Capitolo 11

I minuti trascorsero lentamente nell’attesa. Charlee camminò avanti e indietro finché non le fecero male le gambe. Sapeva che Ian la teneva d’occhio, anche se si teneva a una certa distanza, le lasciava spazio, le dava spazio, ma era lì, pronto a sostenerla se fosse di nuovo crollata. A un certo punto si accoccolò su una sedia con lo schienale rigido nella sala d’aspetto dell’ospedale e si lasciò abbracciare da Ian. In un angolo della stanza, King Edward stava facendo conversazione con un’infermiera che aveva conosciuto nel negozio di articoli per belle arti. Era un’artista principiante perciò Edward le dava dei suggerimenti.

«Sta flirtando» sussurrò Ian a Charlee, indicando i due con un cenno della testa. Charlee fece una risatina. «È lei. King Edward non se ne accorge.»

Quando il medico entrò, si alzarono tutti in piedi. Si avvicinò a Wynona e il resto del gruppo si radunò intorno a loro. «Lei è qui per Arnold Gruber?»

Charlee sentì che Ian le circondava la vita con un braccio. «Sì.»

«Lo stiamo portando in chirurgia. Ha delle ostruzioni all’altezza del cuore. Ha avuto un infarto massivo, ma senza ictus. È diabetico e quindi l’intervento chirurgico potrebbe durare più a lungo della norma.» Il medico fece una pausa per dare tempo al gruppo di assimilare la notizia. Infarto massivo. Intervento chirurgico. Il medico infilò le mani nelle tasche del camice bianco. «Siamo ottimisti, ma l’intervento chirurgico è rischioso.»

«Ha ripreso conoscenza?» Il viso di Wilma era stravolto dalla preoccupazione, ma si fece forza e glielo chiese.

Per un istante il medico abbassò lo sguardo. «Temo di no.»

«Ma lo farà» replicò Wynona implorante. La sua era una domanda, ma anche un’affermazione. «Non sapevo che fosse diabetico.»

«Credo che nemmeno lui lo sapesse. Come dicevo prima, siamo ottimisti.» E questa non fu né una domanda né un’affermazione.

Charlee si sentiva in preda alla frustrazione. «Che cosa significa?»

Il medico fece un lungo respiro. «Esiste un trenta percento di probabilità che lui non sopravviva all’intervento. Inoltre, esiste anche la possibilità che non riprenda conoscenza. Adesso devo occuparmi della burocrazia. Chi è il parente più prossimo?»

Charlee risucchiò l’aria dalla bocca. La figlia del signor Gruber. Non aveva nemmeno pensato a informarla. «Nessuno di noi. Il signor Gruber vive nella mia residenza per artisti.»

Il medico si dondolò sui tacchi. «Oh, quella appena fuori città? Che una volta era un campo estivo per bambini?» Era passato alla chiacchierata informale e concentrava il suo sguardo amichevole su Charlee, che avrebbe voluto manifestare la propria irritazione nei suoi confronti per avere interrotto così bruscamente la conversazione più seria sulla salute del signor Gruber. Charlee immaginò che con un lavoro come il suo, che aveva a che fare con la vita e la morte, lui dovesse per forza indossare una corazza, ma comunque non meritava una risposta.

«So che sua figlia vive a Kansas City. Devo mettermi in contatto con lei. Questo non ritarderà l’intervento, vero?» Charlee non riusciva a credere di essere stata così egoista, così persa nelle proprie paure, da non essersi nemmeno preoccupata di informare la figlia del signor Gruber.

«Certo che no» la rincuorò il medico. «Ditele di venire qui in accettazione appena possibile.»

Charlee si girò per rifugiarsi tra le braccia di Ian. Si aggrappò a lui, mentre il medico ritornava dall’altra parte delle porte bianche che, per così tante persone, significavano speranza o disperazione e a volte entrambe le cose.

Ian le appoggiò la testa sulla sua. Lei rimase ad ascoltare il suo respiro. «Ma come ho potuto non informarla.» Lui le accarezzò la schiena con il palmo della mano. «È stato meglio così. Adesso potrai dirle qualcosa in più.»

Era vero. Ora almeno sapevano. La conoscenza è forza e con la forza si superano i momenti più difficili.

«Ecco, ho qui con me il cellulare di Arnold.» Wynona lo tirò fuori dalla borsetta.

Charlee lo prese e premette il tasto delle chiamate. Chiamate in uscita. Tutte ai numeri di Ian, prima al telefono del bungalow, poi al cellulare. Sentì una lama gelida attraversarle il petto. Si girò a guardare Wynona. «Avevi tentato di chiamarci dopo averlo trovato?»

«Non dal cellulare di Arnold.»

Ian glielo strappò dalle mani e rimase a fissarlo. «Oh no.»

Lei glielo riprese mentre stava per lasciarlo cadere a terra. Ian impallidì. «Aveva cercato di chiamarti?» Lui aveva la bocca spalancata e gli occhi pieni di lacrime. «Non lo sapevo.» Si coprì la bocca con la mano e Charlee concentrò lo sguardo su di lui vedendo che quel soldato, che aveva visto i suoi amici e il padre di Charlee morire sul campo di battaglia, era sul punto di crollare. Le spalle possenti cominciarono a tremare e quando lei pensò che Ian stesse per implodere, lui si allontanò da loro come una furia, e si rifugiò davanti alla finestra, da dove poteva vedere che il mondo fuori continuava a girare, mentre il loro andava in frantumi.

Charlee era in preda a sentimenti contrastanti. Se Ian avesse risposto alla chiamata, sarebbe cambiato qualcosa? Il signor Gruber aveva chiesto aiuto, telefonato… quando e per quale ragione? Charlee pensò ai possibili scenari che lasciavano uno strascico di occasioni perdute, troppo dolorose per essere ignorate. Immaginò il signor Gruber a terra, che faticava a respirare e allungava la mano per usare il cellulare, senza che nessuno gli rispondesse. Immaginò i suoi occhi che si chiudevano, rendendosi conto a poco a poco che non c’era nessuno lì per lui, quando ne avrebbe avuto più bisogno. Charlee sentì che stava per vomitare. Scacciò quelle immagini dalla sua mente. Aveva un compito da svolgere. Doveva mettersi in contatto con la figlia del signor Gruber. Ma dopo avere esaminato il cellulare, si rese conto che il suo numero non era in rubrica. Gruber aveva in tutto dieci contatti. Il negozio di belle arti, Charlee, Ian, Wilma e Wynona, che condividevano un unico cellulare perché a loro non piaceva usarlo pensando che fosse cancerogeno, King Edward, la pizza a domicilio e i telefoni fissi dei quattro bungalow. Tutto qui.

«Ma come può essere che non ci sia il numero di sua figlia?»

Wynona fissò il dispositivo come se, così facendo, il numero sarebbe apparso sullo schermo. «Be’, ha il cellulare da poco tempo. Sono sicura che troveremo il numero a casa sua. Andiamo. Può guidare King Edward.»

Charlee considerò se andare con loro o restare lì. Da un lato avrebbe voluto rimanere, per il signor Gruber. Dall’altro, lui sarebbe stato sotto i ferri per ore e Charlee doveva mettersi in contatto con sua figlia. Anche se riluttante, annuì. Poi vide che Ian era ancora alla finestra. Attraversò la stanza per raggiungerlo e gli mise una mano sul braccio.

Lui trasalì e questo la sorprese: Ian non era tipo da spaventarsi facilmente, tranne quando si risvegliava da un incubo. Quando lui si voltò a guardarla, la sua confusione scosse profondamente Charlee. Aveva lo sguardo vuoto e tormentato. Charlee dovette inghiottire la saliva prima di riuscire a parlare. «Wynona e io stiamo andando a casa a cercare il numero di telefono della figlia del signor Gruber. Vieni con noi?»

Ma si pentì subito di averlo detto. L’ultima cosa al mondo che voleva era che Ian guidasse la moto in quello stato. Sarebbe potuto bastare un soffio di vento per mandarlo fuori strada. Lui impiegò qualche secondo per risponderle e nel frattempo guardava prima lei e poi la porta, come se stesse cercando di capire ma senza riuscirci. «Lui ha chiamato me, Charlee, e io non gli ho risposto.»

Lei gli afferrò le braccia. «Non è colpa tua, Ian. Non potevi sapere che c’era qualcosa che non andava.»

«Lui aveva bisogno di me.»

«Ian, non puoi prendertela con te stesso.» Rafforzò la presa, perché sperava che stringendogli le braccia gli avrebbe trasmesso un po’ di forza. «Non potevamo sapere.»

La sua reazione non fu un vero e proprio cenno di assenso, ma piuttosto un leggero spasmo che diceva che aveva capito… forse non le credeva, ma almeno capiva. «Io rimango qui. Non si sa mai.» Charlee annuì. «Torniamo subito. Non staremo via troppo a lungo.»

Charlee si alzò in punta di piedi e avvicinò il viso di Ian al suo. Lui la lasciò fare, ma per la prima volta da quando si erano conosciuti, quando lei gli premette le labbra sulle sue lui non ebbe alcuna reazione. La sua bocca restò immobile e non si mosse, neppure quando lei la sfiorò con la sua. Charlee si allontanò, dandogli una rapida occhiata e chiedendosi fino a che punto gli avvenimenti di quella sera lo avrebbero potuto cambiare. Ian non era più il soldato tornato in patria e pronto a cominciare una nuova vita. Ian era il combattente sopravvissuto mentre altri non erano riusciti a farlo e questo gli dava la capacità di mantenere un insolito distacco, che lei non era sicura di poter scalfire.

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«Qui nemmeno.» Wynona lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Avevano frugato tra le cose del signor Gruber e alla fine avevano trovato una vecchia bolletta telefonica, ma sulla bolletta c’erano soltanto poche chiamate interurbane. «Sarà per forza una di queste, giusto?»

Wynona annuì e si cacciò indietro i capelli. «Sì. Proprio l’altra sera mi diceva che la sente tutte le settimane. Sai qual è il prefisso di Kansas City?»

Charlee si strinse nelle spalle. «Ecco, possiamo cercarlo sul suo computer. Troviamo il prefisso e restringiamo il campo dei numeri che ha chiamato.»

Wynona andò alla scrivania e mosse il mouse. «Aspetta, lui è su Facebook. Oh, ecco la pagina di Ashley.»

Charlee attraversò la stanza e sbirciò sopra la spalla di Wynona. Sullo schermo una donna bellissima, con gli stessi occhi del signor Gruber, teneva in braccio una bimba paffuta. Charlee stava per distruggere il loro mondo e odiava doverlo fare. «C’è un numero di telefono tra le sue informazioni di contatto?»

Wynona cliccava sulle pagine come una vera esperta. «No. Lavora da Bradley and Baker, nel centro commerciale. Forse dovremmo chiamarla lì?»

«È sabato. Anche se è meglio provare. Insomma, non abbiamo alternative, a questo punto.» Prima di chiamare, verificarono i numeri sulla bolletta, ma nessuno aveva il prefisso di Kansas City.

Charlee chiamò Bradley and Baker e trovò la segreteria telefonica. Spiegò che si trattava di un’emergenza e chiedeva di informare Ashley che riguardava suo padre, e lasciò il suo numero di cellulare.

Wynona era sparita dal soggiorno ed era uscita dalla camera da letto come se avesse visto un fantasma. Aveva in mano la vestaglia preferita del signor Gruber e quasi vi inciampò mentre usciva dalla stanza.

Charlee corse verso di lei. «Wynona, cosa succede?» Lei non rispose, ma indicò la camera da letto.

Charlee fu assalita dalla paura ma non aveva scelta, così entrò. Lì, su un cavalletto di fianco al letto, vide un ritratto di Wynona. Charlee ebbe un tuffo al cuore. Un raggio di luce abbagliante avvolgeva la donna silenziosa. Aveva la testa reclinata all’indietro e i suoi lunghi capelli bianchi le formavano un mantello setoso sulle spalle, mentre la brezza notturna, che si riusciva quasi a percepire realmente, le appiccicava il lungo abito sulle gambe. Era stupenda. Da togliere il fiato, quasi ultraterrena. La posizione del capo permetteva a un raggio di luce di raggiungere l’ombra morbida di un occhio, e in questo modo sembrava che la luce non fosse intorno a lei, ma che piuttosto fosse lei a emanarla. Era un capolavoro, diverso da tutti gli altri.

«Oh, Wynona, è incredibile.»

La donna, che soltanto un momento prima era sembrata incapace di ogni reazione, sembrò andare in mille pezzi. Sollevò le mani per asciugarsi le lacrime che le scendevano copiose dagli occhi e le bagnavano il viso, e a un tratto Charlee capì. «Deve volerti molto bene.» Perché questo genere di dipinto non era solo colore su una tela, pennellate e studio. Questo genere di dipinto poteva trarre ispirazione soltanto dal più puro e dal più profondo sentimento d’amore.

Con gli occhi svuotati Wynona fissò Charlee. «Io non… io non voglio perderlo.» E poi il pianto sommesso si trasformò in singhiozzi, e Charlee avvolse l’amica in un abbraccio e lei si lasciò andare.