Il secondo giorno cenammo in albergo, e mentre bevevamo il caffè e fumavamo una sigaretta, lei disse che avrebbe incontrato Mauritz Winckler il mattino seguente.
E così andò. Io ero sul balcone e la vidi avviarsi in auto lungo la strada che serpeggiava sulla montagna, per scendere a valle, nei paesi sull’altro versante. La seguii fino a un passo fra due scuri massicci, dove l’Audi bianca tutt’a un tratto sparì, rapidamente come un fiocco di neve nell’acqua.
La giornata era accordata sulla stessa nota; cielo coperto e nuvole minacciose che gravavano sopra le cime. Decisi per un’escursione proprio in quella direzione. Non avevo voglia di stare in mezzo a case ed esseri umani, in realtà avevo voglia solo di mia moglie, ma so riconoscere i momenti in cui è necessario muoversi. L’ho sempre fatto. Quando l’inquietudine è troppo forte, bisogna diluirla con qualcosa di fisico. Subito dopo mezzogiorno m’incamminai, con qualche bottiglia di birra e dei panini che mi avevano preparato in albergo.
Dopo circa un’ora la pioggia mi aveva raggiunto. Trovai ben presto una grotta, e lì trascorsi tutto il pomeriggio seduto su un masso a osservare attraverso la fitta cortina d’acqua il paesaggio, che quel giorno aveva perso ogni contorno e buona parte della sua bellezza.
Me ne stavo lì a bere le mie birre e a sbocconcellare lentamente i panini, mentre scartavo un piano dopo l’altro. Pensai a lungo alla pelle di mia moglie, straordinariamente liscia all’interno delle cosce; lo era anche all’interno delle cosce di altre donne, del resto, ma soprattutto di quelle di Ewa. Quella carne morbida mi appariva paradossalmente pura e innocente, e riflettei se fosse possibile, solo con l’aiuto del tatto, del lieve tocco della punta delle dita, stabilire in quale punto del corpo si trovi una certa porzione di pelle.
Questi pensieri mi distrassero un po’. Prima di incamminarmi lungo la via del ritorno non ero ancora giunto a una soluzione, che tuttavia ebbi ben chiara quando entrai nella hall dell’albergo. Non nei minimi dettagli, ma a grandi linee, e con un senso di amara soddisfazione mi infilai sotto la doccia, lasciando che l’acqua calda sostituisse la pioviggine fredda che mi aveva inzuppato durante il rientro.
Credo di aver preso l’idea da un vecchio film che avevo visto da ragazzo, forse in televisione, ma di cui non ricordai mai il titolo, né allora né in seguito, anche se forse era solo uno dei tanti cliché del crimine, con un’origine indefinita come la zuppa che quella sera la locandiera mi servì nella mia solitudine.
Una grande solitudine e una zuppa sconsolante.
Quando Ewa fece ritorno erano le tre di notte passate, e io feci finta di dormire. Sono quasi certo che capì, ma recitò la sua parte aggirandosi in punta di piedi per la stanza buia, proprio come avevo avuto l’abitudine di fare io nei sei mesi precedenti.
Ho dimenticato il nome di quella donna.
Il sobborgo si chiamava Wassingen, una ventina di palazzi in tutto e un centro commerciale. Edifici più vecchi non ne vidi, e supposi che quella parte della città risalisse ai tardi anni Sessanta o ai primi anni Settanta. Dalla stazione mi aggregai alla fiumana serpeggiante di persone che, attraverso alcuni sottopassaggi puzzolenti e pieni di scarabocchi, uscì alla luce recalcitrante del giorno su una piazza grigia e senz’anima. Negozi e aziende che offrivano servizi di vario genere ne occupavano tre lati, mentre dal quarto tirava un ostinato vento dal mare. Ricordo che pensai che se l’inferno fosse stato costruito ai giorni nostri, avrebbe potuto benissimo riprodurre quell’architettura.
Cercando un po’, trovai la casa. Era un edificio di cemento marrone grigiastro macchiato di umidità, alto sedici piani. Feci una rapida valutazione e calcolai che dovevano abitarci fra le mille e le milleduecento persone. Sull’elenco degli inquilini della scala dove si supponeva che il collaboratore di Maertens avesse visto entrare mia moglie, c’erano settantadue nomi. Mi allontanai dal palazzo e andai a sedermi in un caffè nel centro commerciale. Pensai a una strategia mentre cercavo di tenere d’occhio tutte le donne che mi passavano davanti nell’una o nell’altra direzione.
Non mi venne in mente un piano d’azione accettabile, anzi mi sentivo sempre più scoraggiato e impotente. Poi lo sguardo mi cadde sull’edicola di fronte al caffè. Finii di bere quello che avevo ordinato, raggiunsi l’edicola, cercai un po’ e infine comprai sei copie di un settimanale cristiano intitolato Svegliatevi. Quindi tornai al condominio e mi misi all’opera.
Un’ora dopo avevo suonato a sessantaquattro porte. Ormai era tardo pomeriggio, così mi avevano aperto in molti, quarantasei in tutto; avevo venduto due copie di Svegliatevi, ma di Ewa nemmeno l’ombra.
Gettai nei rifiuti le copie rimaste e tornai alla stazione attraverso i tunnel. Il sole era tramontato; ero attanagliato da un senso di estraneità, e nell’attesa del treno bevvi tre bicchieri di whisky al bar. Cercai anche di intavolare una conversazione con il barista, un tizio gigantesco che sembrava un culturista, con tatuaggi un po’ dappertutto, che si limitò a rispondere bofonchiando e senza mai alzare lo sguardo dal calendario delle partite che aveva davanti sul bancone. Notai che muoveva le labbra mentre leggeva.
Tornato in Ferdinand Bol, telefonai a Maertens dal caffè sotto casa, ma era venerdì sera e non rispose. Avrei dovuto aspettare fino a lunedì per saldare il conto e rinunciare ai suoi servigi futuri.
Continuai a bere whisky tutta la sera. Ricordo che per poco non attaccai briga con un rubicondo norvegese in un bar vicino a Leidse Plein, e tornando verso casa inciampai in una bicicletta sul marciapiede, procurandomi un paio di abrasioni sulle nocche.
Ma la cosa peggiore della serata fu che riuscii a perdere l’elenco degli appartamenti dove ero già stato a Wassingen. Ripensandoci, è probabile che proprio per questo esitai così a lungo prima di tornarci una seconda volta.
In ogni caso, in quel momento non avevo affatto abbandonato l’idea di cercare Ewa; la mia evidente depressione di quel pomeriggio e della sera era solo un temporaneo sconforto di fronte all’arduo compito.
Temporaneo e, per come la vedo, in un certo qual modo comprensibile.
Lunedì chiusi i conti con Maertens. Lo cercai prima di andare in biblioteca; discutemmo se la pista di Wassingen potesse essere considerata o meno un risultato sostanziale, ma alla fine Maertens si arrese e ci accordammo sulla tariffa più bassa.
Non mi augurò buona fortuna quando ci salutammo, e capii che era ancora del parere che avrei fatto meglio a dimenticare tutta la faccenda e a dedicarmi a qualcosa di più sensato. Ero sul punto di esprimere qualche critica a proposito del suo scarso coinvolgimento, ma mi trattenni e lo lasciai senza altri commenti.
Durante il fine settimana, da quando era emersa la pista di Wassingen, avevo accantonato la questione del misterioso pedinatore, ma appena varcai le porte della biblioteca ricominciai a pensarci. Mi tornò in mente senza preavviso, come un fuoco fatuo, e ricordo che mi sembrò di riuscire a evocarne la presenza nella sala di consultazione.
Perciò fui quasi deluso quando constatai che la stanza era deserta. In tutto il pomeriggio, mentre lavoravo al manoscritto di Rein, comparvero solo due studenti che bisbigliarono per mezz’ora a uno dei tavoli in fondo alla sala.
Del mio pedinatore nessuna traccia.
Sparito nel nulla, pensai in più di un’occasione. Tutto sparisce nel nulla, come sempre accade alle cose importanti e agli obiettivi di questa maledetta vita.
Eppure sapevo che non era così. Sapevo che prima o poi sarebbe cambiato qualcosa, che dovevo solo avere un po’ di pazienza.
Nemmeno il testo di Rein si rivelò particolarmente interessante all’inizio di quella settimana. Se ben ricordo, solo giovedì m’imbattei in qualcosa che di nuovo mi indusse a fare congetture; dopo parecchie pagine di flashback dell’infanzia di qualcuno – verosimilmente R – il testo all’improvviso si schiuse, e mentre il tè si raffreddava nel mio bicchiere giallo di plastica, tradussi il seguente brano:
Documentazione. Negli attimi fugaci in cui l’angoscia si allenta, R comincia a pensare alla documentazione. Quando tutto finisce, la ferita non può semplicemente richiudersi come un passo nell’acqua, dalla dittatura dell’oblio e del presente che continua a fluire. Un mattino lei è in piazza a comprare verdure, verdure che devono sempre essere fresche di giornata, il suo memento mori, e lui fruga fra le sue cose, lei sa che lui non lo farebbe mai e non si è curata di nascondere nulla. Lui trova delle lettere, quattro; tre sono abbastanza chiare, la quarta è un complotto. Cospirano, è proprio ciò che stanno facendo; lui, nel rendersene conto, sente le gocce di sudore imperlargli la fronte, cospirano contro la sua vita. R esce sulla spiaggia, riempie i polmoni di aria marina incontaminata, entra in acqua, avanzando finché non gli arriva alla cintola, si ferma lì nella pigra maretta, e la sua vita gli appare effimera e inutilmente pugnace, come le viscide meduse azzurre che si sono avvicinate troppo alla riva e non ce la faranno mai a tornare in mare aperto. Rientra in casa, lei è ancora in piazza fra le sue verdure, ci vuole tempo, forse sta anche scopando con G, lui mette le lettere in una cartelletta, va in città e le fotocopia, lei è ancora fuori quando rincasa. R esita. Copie per i posteri? Ne rimette a posto due fra le mutande nel cassettone, infila due originali più due copie in un sacchetto di plastica, che poi avvolge nella carta smerigliata, con molta consapevolezza e pedanteria li assicura per i posteri. Va al capanno degli attrezzi, prende una vanga, si guarda intorno e sceglie. Al centro del prato morbido e ondulato si eleva quell’orrenda meridiana, e nel terreno poroso ai piedi del lato rivolto a nord seppellisce il suo tesoro e il suo testamento. Beve diversi bicchieri di whisky. M non è ancora tornata, sta ancora scopando con G, ora lui lo sa, fra le cosce spalancate riceve il seme indolente di G, due animali sudati in una stanza d’albergo in città. Il Belvedere, probabilmente, oppure il Kraus nella città vicina, perché sono molto prudenti, M e G; R beve altro whisky e se li vede comunque davanti. Che scopano e farneticano sulla sua vita, al di là di qualsiasi dubbio ormai, ora lui si mette a scrivere, la sua contromossa sono come sempre queste parole, queste astrazioni impalpabili e anemiche per intrappolare i corpi sudati degli assassini, un bozzolo di parole che cresce in maniera inesorabile intorno alla carne puzzolente. R teme e R sa, ma R scrive.
Pagine centoventidue e centoventitré. Quella sera infransi finalmente la regola di Darke. Senza curarmi di tradurre, lessi il resto del manoscritto.
Alla luce della pesante lampada a stelo e con Beatrice che sonnecchiava sui miei piedi, lessi le ultime quaranta pagine dell’opera di Germund Rein. Le ultimissime righe erano una citazione da uno dei suoi primi libri, La leggenda della verità:
Quando un giorno non capiamo più la nostra vita, dobbiamo andare avanti come se fossimo un libro oppure un film. Non esistono altre istruzioni.
Metto da parte i fogli. Sono passate da poco le undici e mi accorgo che il mio corpo è teso come una molla. Mi alzo e cerco di rilassarmi, cammino avanti e indietro per casa e alla fine mi piazzo alla finestra con una sigaretta. Spengo la luce e come tante altre sere osservo la rara animazione fuori nel buio. I pensieri si accumulano, scivolano dentro e fuori l’uno nell’altro, e tengono le parole a una distanza rassicurante. Eppure capisco di dover assolutamente fare qualcosa. Sono a una svolta, e tutte le trincee sono state smantellate. Non riesco a capire perché Rein abbia affidato proprio a me questo compito, ma ora non posso più esimermi dall’agire. Non spetta a Orazio nutrire dei dubbi.
A poco a poco la tensione si allenta. Scendo al caffè, ma bevo solo un paio di birre, e con mente piuttosto lucida decido come agire in futuro.
Niente di strano, ovviamente. Non vedo soluzioni alternative, per ora, e non le vedrò nemmeno in seguito.