Notte.
Sono seduto a scrivere e vedo sempre più chiaramente quale deplorevole e pessima commedia sia la vita. Non c’è nessuna regia. Nessuna morale. Gli attori non si attengono ai loro ruoli e la drammaturgia oscilla di qua e di là come un fragile natante nel mare in burrasca.
Una puttana ubriaca con un paio di scarpe troppo grandi.
Stasera la falce di luna è solo un’esile traccia sull’acqua. Le cicale friniscono, un po’ più discretamente ora che è buio. Il suono di una chitarra scordata sale dalla spiaggia e l’aria è abbastanza fresca da non sentirsi sulla pelle.
Qui non ci sono ambizioni. Nessuna angoscia e nessuna sofferenza. Bevo un sorso di pessima retsina e accendo la quarantesima sigaretta della giornata. La lampada a petrolio fa fumo come al solito. Qui non c’è elettricità. Solo la luna e i fuochi. E il petrolio.
Io scrivo.
Testardamente snocciolo parole su quegli avvenimenti. Sono disperato, eppure vado avanti senza esitazioni. Questa è una prigione, una prigione vera e propria, con delle quinte che sono come sgualdrine capaci di ingannare anche il demonio. Sono passati dodici giorni da quando sono arrivato. Non so se finirò per trovare ciò per cui sono venuto qui, e forse nemmeno mi importa. Al diavolo le fotografie di Henderson! È la strada a dare un senso alla fatica; io sono solo uno fra questi attori senz’anima di una maledetta commedia che nessuno va più a vedere.
Che nessuno ha scritto e nessuno ha messo in scena; Gallis dice che il bello di resinare il proprio vino è che poi si può bere qualsiasi cosa. Gli credo. La bottiglia e il bicchiere che ho davanti contengono senza dubbio piscio d’asino, ma io continuo coraggiosamente a bere.
Sono ubriaco, quant’è vero Dio. Non riesco a scrivere ciò che mi ero proposto quando ho cominciato un’ora fa. Al termine della notte finirò per strappare queste pagine. Le mie parole si nasconderanno alla chiara luce del giorno. Come vermi che si infilano sotto terra.
E se anche avessi cominciato, di sicuro avrei solo constatato che:
… e in fondo alla fila sulla destra era seduta M.
A conti fatti è l’unica cosa che mi ricordi.
Otto Gerlach era seduto tutto a sinistra. Con barba e capelli impeccabilmente tagliati di fresco. Camicia bianca, cravatta e completo a doppio petto. Le mani appoggiate sul tavolo. L’immagine stessa del successo ben meritato.
Alla sua destra sedevano due avvocati. Prima il suo, poi l’avvocato di Mariam Kadhar. Ognuno aveva il proprio difensore, e non sapevo se ci fosse qualche valido motivo, o se fosse solo perché in tal modo sarebbero stati seduti più lontano l’uno dall’altra.
… e in fondo alla fila sulla destra era seduta M.
Vestita di nero. Con un semplicissimo abitino smanicato che solo un certo tipo di donna può portare e che costa uno stipendio. O almeno così mi è stato detto.
Mentre prestavo giuramento, sollevò lo sguardo e mi fissò per due secondi. Poi fissò un momento le scarpe del pubblico ministero, che era in piedi davanti a lei, sul pavimento di legno scuro, e nei due sguardi non c’era nessuna differenza.
Proprio nessuna.
Fui invitato a sedermi e così feci. Il pubblico ministero si avvicinò piano. Era un uomo alto, sulla cinquantina. Distinto, con un profilo classico da semidio, che palesemente gli piaceva mettere in mostra. Girò intorno al banco dei testimoni e si piazzò in modo tale che vedessi il suo profilo sinistro, mentre i membri della giuria e buona parte del pubblico potessero ammirare quello destro. Restò perfettamente immobile, lasciando trascorrere qualche secondo.
«David Moerk» esordì.
Annuii.
«Il suo nome è David Moerk?» ripeté.
«Sì» affermai.
«Ci racconti perché si trova qui ad A.!»
Esposi uno dei motivi. Ci vollero alcuni minuti, ma non m’interruppe mai. Otto Gerlach sedeva immobile con le mani appoggiate mollemente sul tavolo e non mi staccò gli occhi di dosso nemmeno per un secondo. Mi parve di notare che la sua mascella si muovesse e capii che, nonostante l’immagine che voleva dare di sé, era nervoso. Mariam Kadhar, per parte sua, teneva la testa china e sembrava molto meno tesa del suo amante.
«Grazie» disse il pubblico ministero quando ebbi terminato. «Ci racconti del suo lavoro di traduttore. Come si è svolto e come sono nati i suoi sospetti.»
Continuai. Mentre parlavo, cominciai a girare lo sguardo per la stanza. Mi soffermai un momento sui membri della giuria. Quattro uomini e tre donne, tutti seduti con la schiena diritta e un’espressione blandamente preoccupata. Proseguii osservando il pubblico, sia quelli seduti in platea, sia quelli delle file davanti visibili più in alto, in tribuna. L’aula era piena. Era il secondo giorno del processo, e il primo in cui si entrava nel vivo. Il giorno precedente – da quanto avevo letto sui giornali – era stato dedicato soprattutto agli aspetti tecnici e all’esposizione dei capi d’accusa.
Omicidio. Primo grado.
Entrambi gli imputati avevano contestato le accuse. Il primo scontro era stato messo agli atti.
Gli interrogativi erano molteplici, a detta dei giornali. Uno dei processi più interessanti dopo i casi Katz e Vermsten, scriveva Laukoon sul Telegraaf. La sera prima dell’apertura del dibattimento, una trasmissione televisiva di cronaca nera aveva dedicato l’intera puntata a discutere della vicenda. O a porre questioni, piuttosto. Ne avevo visto uno spezzone al Vlissingen.
Sarebbero stati condannati entrambi?
Uno di loro si sarebbe assunto tutta la responsabilità? E chi?
Quali prove inoppugnabili aveva in mano la pubblica accusa? Come era iniziato il triangolo amoroso? Gli imputati avrebbero invocato l’attenuante del delitto passionale?
E così via.
«Perché crede che Rein volesse far uscire il libro con queste modalità?» domandò il pubblico ministero.
L’avvocato di Gerlach protestò. Si alzò in piedi e spiegò con prepotenza che si invitava il testimone a fare congetture. Io tacevo.
«Obiezione respinta» decise il giudice. «I membri della giuria dovranno tenere presente che al teste è stato permesso di esprimere giudizi personali.»
L’avvocato tornò a sedersi.
«Allora?» disse il pubblico ministero.
«Può ripetermi la domanda?»
«Perché Rein voleva far uscire il libro in traduzione?»
«Be’, mi sembra evidente.»
«Si spieghi!»
Guardai Mariam Kadhar. Il sole che entrava dalle finestre all’altezza della tribuna illuminava le sue spalle di una luce bianca e marmorea. La immaginai di nuovo nuda.
«Nel testo si dice che avevano intenzione di ucciderlo» chiarii.
La risposta provocò una certa agitazione tra gli astanti e il giudice picchiò un paio di volte il martelletto sul tavolo.
«Si spieghi meglio» disse il pubblico ministero.
Raccontai delle parole in corsivo, e di ciò che Rein aveva scritto sulle lettere e sulla meridiana nel Giardino dei ciliegi. Subito i presenti tornarono ad animarsi, e il giudice usò di nuovo il martelletto.
«Può riferirci che cosa fece quando scoprì queste cose?»
Cominciavo ad avvertire una lieve nausea. Nell’aula faceva caldo e l’aria era impregnata da un odore di dopobarba costoso. Credo che venisse da Otto Gerlach. Sì, doveva essere il suo.
«Feci un controllo.»
«E come?»
«Andai a Behrensee e verificai se fosse davvero come aveva scritto lui.»
«Cercò le lettere?»
«Sì.»
«E le trovò nel luogo indicato da Rein?»
«Sì.»
«Ne lesse il contenuto?»
«Non subito.»
«Quali conclusioni trasse?»
Questa volta a protestare fu l’avvocato di Mariam Kadhar. Di nuovo il giudice respinse l’obiezione. Bevvi un po’ d’acqua. Era calda più o meno come il resto della stanza, e non attenuò certo la mia nausea.
«Quale conclusione ne trasse?» ripeté il pubblico ministero.
«Quale ne avrebbe tratto lei?» replicai.
Il giudice intervenne e spiegò che il mio compito era di rispondere alle domande, non di farne. Annuii e bevvi un altro sorso.
«Trassi la conclusione che Otto Gerlach e Mariam Kadhar avevano ucciso Rein.»
Gli argini si ruppero, ma il giudice non fece alcun tentativo di imporre il silenzio. Il pubblico ministero mi ringraziò e andò a sedersi al suo posto.
Gradualmente il brusio si affievolì, e il giudice diede la parola all’avvocato di Mariam Kadhar, che si abbottonò la giacca, si alzò e si avvicinò al banco dei testimoni, alla stessa maniera studiata del pubblico ministero. Non aveva affatto lo stesso profilo, ma si piazzò grossomodo nella stessa posizione e lasciò che gli ultimi bisbigli si esaurissero prima di iniziare a parlare.
«Quale casa editrice l’ha incaricata di tradurre il manoscritto di Rein?»
Lo dissi.
«Sa per quando è prevista la pubblicazione del libro?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Uscirà in questi giorni, credo.»
«A quanto pare, proprio oggi» precisò lui.
«Può darsi.»
«Tiratura?»
«Non ne ho idea.»
Prese un foglio da una tasca interna della giacca. Lo spiegò con cura e lo studiò con espressione di finto stupore.
«Cinquantamila» disse.
Non replicai. Si tolse gli occhiali e cominciò a sventolarli avanti e indietro tenendoli per una stanghetta.
«Ha qualche commento?»
«No.»
«Non si tratta forse di una tiratura piuttosto consistente, considerata l’area linguistica?»
Di nuovo mi strinsi nelle spalle.
«È possibile. Rein era un grande scrittore.»
«Senza dubbio.» L’avvocato studiò nuovamente le sue carte. «Ho qui le cifre relative alle vendite dei suoi ultimi due libri nel vostro paese… Sa a quanto ammontano?»
«No.»
«Dodicimila copie. Per entrambi i titoli. Dodicimila… Che mi dice adesso?»
Non risposi. Lui inforcò gli occhiali e accennò un sorriso.
«Questa pubblicazione non è un affare piuttosto vantaggioso per il suo editore?»
«Può essere.»
L’avvocato fece una breve pausa mentre si girava lentamente di schiena.
«Non è forse vero…» riprese «… che tutta questa storia è una pura speculazione per fare cassa su un bestseller annunciato?»
Bevvi un po’ d’acqua.
«Sciocchezze» dissi.
«Mi scusi?»
«Sciocchezze!» ripetei a voce più alta.
«Posso invitare il testimone a moderare il linguaggio?» intervenne il giudice.
Su questo non avevo commenti da fare. L’avvocato di Mariam Kadhar andò a sedersi e si alzò quello di Gerlach, attraversando lentamente l’aula.
«Chi sostiene le spese del suo soggiorno ad A.?» chiese.
«Il mio editore, naturalmente.»
«Il manoscritto che ha tradotto… ha qualche prova che sia realmente di Germund Rein?»
«Che cosa vuole insinuare?»
«Come fa a sapere che è stato Rein a scriverlo?»
Cominciavo a provare una crescente irritazione.
«È ovvio che l’ha scritto lui. Chi altro dovrebbe essere stato?»
«Come è arrivato nelle sue mani?»
«Me lo ha dato Kerr.»
«Il suo editore?»
«Esatto.»
«E come l’aveva avuto, Kerr?»
«Gliel’aveva mandato Rein.»
«Come fa a saperlo?»
«Me lo disse lui.»
«Kerr?»
«Sì.»
«Non ha nessun’altra fonte?»
«Che genere di fonte?»
«Che possa confermare che sia veramente così.»
Sbuffai.
«Perché dovrei averne una? Che idiozie sono, cosa sta cercando di insinuare?»
Ricevetti un nuovo, più secco ammonimento dal giudice. L’avvocato si appoggiò con il gomito alla sbarra del banco dei testimoni.
«C’è qualcos’altro, oltre alla parola del suo editore, che possa confermare che è stato proprio Rein a spedirgli il manoscritto?»
«No.»
«Potrebbe essersi trattato di un bluff, dunque?»
«Non credo proprio.»
«Non le sto chiedendo che cosa crede.»
«Escludo nella maniera più assoluta che il mio editore possa raccontare menzogne.»
«Anche se significherebbe rimettere in piedi la casa editrice?»
«La casa editrice non ha bisogno di essere rimessa in piedi.»
L’avvocato accennò un sorriso.
«Ma se qualcun altro si fosse spacciato per Rein, anche i suoi probi e onesti editori potrebbero essere stati imbrogliati…»
Ci pensai un attimo. Bevvi un po’ d’acqua.
«In linea di massima, sì» riconobbi. «Ma lo escluderei.»
«Grazie» disse l’avvocato. «Non ho altre domande.»
Il giudice mi fece cenno che potevo lasciare il banco dei testimoni e fui accompagnato fuori dallo stesso usciere che mi aveva condotto in aula. Quando passai davanti al banco degli imputati, cercai nuovamente di incrociare lo sguardo di Mariam Kadhar, ma era ancora seduta immobile con gli occhi bassi. Otto Gerlach invece mi fissò con insistenza e capii che mi avrebbe volentieri ammazzato se ci fossimo trovati in circostanze meno civili.
Quando uscii sulle ampie scale del tribunale, fui accolto da un’ondata di sole. Guardai l’orologio e mi accorsi che la mia performance era durata meno di un’ora.
Mi tolsi la giacca. La buttai sopra una spalla e mi incamminai verso il centro. La nausea non mi aveva abbandonato. Probabilmente avrei avuto bisogno di bere qualcosa di forte per riprendermi.