Le giornate si fanno sempre più torride. Fin quando c’è il sole, è assolutamente impensabile stare in qualsiasi altro posto che non sia in riva al mare. Ho provato a rimanere in casa o a raggiungere i pendii coperti di ulivi, ma il caldo diventa presto insopportabile. Soltanto il mare riesce a dare un po’ di refrigerio; non è necessario fare il bagno, basta stare nelle vicinanze, all’ombra, e ogni tanto immergere i piedi o bagnare la testa.
Thalatta.
L’altro giorno ho provato a seguire la costa rocciosa e sconnessa oltre il promontorio a est. Volevo raggiungere la prima spiaggetta appartata e magari ispezionare un po’ più da vicino la casa che avevo intravisto dall’alto dalla cappella. Sarebbe più semplice arrivarci in barca, uno dei prossimi giorni penso ne noleggerò una. Dopo tre ore di cammino non sono neppure arrivato alla meta – è stata una mia decisione, dato che la spiaggia era occupata da una dozzina di persone che correvano nude, così com’erano venute al mondo. Uomini, donne e bambini. C’erano anche due barche: uno yacht piuttosto grande che dondolava sulle onde ancorato al largo dell’insenatura, e una barca di legno più piccola che era stata tirata in secco sulla riva, più o meno come quella dei fratelli Kazantsakis. La casa sorgeva una cinquantina di metri più su: un grande edificio imbiancato a calce e circondato da cipressi. Una terrazza correva tutt’intorno; ombrelloni, mobili bianchi e teli da bagno mostravano chiaramente che quelle persone abitavano lì; giunsi alla conclusione che non fossero greci, data la disinvoltura con cui se ne stavano nudi in spiaggia.
A parte questo, qualche sera ho preso l’autobus per il capoluogo dell’isola, e mi sono seduto sotto i pergolati delle taverne. C’è molta vita, i turisti si mescolano alla gente del luogo, altrettanto numerosa. Ho mostrato le fotografie, che almeno in un paio di occasioni hanno suscitato cenni di assenso e riconoscimento, e sorrisi. Però non sono sicuro che significhino davvero qualcosa, o se fossero solo espressioni di cortesia e generica benevolenza. Qui parlano quasi esclusivamente greco, a parte le frasi di circostanza più comuni, e come se non bastasse c’è anche qualcosa che mi trattiene.
Qualcosa di molto difficile e al tempo stesso facilissimo da capire.
Come se non volessi forzare la situazione. Ci sono determinate regole, le cose devono seguire il proprio corso, anche qui sull’isola. Ho ancora parecchio tempo a disposizione, e anche se finora non ho raccolto segnali decisivi, mi sembra di essere venuto nel posto giusto. È una sensazione ancora piuttosto vaga, e forse è proprio tale fragilità a farmi desistere dal caricarla di un peso eccessivo.
Un’ala d’uccello ferita, che sta guarendo ma che ancora non regge un vero, lungo volo. Un embrione che non smette di crescere, ma che sarebbe distrutto dalla luce del sole.
Soprattutto di questo sole implacabile.
Un uccello, proprio così si descrisse lei la prima volta che stemmo insieme. Un uccello con un’ala ferita.
«Finché non sarò guarita, non potrò dare» disse. «Soltanto ricevere.»
Questo mi piacque molto. Aveva tracciato fin dall’inizio i contorni del nostro rapporto e io mi adeguai senza problemi. Passò quasi un mese prima che facessimo l’amore sul serio; e anche questo mi piacque. Ebbi anche il tempo di chiudere un’altra storia che avevo ancora in sospeso.
Quando ci sposammo, lei era ancora quell’uccello ferito. Poi perse due bambini prima del termine, e probabilmente questo segnò il nostro legame. Dopo il secondo aborto la mia energia non bastò più a colmare il vuoto. Per un anno vivemmo in mondi separati: io facevo valere il diritto del maschio forte, Ewa rimaneva chiusa dietro le opache cortine della malattia.
Adagio, diceva sempre in quel periodo. In questo momento siamo nell’adagio. Non c’è niente di strano.
Ma non era così.
Incontrai Mauritz Winckler tre o quattro volte, e non mi fece una buona impressione. C’era una sorta di invadenza nel suo comportamento e nel suo modo di parlare anche delle più insignificanti banalità. Dopo che Ewa fu dimessa, io e lei avemmo alcuni pesanti scontri verbali e un paio di volte venimmo alle mani, ma ci riconciliavamo e uscivamo rafforzati da quelle battaglie. Però Mauritz Winckler non riuscì mai a capirlo; anche se cercava di non darlo a verere, il suo atteggiamento pieno di pregiudizi traspariva da tutti i suoi sipari di parole e sorrisi.
No, Mauritz Winckler non capì mai questa moralità dell’uccello ferito e dei diritti e doveri del più forte, e io trovavo difficile tollerarlo.
Fin dall’inizio. Molto prima che diventasse l’amante di mia moglie.
Il crepuscolo cala in fretta, l’oscurità si propaga dagli angoli. Sono steso sul letto e guardo i contorni della stanza diventare sempre più vaghi. Cerco di richiamarli alla mente, mia moglie e il suo amante, ma le immagini sono fasulle e durano al massimo per un paio di secondi. Cerco tastoni il bicchiere di retsina sul comodino e bevo a lungo.
Rifletto un momento sulla squallida commedia di vita che ho scritto qualche giorno fa. Cerco di capire come trovare uno scopo, un significato, e giungo all’amara risposta che ho già.
Com’è destino, probabilmente. Non mi inoltro in un ragionamento qualsiasi così indifeso. È pur sempre per ciò che mi affligge che sto steso qui, in questa calda oscurità, su quest’isola dalla fiera bellezza.
Solo e soltanto per quello.