La notte prima di andare alla casa di Rein dovevo aver dormito piuttosto male. Nonostante fossero solo cento chilometri, a metà strada fui costretto a fermarmi a bere del caffè nero.
Per tenermi sveglio.
Per il resto, il cielo era limpido e, come nei giorni precedenti, soffiava un vento primaverile. C’erano almeno quindici gradi e si avvertiva il fermento della terra sotto i piedi. Il tempo aveva un influsso favorevole sul mio umore e sulla mia energia; non era stato facile prendere la decisione di andare a scavare nel Giardino dei ciliegi a caccia di lettere compromettenti, o di qualunque cosa si trattasse, e avevo bisogno di tutto il sostegno possibile. Consciamente o meno, cercavo anche il più piccolo segnale che potessi interpretare in modo positivo e che confermasse che ero sulla strada giusta. Cosa che avevo fatto durante tutta la mia permanenza ad A., e che quel giorno avvertivo finalmente con insolita chiarezza. Il calore del sole. Fiori bianchi e gialli che spuntavano sul ciglio dei fossi. Il sorriso compiacente che mi rivolse la ragazza alla cassa quando pagai il caffè. Qualsiasi cosa.
Forse l’opposto – cattivi presagi e cassiere scorbutiche – mi avrebbe indotto a desistere. Ma a posteriori è difficile dirlo. Non è assurdo pensare che tutto sarebbe andato diversamente, se in quella seconda settimana di marzo il tempo fosse stato meno clemente.
Nella piazza di Behrensee era giorno di mercato. Parcheggiai fuori della chiesa e con la mappa di Hoorne in mano mi tuffai nella folla cercando di orientarmi. Ancora non avevo visto il mare, ma ne percepivo chiaramente l’odore. Riuscivo anche a sentirlo: un brusio sordo e lontano sotto le voci umane e il baccano che sovrastavano la piazza. Un cartello mezzo arrugginito informava che la spiaggia distava solo un chilometro e mezzo.
Per qualche motivo provai un desiderio irresistibile di comprare qualcosa ai baracchini e alle bancarelle del mercato prima di proseguire, e quando mezz’ora dopo – l’orologio del municipio, un edificio basso e biancastro, aveva appena battuto l’una – mi avviai verso la spiaggia, avevo accanto a me sul sedile del passeggero una sporta ben fornita. Frutta, pane, marmellata fatta in casa e formaggio. E una bottiglia di sidro, con cui intuivo che sarei dovuto andare cauto.
Un centinaio di metri prima della duna litoranea, punteggiata di erba alta e di cespugli piegati dal vento, la strada si divideva. Io presi quella verso sud. Secondo Janis Hoorne, avrei dovuto percorrere circa tre chilometri e poi aguzzare la vista alla ricerca di un vecchio mulino crollato sulla sinistra. Così avrei intravisto il Giardino dei ciliegi all’interno di una cintura protettiva di pini, proprio ai piedi della duna. Avanzai piano lungo la stretta strada asfaltata, per gran parte coperta di sabbia portata dal vento, e qualche minuto dopo giunsi al mulino crollato. Mi fermai e mi guardai intorno.
Sulla destra, in mezzo agli alberi, sorgeva una casa che corrispondeva alla descrizione. C’erano anche una cassetta delle lettere con la vernice azzurra scrostata e una carrozzabile che conduceva a una sorta di garage naturale fra gli alberi, dove potevano starci quattro o cinque auto.
Il problema era anche quello. Sotto la tettoia di rami era parcheggiata una Mercedes rossa. Il bel tempo non era stato solo l’alleato che avevo creduto, ma aveva attratto anche altre persone verso il mare. Non avevo intenzione di incontrare né Mariam Kadhar né nessun altro, così mollai la frizione e proseguii ad andatura ridotta verso sud.
Quando ritenni di essere invisibile dalla casa, lasciai la strada e parcheggiai in un altro boschetto di pini nodosi; suppongo che fossero stati piantati lungo la duna litoranea per trattenere la sabbia, ma erano anche ottimi punti ombreggiati dove fare picnic durante le escursioni domenicali nei mesi estivi. Almeno lungo quel tratto, fra le case sparse in riva al mare, a una distanza rassicurante l’una dall’altra. Non ero ancora riuscito a farmi un’idea della casa di Rein, ma giunsi alla conclusione che fosse fra le più costose.
E perché non avrebbe dovuto permettersela?
Con il sacchetto in mano uscii nel vento e scesi sulla spiaggia. Percorsi un buon tratto in direzione nord; camminavo sulla sabbia compatta e umida, che di tanto in tanto era lambita dalla schiuma della risacca, e avanzavo a passi lenti con il viso rivolto al sole. I gabbiani si libravano sul mare riempiendo l’aria dei loro gridi lamentosi. A parte un uomo solitario in tuta sportiva rossa che faceva jogging e una donna con un cane, la spiaggia era deserta fino al promontorio davanti a Behrensee, dove il terreno cominciava a salire, e verso sud fin dove arrivava lo sguardo.
Una ventina di minuti dopo mi arrampicai di nuovo sulla duna litoranea. Salii con fatica nella sabbia e quando mi trovai all’altezza del Giardino dei ciliegi, mi rannicchiai in un avvallamento riparato e aspettai.
Il sole scaldava più che a sufficienza. Mangiai un po’ di pane e formaggio, bevvi un paio di sorsi del sidro forte e dolce e nel giro di dieci minuti mi addormentai.
Quando mi svegliai non sapevo dove fossi.
Come capita a molti – ne ho parlato anche con dei medici – talvolta la mattina vengo colpito da qualche secondo di vuoto mentale. Sono attimi assolutamente immobili, congelati, in cui veniamo strappati al sonno e scagliati sulla muta superficie della realtà. Potremmo essere chiunque, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Dalla scomparsa di Ewa avevo imparato a sfruttare al meglio tali istanti di inconsapevolezza: in questo modo, in tre anni avevo messo insieme un paio di minuti in cui, per così dire, l’avevo avuta ancora con me. Sempre meglio di niente, pensavo di solito, ma quella volta – in riva al mare, a Behrensee – non fu semplice né confortante. Era qualcosa di molto più intenso: forse anche di natura differente.
Ero steso supino. Sopra di me i gabbiani volteggiavano in una vasta sfera celeste. Il sole era caldo. Sentivo il mare e il vento che mormoravano attraverso l’erba.
Passarono alcuni secondi.
Ewa? Era il pensiero che di solito rimetteva ogni cosa al suo posto. Mi ricordai di Graues.
Mi ricordai il ritorno a casa tre anni e mezzo prima.
Mi ricordai l’interrogatorio della polizia. La camicia verde del commissario con le chiazze di sudore sotto le ascelle.
Le conversazioni con gli amici e gli psicologi.
I mesi in ospedale e il trasloco. Il mio nuovo lavoro e il ritorno alla traduzione. Il fallimento della storia con Maureen. Il fallimento del viaggio con B.
Dove mi trovavo?
Una formica mi si arrampicò sul collo. I gabbiani stridevano. Dove?
Tornai in me all’improvviso dopo uno o due minuti, e ciò che mi riportò alla realtà furono dei colpi di tosse.
Chiarissimi, come se lei fosse stata stesa sulla sabbia accanto a me. Udii ancora una volta i colpi di tosse di Ewa al concerto per violino di Beethoven, e mi sembrò… Sì, credo fosse la sensazione che si prova quando si viene uccisi a colpi d’arma da fuoco. O quando si fa passare la corrente nella sedia elettrica.
Sopravvissi. Chiusi gli occhi e presi la bottiglia di sidro dal sacchetto. Bevvi una bella sorsata e, sempre senza aprire gli occhi, accesi una sigaretta.
Mentre fumavo, rimasi steso senza muovermi. Cominciai lentamente a calmarmi, e per impegnare il cervello con qualcosa di neutro cercai di riflettere sui meccanismi casuali della mente.
Oppure la casualità non esiste? È forse la memoria – o l’oblio – l’unica medicina efficace contro la vita?
Ritengo di sì. In ogni caso era ciò che pensavo mentre ero steso sulla sabbia, e da allora nulla mi ha fatto cambiare idea.
L’oblio.
Qualche minuto dopo mi ero ripreso. Mi sporsi oltre il bordo della duna per esplorare l’area del Giardino dei ciliegi. La casa era in gran parte nascosta dai pini, ma la Mercedes rossa era sempre lì, e dal comignolo che spuntava tra gli alberi saliva una debole scia di fumo che il vento subito lacerava.
Guardai l’ora. Le due e mezzo. Sprofondai di nuovo nella sabbia. Formulai due domande:
Pensavano di fermarsi per la notte?
A che ora sarebbe stato abbastanza buio perché potessi avvicinarmi?
Mentre mangiavo ancora qualcosa, giunsi alla conclusione che molto dipendeva dalla collocazione della meridiana e che avrei dovuto localizzarla alla luce del giorno. Dover cercarla al buio era tutt’altro che allettante.
Un’ora dopo seppi quello che dovevo sapere. La meridiana era una questione alquanto dubbia, proprio come s’intuiva dal testo di Rein: una scultura in bronzo sovradimensionata e sgraziata, che si elevava in solitaria maestà al centro del grande prato. Si trovava ad almeno una ventina di metri dalla casa, e valutai che non sarebbe stato troppo rischioso avvicinarmi di nascosto e scavare col favore delle tenebre. Avevo visto di sfuggita un paio di persone, ma era evidente che preferivano rimanere in casa, nonostante il tempo. O protetti da sguardi indiscreti. Quanto a me, stavo steso a pancia in giù con la testa che spuntava fra due ciuffi erbosi e avevo un’ottima visuale su ciò che accadeva nel Giardino dei ciliegi.
Niente di che, quindi. Nulla di particolarmente emozionante. Mentre aspettavo che calasse il buio, fumai una ventina di sigarette, cioè più di quante ne consumi di solito, e le mie provviste erano terminate molto prima del crepuscolo.
Però ero sempre più tranquillo. Mi sentivo riposato e più in forze dopo quelle ore vuote sulla spiaggia di cui credo avessi proprio bisogno, e di cui dovevo cercare di far tesoro per avvantaggiarmene in seguito. Dopo il minuto di smarrimento e il risveglio traumatico, la tensione si era ormai placata, e quando intorno alle otto e mezzo cominciai ad avvicinarmi alla casa, non ero particolarmente nervoso. Le finestre a pianterreno erano illuminate, ma la luce rischiarava pochi metri di prato, e capii che dall’interno non sarebbe stato possibile distinguere la meridiana sullo sfondo della duna e degli alberi scuri che circondavano la casa.
Attraversai il prato restando accovacciato. Arrivai alla meridiana, che si trovava su un basamento di mattoni alto circa un metro. Cercai a tastoni nella terra porosa ai piedi del basamento. Non avevo pensato di portare qualche attrezzo; immaginavo che Rein non avesse scavato molto in profondità, e dopo qualche minuto trovai ciò che cercavo.
Era un pacchetto piatto, piuttosto piccolo. Proprio come aveva scritto, era avvolto nella carta smerigliata e misurava circa quindici centimetri per venti, con uno spessore di un paio di centimetri. Lo ripulii, sistemai il terreno intorno al basamento e tornai di soppiatto fra gli alberi e poi verso la spiaggia. Nell’attimo stesso in cui superai la duna litoranea, la luna uscì da dietro una nube e stese un tappeto di argento luccicante su tutta l’insenatura.
Capii che era un altro segno.
Impiegai un’ora e mezzo per tornare ad A. Continuavo a essere concentrato e impassibile. Il pacchetto di Rein era sul sedile del passeggero e ogni tanto lo guardavo, senza che questo suscitasse in me particolari emozioni o chissà quali pensieri.
E quando più tardi – dopo aver riconsegnato l’auto e le chiavi all’ufficio della Hertz – mi feci qualche bicchiere al Vlissingen, ricordo che in un paio di occasioni lo lasciai incustodito sul tavolo mentre andavo al bancone o al bagno.
Se non per sfidare il destino, per offrirgli una possibilità. Di intervenire prima che fosse troppo tardi.
Ma non accadde nulla. Il destino quella sera non era in servizio. Tornai a casa intorno a mezzanotte, e dopo aver pulito la cassetta di Beatrice e averle dato da mangiare, feci cadere l’involto dietro la fila di volumi più in alto nella libreria. Decisi che l’avrei lasciato lì qualche giorno, per concedermi l’ipotetica possibilità di non pensarci.
Il sonno pomeridiano in riva al mare non era stato sufficiente, poiché ricordo che, appena mi spogliai, crollai sul letto.
Certi giorni, quando andiamo a dormire, abbiamo la sensazione di non essere la stessa persona di quando ci siamo alzati al mattino. Prima di addormentarmi feci in tempo a pensare che era una di quelle volte.