Il resoconto di Mariam Kadhar sulla notte fra il 19 e il 20 novembre – comprese le interruzioni per le domande e i commenti del pubblico ministero – durò in tutto quarantacinque minuti, e alla fine credo che ogni membro della giuria si fosse convinto della sua colpevolezza.

Le sue spalle rimasero sempre rilassate, la sua voce non ebbe mai cedimenti, eppure pian piano gettò il seme della convinzione in tutti i presenti.

Colpevole.

Poi, nulla servì.

Nessuna simpatia. Nessuna spalla candida come marmo, e nessuna circostanza poco chiara.

La testimonianza di Otto Gerlach seguì dopo una pausa molto breve, e anche se sotto molti aspetti l’editore diede un’impressione diversa rispetto alla sua amante, non riuscì a raddrizzare la situazione. In tutti i punti essenziali presentò la stessa versione dei fatti fornita da Mariam Kadhar, e i suoi futili tentativi servirono solo a confermare e ribadire i tristi eventi che avevano portato al tragico e improvviso decesso del grande Germund Rein. Come si potè leggere in alcuni resoconti sui quotidiani del giorno seguente.

Entrambi ammisero – senza tante cerimonie – di aver avuto una relazione; da meno di tre anni, anche se all’inizio era stata sporadica. La storia – come sottolinearono sia M che G – era di natura principalmente sessuale, viste le manifeste carenze di Rein. Riguardo a tale precisazione, il pubblico ministero pose una serie di domande piuttosto insinuanti e riuscì a mettere in difficoltà soprattutto Mariam Kadhar; fui testimone di come la benevolenza si spegnesse sulle facce di buona parte del pubblico mentre lei cercava di spiegarsi, e come severe rughe di disapprovazione apparissero fra le narici e gli angoli della bocca di un paio delle donne della giuria ogni volta che la guardavano. Alla domanda sul perché non avesse messo al corrente Rein della cosa, Mariam Kadhar proruppe in una risata e mostrò con un semplice movimento della testa che cosa pensasse delle idee del pubblico ministero in proposito.

Nemmeno questo fece una buona impressione.

Per quanto concerneva i fatti, Otto Gerlach si trovava al Giardino dei ciliegi – come già stabilito in precedenza – alle sette di sera del 19 novembre. Avrebbe dovuto accompagnarlo – o almeno così sosteneva – Helmut Rühdegger, un redattore della casa editrice, che però aveva avuto un contrattempo, di un genere che nessuno fu in grado di precisare. Ricordo che questo dettaglio mi irritò; sarebbe stato facilissimo verificare l’informazione interrogando lo stesso Rühdegger, ma evidentemente né l’accusa né la difesa si erano preoccupate di farlo.

Comunque sia, i tre avevano mangiato e bevuto insieme nel giardino della villa. Germund Rein era di pessimo umore, quella miscela quasi puberale di megalomania e latente disprezzo di sé, non così insolita presso scrittori e altri creativi (secondo Otto Gerlach, che chiaramente riteneva di sapere di cosa stesse parlando). Che Rein avesse avuto qualche sospetto sulla moglie e sul suo editore, né l’uno né l’altra l’avevano però minimamente intuito. Né in quella fatale occasione né in precedenza, nel corso dell’autunno. Devo dire che non capivo fino in fondo la loro ostinazione su questo punto. Era evidente – almeno all’epoca del processo – che Rein nutrisse sospetti ben fondati, e il loro prendere le distanze sembrava senza senso. Sia allora in aula, sia in seguito. Entrambi negavano categoricamente che il cattivo umore dello scrittore quella sera fosse in qualche modo legato alla loro relazione segreta.

Verso mezzanotte – alle dodici meno un quarto secondo M, alle dodici e cinque secondo G – Rein si era stufato della compagnia. Con una bottiglia di cognac in mano, era salito barcollando al piano di sopra, li aveva mandati entrambi all’inferno e si era chiuso nella sua stanza. Otto Gerlach avrebbe passato lì la notte, ma nonostante ciò, e nonostante l’evidente stato di ubriachezza del padrone di casa, i due, secondo quanto affermavano, non ne avevano approfittato per stare insieme. All’una e mezzo si erano alzati dalle poltrone di pelle per ritirarsi ognuno nella propria camera. Otto Gerlach dichiarò che era rimasto sveglio a leggere, cedendo al sonno in un orario compreso fra le due e un quarto e le due e mezzo. Mariam Kadhar – per propria ammissione – si era addormentata nell’attimo stesso in cui aveva appoggiato la testa sul cuscino.

Questo, a grandi linee, era tutto. Il mattino seguente Otto Gerlach era stato il primo ad alzarsi, qualche minuto dopo le dieci, ma solo un’ora e mezzo più tardi Mariam Kadhar aveva scoperto la lettera nella macchina per scrivere nella stanza di Rein. Prima aveva provato più volte a bussare e a chiamarlo, ma non aveva voluto disturbare il marito se questi voleva essere lasciato in pace, sosteneva. Alla fine era entrata.

La lettera non era certo un segreto. Il pubblico ministero la lesse ad alta voce e chiese se fosse identica a quella trovata nella macchina per scrivere. Sia M che G confermarono che lo era.

Allora l’uomo chiese che cosa pensassero del fatto che non ci fosse una sola impronta digitale di Rein sul foglio, ma nessuno dei due seppe dare una spiegazione soddisfacente, e in entrambi i casi vidi comparire le rughe fra i giurati.

Quanto alle altre lettere – quelle che avevo dissotterrato accanto alla meridiana –, sia Mariam Kadhar sia Otto Gerlach esposero un punto di vista che suscitò parecchie perplessità. Durante il processo come in seguito, nelle analisi dei giornali.

Tutte le lettere erano state scritte con la stessa macchina, era emerso dalla perizia: una piccola Triumph-Adler portatile che apparteneva a Gerlach e che solitamente si trovava nel suo ufficio alla casa editrice, ma che talvolta portava con sé nei suoi viaggi. Il pubblico ministero si domandò un po’ sorpreso come mai non utilizzasse qualcosa di più moderno, ma l’editore rispose semplicemente di aver sempre preferito le vecchie macchine per scrivere ai computer.

Il problema era la quarta lettera. G ammise senza la minima esitazione di essere lui l’autore delle tre non troppo velate dichiarazioni d’amore, ma la quarta – in cui si tracciava a grandi linee il complotto per assassinare Rein – negò recisamente di averla scritta.

Mariam Kadhar dichiarò la stessa cosa. Non aveva mai letto quelle righe prima che gliele mostrasse la polizia; ma se l’avesse fatto, avrebbe subito rotto qualsiasi rapporto con la persona che le aveva scritte, assicurò decisa. La quarta lettera era, come le altre, vagamente datata – fine autunno 199- –, ma poiché il weekend al Giardino dei ciliegi era menzionato come piuttosto imminente, era opinione del pubblico ministero che dovesse essere stata scritta nelle due settimane precedenti la morte di Rein.

Alla sua domanda se esistesse una spiegazione di come la quarta lettera fosse finita fra la biancheria intima di Mariam Kadhar e poi ai piedi della meridiana, nessuno dei due imputati ebbe qualcosa da dire, e forse tornò a loro vantaggio che non avessero cercato di fornire strane teorie o supposizioni. Quanto agli originali e alle copie nel cassettone, Mariam Kadhar spiegò con semplicità di averli gettati via qualche settimana dopo la morte del marito, e il pubblico ministero non sembrò particolarmente interessato a indagare ulteriormente su quel punto.

«Era pratica del Gargantua?» domandò invece.

Il Gargantua era la barca di Rein.

«Certo» rispose Mariam Kadhar senza apparente preoccupazione.

«Naturalmente» rispose Otto Gerlach un’ora dopo. «Era un comune fuoribordo. Niente di particolare.»

«Grazie» disse il pubblico ministero.

In entrambi i casi.

Senza dubbio non ero l’unico ad avere l’impressione che tutto fosse già deciso quando Mariam Kadhar lasciò a capo chino il banco dei testimoni. L’ultima singolare circostanza che il pubblico ministero aveva affrontato era di carattere economico, e che avesse messo di cattivo umore la donna era piuttosto evidente.

Nelle settimane che precedettero la sera fatale, Mariam Kadhar aveva fatto due ingenti prelievi da uno dei conti in banca di Rein, su cui aveva diritto di disposizione.

Centomila gulden il 7 novembre e centodiecimila otto giorni dopo. Alla domanda diretta su come quelle cifre dovessero essere utilizzate, Mariam rispose che Rein le aveva chiesto di prelevarle, ma lei non aveva idea di cosa volesse farne.

«Le capitava spesso di prelevare somme del genere per conto di suo marito?» chiese il pubblico ministero.

«No.»

«Mai?»

«È successo forse una volta.»

«Senza che lei sapesse a cosa gli servisse il denaro?»

«Sì.»

«E per cosa crede che lo abbia usato, questa volta?»

«Non ne ho idea.»

«Non glielo ha chiesto?»

«Certo.»

«E?»

«Non mi ha risposto.»

«E non lo ha trovato strano?»

Lei esitò un po’.

«Forse. Ma mio marito era una persona strana.»

«Non ne dubito. Comunque sia, non siamo nemmeno riusciti a stabilire se abbia usato quel denaro. Lei che ne pensa?»

Mariam si strinse nelle spalle.

«Non saprei.»

«Qualche idea?»

«No.»

Il pubblico ministero fece una pausa per dare spazio alla domanda successiva.

«Per caso ha tenuto il denaro per sé?»

«Naturalmente no.»

«In nessuna di quelle occasioni?»

«No.»

«Può dimostrare di aver consegnato il denaro a suo marito?»

Lei ci pensò un attimo.

«No.»

E, se ben ricordo, fu dopo questa semplice constatazione che le fu consentito di lasciare il banco dei testimoni.

Uscii dal tribunale in preda a un certo sfinimento. Ma anche con la sensazione che fosse finita; una sorta di amaro sollievo, più o meno come dopo una seduta dal dentista.

Tale sensazione non svanì nei giorni successivi. Girovagavo per la città senza meta né fretta; sedevo nei parchi e nei caffè a leggere e a osservare la gente, e mi concedevo di godere con relativa spensieratezza del bel cielo limpido e del sole. Il tempo sembrava essersi di nuovo assottigliato; non potevo fare a meno di notare che, di nuovo, mi trovavo in una fase di vuoto e trasparenza. Una sala d’attesa con un treno in ritardo. Lessi sui giornali le diverse ipotesi che venivano fatte in vista della sentenza e gli sviluppi della questione sui diritti d’autore del libro, ma ero abbastanza indifferente a tutto ciò. Capivo che il mio ruolo era finito, e che ormai potevo starmene al Gambrinus o al Mefisto o al Vlissingen ad assistere allo spettacolo con i sopraccigli alzati come chiunque altro.

In quel periodo non bevevo nemmeno molto. La sera andavo nei bar, ma il più delle volte tornavo a casa da Beatrice molto prima di mezzanotte, e quando Janis Hoorne chiamò per invitarmi ad andare con lui al mare, lo ringraziai ma dissi che preferivo rimandare a un’altra occasione. Credo che ci fossimo accordati per l’inizio di giugno; all’epoca non avrei saputo dire se giugno sarebbe mai arrivato, quell’anno.

Naturalmente sapevo che quella temporanea fase di depressione e distaccato riposo non sarebbe durata in eterno. Al contrario, era piuttosto evidente che si trattava solo di un periodo di vuoto necessario in vista di ciò che sarebbe accaduto. Della successiva, ottusa convergenza di meteoriti nell’ordito del tempo.

Il vuoto fu colmato – com’era prevedibile – un fine settimana di metà maggio.

Il venerdì fu emessa la sentenza del caso Rein. Lo appresi alla radio durante uno dei notiziari del mattino, così com’era successo per l’arresto. La finestra che dava sulla strada era spalancata, ricordo, e mentre lo speaker leggeva lentamente il breve comunicato, mi sembrò che la città trattenesse il respiro. Almeno per qualche secondo, e fu un’esperienza a dir poco singolare. Posso ancora richiamarla alla mente senza nessuna difficoltà.

Mariam Kadhar, colpevole.

Otto Gerlach, colpevole.

Omicidio di primo grado.

Oltre ogni ragionevole dubbio. Giuria unanime. Pena non ancora stabilita, ma con ogni probabilità il massimo. Dodici anni per entrambi.

Nessuna circostanza attenuante. Stesso grado di colpevolezza per tutti e due. Nessuna compassione.

Spensi la radio, e la città irruppe di nuovo dalla finestra.

Grossomodo ventiquattr’ore dopo – nella mattinata di sabato – telefonò Kerr per informarmi che le vendite del libro erano stimate intorno alle quarantacinquemila copie, e che la seconda edizione (cinquantamila copie) era già pronta. Mi chiese se mi occorresse del denaro, e io accettai un altro piccolo anticipo.

Quella sera mi ubriacai. Seguii una donna nel suo appartamento in Max Willemstraat, ma credo che né io né lei traemmo grande godimento dal nostro squallido amplesso sul pavimento del soggiorno.

In ogni caso, non lei.

Domenica 16 maggio Haarmann mi informò che Elmer van der Leuwe sarebbe atterrato a S-haufen quella sera, e che aveva intenzione di riprendere le indagini.

Sempre che fossi ancora intenzionato a trovare la mia consorte scomparsa.

Dissi che lo ero e chiusi la comunicazione. Mi alzai, andai in cucina e presi due compresse per il forte mal di testa che mi era venuto. Con un certo stupore, notai poi che stava piovendo – una quieta e tiepida pioggia primaverile – e che appena dentro la porta aperta del balcone si andava allargando una chiazza bagnata.