David Goschmann è una persona cupa, ma i suoi occhi sono di un azzurro così intenso che sembra quasi traboccare.

«Per quanto riguarda i ruoli femminili, proveremo solo per Cordelia» dice. «Informerò la prescelta domani mattina. Entro mezzogiorno al più tardi.»

Annuisco.

«Ricordati che tu, come tutte le altre, sei esposta a una forte dose di arbitrarietà.»

«Quante sono le altre?»

«Quattro. Le interessate ai ruoli di Goneril e Regan verranno qui domani sera.»

«Capisco» dico io.

«Eventualmente potremmo affidare a una donna anche il ruolo del matto. Lo sai, vero, che Cordelia è assente per gran parte della pièce?»

«Certo.»

«Dunque hai interpretato il ruolo di Maša nelle Tre sorelle

«Sì, esatto.»

«Ti è piaciuto il suo personaggio?»

«Ammetto che mi è piaciuto molto. Sia il personaggio sia il ruolo.»

«Ho fatto un bel po’ di Čechov» dice David Gosch-
mann. «Vorrei farne di più, ma non ci sono molti pezzi e qualcosa bisogna pur tenere da parte per la vecchiaia.»

Sorride, e l’azzurro s’illumina. Avrà al massimo trent’anni.

«Con chi reciterò?» chiedo guardandomi intorno. Nel locale ci siamo soltanto io e Goschmann.

«Rotten…? Come si chiama?»

«Rottenbühle?»

«Rottenbühle, sì. Avresti preferito qualcun altro?»

«No, no. Spero solo di evitarlo se si dovesse fare sul serio.»

Lui ride e promette che col tempo ci saranno altri attori.

«Vuoi provare a concentrarti un momento, prima? A quanto pare Rottenbühle è un po’ in ritardo.»

«Grazie, volentieri.»

«Hai un bell’aspetto.»

«Grazie.»

«Pensi di andare avanti, poi?»

«Con il teatro?»

«Sì.»

Mi stringo nelle spalle. Me ne pento, ma non è possibile cancellare un’alzata di spalle.

«Forse» dico. «Sì, non è escluso.»

«Ti darò un paio di nomi» dice Goschmann. «Buone scuole. Se sei interessata.»

«Grazie, volentieri. Lo sono, davvero.»

La porta si spalanca, e Rottenbühle fa il suo ingresso. È molto raffreddato ed esordisce starnutendo tre volte.

«Scusate. Sono un po’ in ritardo.»

«Ci mancherebbe» dice Goschmann con un sorriso. «Cordelia desidera concentrarsi un attimo o possiamo cominciare subito?»

«Per quanto mi riguarda possiamo cominciare subito» dico io.

Ho capito cosa distingue Goschmann.

Presenza. Quando entra in una stanza, si spalanca un campo energetico. L’energia aumenta in modo palpabile; mi sento considerata e intelligente. E importante; non ho mai provato niente del genere e capisco subito di cosa si tratta.

Goschmann è seduto discretamente in sala, in settima o ottava fila. Io recito con il raffreddato Rottenbühle, è vero, ma recito anche per Goschmann. Si tratta della consueta interazione indiretta, ma anche di qualcosa di nuovo e mai sperimentato. È una sensazione strana, non riesco a stabilire se in senso positivo o negativo. Se rafforzi o indebolisca la mia espressività.

Recitiamo per meno di mezz’ora. Ripetiamo le scene solo due volte; Goschmann non fa commenti, ma so che registra ogni millimetro del mio corpo e ogni mio respiro. Quando esco dal Keller Teater, dove stiamo sempre e dove si è tenuta l’audizione, sono esausta e quasi stordita, come dopo un grande sforzo fisico.

Come se avessi fatto l’amore per due ore, una cosa che non mi è mai capitata nei miei ventun anni di vita.

Mi siedo a un tavolo del Café Adler, proprio dietro l’angolo, e ordino una bistecca e una birra. Penso di aver incontrato per la prima volta un uomo che m’interessa sul serio.

Un uomo alla mia altezza.

Più tardi quella sera – è un ventoso sabato di febbraio, senza alcun sintomo di primavera nell’aria – succede qualcosa che non posso interpretare altro che come un buon segno.

Il mio piccolo monolocale, dove abito ormai da circa sei mesi, si trova all’ultimo piano di un vecchio edificio in Geigers Steeg. Quinto piano senza ascensore; è poco più di un bugigattolo, ma il tetto spiovente e le forme irregolari hanno il loro fascino, e in questa fase della mia vita non mi serve altro spazio.

Sul mio piano abita anche un’anziana coppia, i signori Linkoweis. Hanno più o meno settantacinque anni e sono un po’ acciaccati, lui più di lei. La signora Linkoweis fa su e giù per le scale almeno una volta al giorno, va in piazza a fare la spesa, che poi le viene consegnata da un fattorino. A volte faccio io la spesa per loro, ma solo in casi eccezionali, poiché preferiscono cavarsela da soli. Il signor Linkoweis, che porta l’insolito nome di Sigisbard, esce di casa al massimo ogni tre o quattro giorni. Con il cattivo tempo non ha motivo di mettere il naso fuori, e quando il tempo è bello si accontenta di starsene sul balconcino che dà sul cortile e che riesco a vedere dalla minuscola finestra della mia minuscola cucina.

Quel sabato, quando torno a casa dopo la bistecca all’Adler e un paio d’ore di studio infruttuoso in biblioteca, davanti alla mia porta mi imbatto nella signora Linkoweis che è in compagnia del custode dello stabile, il signor Bloeme. La donna sembra sul punto di svenire, è bianca come un lenzuolo e ha la bava alla bocca, e dalle sue labbra non esce un suono. La porta del suo appartamento è aperta; il signor Bloeme mi spiega la situazione.

«Il signor Linkoweis è impazzito» dice, con il respiro affannoso.

Il signor Bloeme fuma cinquanta sigarette al giorno e sale raramente ai piani alti dell’edificio.

«Non starà dicendo sul serio» replico.

«Altroché» sibila Bloeme. «È sul balcone e vuole saltare giù.»

Con un indice tremante e giallo di nicotina indica l’interno dell’appartamento dei Linkoweis. La donna smette di sbavare, mi afferra un braccio e comincia a gemere.

«La prego» mi implora. «La prego.»

Scuoto la testa incredula.

«Ha scavalcato la balaustra» spiega Bloeme. «Se ne sta appeso lì fuori tenendosi con una mano. Se ci avviciniamo o telefoniamo per chiedere aiuto, molla la presa!»

«Come fate a saperlo?» domando.

«L’ha detto lui.»

«Da quanto tempo è lì fuori?»

«Una decina di minuti» dice Bloeme. «Io sono appena salito. Simone è venuta a chiamarmi.»

Non sapevo che la signora Linkoweis si chiamasse Simone. Lei annuisce mentre mi conficca le unghie nel braccio. Sigisbard e Simone? penso io.

«La prego» ripete.

«Che cosa pensate di fare?» chiedo.

Bloeme gironzola nervosamente, tastandosi le tasche alla ricerca delle sigarette. Ne ha una dietro l’orecchio, ma sembra non esserne consapevole.

«Non lo so» dice. «Che diavolo possiamo fare? Proprio oggi doveva succedere, accidenti.»

Simone Linkoweis scoppia a piangere. Mi chiedo che cosa abbia voluto dire il signor Bloeme con «proprio oggi». Magari è il suo compleanno, o qualcosa del genere.

«Credete che faccia sul serio?» domando. «Magari…»

«Fa sul serio» ribatte Bloeme, interrompendomi. «Non c’è dubbio. Ha settantacinque anni, per la miseria!»

Non capisco cosa abbia a che vedere l’età con la serietà del proposito, ma non mi interessa appurarlo.

«Devo andare da lui?» suggerisco invece. «Volete che…?»

Simone Linkoweis mi fissa da vicino con un’espressione a metà fra impotenza e preghiera disperata. Allento con delicatezza la sua stretta intorno al mio braccio.

«Rimanete qui» dico. «Vado a controllare.»

«Non si avvicini troppo» suggerisce Bloeme. «Altrimenti si butta!»

Annuisco e oltrepasso con circospezione la soglia. Entro nell’ingresso, da dove però non si vede il balcone. Proseguo a destra verso il soggiorno, che è così ingombro di mobili e arredi che quasi non ci si può muovere, e intravedo il signor Linkoweis dalla porta aperta del balcone.

È davvero nella posizione descritta da Bloeme. La ringhiera a grata dipinta di nero è alta non più di settanta, ottanta centimetri, scavalcarla non dev’essere stato troppo difficile, nemmeno per un uomo irrigidito come Sigisbard Linkoweis. Lo vedo di profilo, concentrato sul cortile sotto di lui. Saranno almeno una decina di metri, e il cortile è pavimentato di ciottoli irregolari. Senza dubbio si ammazzerebbe, se mollasse la presa.

Si tiene aggrappato con una mano sola alla ringhiera, sporgendosi un po’.

Mi fermo in mezzo alla stanza, indecisa. Non si è ancora accorto della mia presenza, ci separano all’incirca cinque metri. Se mi avvicinassi di scatto le conseguenze potrebbero essere fatali, tanto più che fra me e lui ci sono una sedia a dondolo e un tavolo.

Lo osservo. Indossa un paio di pantaloni grigi e un cardigan leggero marrone. Se è fuori da dieci minuti, probabilmente sta congelando. La temperatura sarà di pochi gradi sopra lo zero.

«Traditori!» grida all’improvviso con voce tonante, e mi rendo conto che si sta rivolgendo a qualcuno là fuori. Faccio un cauto passo di lato e vedo una donna su un balcone dall’altra parte del cortile. Non so come si chiami, ma l’ho incrociata qualche volta e la riconosco. È proprietaria di un bassotto che indossa quasi sempre un cappottino di maglia verde.

«Se chiamate la polizia salto giù!» minaccia Sigisbard Linkoweis. «E allora sarete tutti sterminati! Sono in collegamento con il principe dell’universo!»

Capisco che la valutazione del portinaio Bloeme sulla condizione mentale dell’uomo è grossomodo esatta. Mi avvicino di un altro passo. Arrivo all’altezza della sedia a dondolo.

«Sono stufo di tutti voi!» sbraita Linkoweis. «Stufo marcio! Fra poco salterò e morirete come mosche!»

Tentenno. Per almeno mezzo minuto non succede niente. La mano del signor Linkoweis, che stringe spasmodicamente la ringhiera, è bianca ed esangue. Decido di provare ad avvicinarmi.

«Sono disperato! E non ce la faccio più a essere disperato!»

Giro intorno al tavolo. Adesso sono a non più di tre metri da lui, ma poi urto per sbaglio un piedestallo che regge un’urna. Riesco a prendere al volo l’urna, ma il piedestallo cade sul pavimento con gran fracasso.

«Che diavolo…?»

Lui si volta e mi scopre.

O forse no, perché è senza occhiali. So che ci vede poco, è una delle cose che la signora Linkoweis fa notare spesso.

«Sigisbard ci vede così poco» ripete. «Quasi non riesce più a leggere, un giorno o l’altro diventerà cieco.»

Ma adesso si è accorto che dentro la stanza c’è qualcuno. «Chi è?» sbraita. La sua voce è davvero vigorosa. «Non avvicinarti, altrimenti mollo la presa!»

Percepisco un velo di paura in lui. Rimango inchiodata lì e non so cosa fare. Dietro di me sento che la signora Linkoweis e il signor Bloeme stanno per entrare. Mi inumidisco le labbra e prendo lo slancio.

«Sono solo io, Sigisbard» dico. «Venga qui, e la consolerò.»

All’inizio non reagisce. Rimane inchiodato come me, sempre con la mano stretta alla ringhiera. Percepisco il brusio lontano delle voci all’esterno, forse c’è della gente sugli altri balconi, magari si sono radunati anche nel cortile di sotto.

Passano alcuni secondi.

«Avvicinati un po’, così che possa vederti» mi dice.

Faccio tre passi e mi fermo sulla soglia del balcone. Se allungassi la mano, riuscirei ad afferrarlo, ma non oso.

«Alt!» mi intima. «Non un passo di più. Altrimenti salto!»

Rimango in silenzio.

«Chi sei?» ripete.

«Sono io» dico. «Venga qui.»

Lui esita ancora qualche secondo. Lentamente il suo atteggiamento cambia. Più morbido, più condiscendente. Forse in tutta la sua vita non ha mai sentito nessuno rivolgergli parole come queste. Forse era proprio quello che voleva sentirsi dire. Fa un sospiro profondo, scavalca la ringhiera e lo stringo fra le braccia.

È congelato e scoppia in un pianto convulso.

È difficile vedere tutto questo come qualcosa di diverso da un segno.