato a fissare l’acqua in Reguliergracht. Accesi l’auto, feci inversione e mi avviai nella direzione in cui era scomparso.

Con le tempie che pulsavano, non posso negarlo.

Non mi erano mai piaciuti gli inseguimenti nei film d’azione, e il mio tentativo di stare dietro alla Mazda blu in quel pomeriggio grigio a Wassingen mi dimostrò che la realtà difficilmente supera la finzione.

Dopo meno di un minuto l’avevo perso. Lo vidi dileguarsi verso l’autostrada per A., mentre io ero incastrato fra un tir e una lussuosa Mercedes, in attesa del verde. Imprecavo e tamburellavo sul volante e fumavo freneticamente, ma fu di scarso aiuto. Quando il semaforo si decise a cambiare colore, svoltai dalla stessa parte, ma la mia Peugeot non era in forma smagliante neanche quel giorno e ben presto mi resi conto che sarebbe stato tutto inutile.

Poiché in ogni caso ero nella direzione giusta, presi l’autostrada, e un’ora dopo ero seduto al Vlissingen con una sensazione di blanda euforia.

Verso mezzanotte tornai a casa. Sulle scale scoprii una lettera che doveva essermi sfuggita. La aprii appena entrato in casa; veniva dalla procura e mi intimava di presentarmi in tribunale il giorno successivo per rispondere ad alcune domande e ritirare un ordine di comparizione in veste di testimone.

L’azione giudiziaria contro Mariam Kadhar e Otto Gerlach era stata intentata il giorno prima, e il processo sarebbe iniziato nel giro di un mese.

Bevvi un altro goccio di whisky, benché avvertissi già un giramento di testa. Mi piazzai davanti alla finestra buia e osservai la gente che camminava per strada. I tram che passavano sferragliando e le facciate delle case che si ergevano indifferenti nella loro immutabilità. Ripercorsi la giornata, poi feci qualche vaga riflessione sulla densità variabile del tempo: come certe lunghe sequenze temporali ci scorrano davanti in modo del tutto inconsapevole, vuote sia di significato sia di avvenimenti, e poi all’improvviso ci ritroviamo scagliati in un nugolo di eventi accatastati l’uno sull’altro, veri e propri concentrati di senso. Forse questo accade perché certi eventi ne richiamano altri, secondo le stesse leggi che governano il magnetismo.

Intuivo che tali vuoti e grumi temporali dovessero avere una corrispondenza nel vagare sconsolato di meteore e corpi celesti nello spazio. In quelle buie navigazioni.

Simili a nebulosi pensieri.

Fu il mattino dopo che udii di nuovo Beatrice miagolare sul balcone.