Capitolo 3

«Bello il tuo pick-up» le disse Ian mentre saliva su un Chevy Silverado della fine degli anni ’80. Aveva già caricato lo scaldabagno sul pianale del furgone e lo aveva fermato con un blocco di cemento per evitare che rotolasse avanti e indietro durante il tragitto. Erano le tre del pomeriggio e il sole sulle loro teste sembrava una palla di fuoco spietata.

«Grazie» disse Charlee. «Scusa, l’aria condizionata non c’è.»

«Quella del finestrino va benissimo.» La vide inserire la retromarcia per uscire dal garage, che si trovava alle spalle della piazza principale. Ian premette il pulsante per abbassare il finestrino. Poi lo sguardo gli cadde sulle gambe di Charlee. C’era qualcosa di inspiegabilmente sexy in una ragazza carina che guida un pick-up con il cambio manuale.

«Ho telefonato al negozio di ferramenta. Hanno lo stesso modello di scaldabagno.» Charlee indicava con il pollice il retro del pick-up.

«Mi dispiace, non si poteva riparare.»

«Eh, l’avevo immaginato.» Si passò una mano tra i riccioli che si attaccavano alle guance mentre il veicolo prendeva velocità sulla strada sterrata, poi accese la radio su una stazione di musica country e la voce di Jason Aldean invase la cabina.

«E allora» esordì Charlee sorridendogli, «che progetti hai dopo l’estate?»

Lui si strofinò le mani sui pantaloni. Non era quello il vero problema? «Mia sorella vuole presentarmi a qualcuno che forse ha bisogno di un capocantiere per la sua impresa di costruzioni.»

Quando furono in prossimità della strada principale, Charlee accelerò facendo schizzare la ghiaia dappertutto e quando le gomme maggiorate del pick-up toccarono l’asfalto produssero un forte stridio. «Perché aspettare? Perché non trovi il modo di presentarti subito?»

Per te. E invece le disse: «Il tizio non può assumere prima di un paio di mesi. Mia sorella sta per sposarsi e io andrò al suo matrimonio e siccome quel tipo è anche un cugino del suo fidanzato, lei ha pensato che quella sarebbe l’occasione ideale per presentarmelo». Inoltre, Ian aveva una missione e non sapeva di preciso quanto tempo ci sarebbe voluto. Era stato lui a dire a sua sorella che non avrebbe potuto incontrare quel tale prima del suo matrimonio in agosto. Così avrebbe avuto diverse settimane per portarla a termine.

«Mi pare che abbia senso. Una presentazione diretta. Forse ti garantirà la precedenza su altri candidati.» Sollevò le sopracciglia con un rapido movimento e accennò un sorriso. «Jeremiah, lo hai incontrato in Afghanistan?»

Oh no, stava correndo il rischio di impantanarsi in una conversazione sgradevole. Doveva trovare il modo di evitare troppe domande sull’argomento, almeno per un po’. «Be’, io ci sono stato per due anni. Ti ha mai raccontato del territorio?»

Lei alzò lo sguardo. «Delle montagne? Del fatto che non è tutta sabbia, come crede la gente?»

«Esatto. Alcune zone sono veramente belle. Un po’ come a casa mia, ma tropicali.»

«Dov’è casa tua?» Teneva il gomito fuori dal finestrino.

«Oklahoma.»

«Oh, non lontano da qui.» Raggiunsero la città e Charlee entrò nel negozio, mentre Ian aiutava i commessi a caricare lo scaldabagno nuovo. Charlee uscì con le braccia cariche: con una mano reggeva due piante in vaso e con l’altra la ricevuta. Il profumo delle foglie riempì le narici di Ian mentre si avvicinava per aiutarla. Per la prima volta da quando si erano conosciuti, lei gli passò tutto quanto senza protestare. Un largo sorriso gli illuminò il volto. «Ehi, credo che tu ti stia abituando a me.»

Lei aggrottò le sopracciglia, facendole sparire sotto gli occhiali da sole tempestati di brillantini, poi salì sul pick-up.

Poco dopo essere partiti, rallentò. «Ti piace il gelato?»

«Certo.» A chi non piace il gelato?

Indicò un chiosco a forma di cono, proprio di fianco alla strada.

«Ti va di fermarti?»

«Come no.»

Charlee imboccò la stradina di ghiaia e saltò giù dal pick-up. Lui la seguì verso il bancone, dando appena un’occhiata ai gusti presenti.

All’improvviso lei si girò a guardarlo.

«Non dirlo.»

Ian inarcò le sopracciglia. «Come, scusa?»

Lei sbuffò. «Quando torniamo non devi raccontarlo a nessuno. Promettilo.»

«Ah.» Ma poi, che cosa c’era da raccontare? Era una donna adulta. Doveva davvero chiedere il permesso per mangiare un gelato? Questa cosa cominciava a prendere una piega davvero strana. «Perché?»

Dal suo sguardo si capiva che le pesasse dare spiegazioni. «Perché questa sera King Edward è di turno in cucina e gli altri e io siamo d’accordo di non mangiare nulla prima di cena. Dobbiamo condividere la sofferenza insieme.»

Divertito da queste parole, Ian si chinò versò di lei. «Ma tu avevi detto che avrei adorato la cucina di King Edward.»

Charlee sventolò una mano in aria. «E va bene, diciamolo. A nessuno piace quello che cucina. È un vero schifo.»

«Ah, ma allora sei una bugiarda?» la prese in giro.

«No.» Sbatté le palpebre con aria innocente. «Preferisco pensare di essere una persona che non applica la legge alla lettera, pur rispettandone lo spirito.»

Lui si avvicinò ancora di più, mettendo il viso a pochi centimetri dal suo. A vederli così, sembravano due innamorati intenti a litigare su quale frappè scegliere.

Il linguaggio del corpo riusciva a comunicare molte cose e lui, mentre era nell’esercito, aveva imparato a leggerlo. Charlee non si ritraeva mai e, secondo lui, era perché le mancava il gene della fuga. In lei esisteva solo quello dell’attacco. Probabilmente non avrebbe nemmeno avuto il buonsenso di tenersi alla larga da un serpente a sonagli inferocito. «Credo proprio che, con me, il tuo segreto sarà al sicuro. Ma tutto ha un prezzo.»

Una folata di vento le scompigliò i capelli, che finirono in faccia a Ian. Lui controllò l’impulso di respirarne il profumo.

«Quanto? Un gelato con caramello caldo non può certo valere più di tanto.»

«Ci penso e ti faccio sapere. O meglio, ti farò sapere quando e come potrai ripagarmi.» Quel pizzico di malizia che Ian aveva messo nelle sue parole non era stato intenzionale, ma sapeva di averlo fatto perché lo leggeva negli occhi di Charlee, occhi che per un attimo si rabbuiarono, per poi riprendere il colore di una piscina al tramonto.

Ian andò a ordinare al bancone. Il tizio che serviva indossava una camicia a righe bianche e rosse e un cappellino. Piegò il lungo collo per vedere chi c’era dietro a Ian, praticamente ignorandolo. «Ciao, Charlee.»

Lei si mise di fianco a Ian, sfiorandogli il braccio con il suo. «Ciao, Rodney.» Il suo tono era dolce. «Come stai?»

Non appena lei pronunciò il suo nome, un rossore gli si diffuse sul collo, per concentrarsi poi sulle guance. «Ma sì, tutto bene.»

Ian teneva d’occhio la situazione e vide che lei gli faceva un enorme sorriso. «Non mi abbracci?»

Rodney si asciugò le mani e girò intorno al bancone per stringere Charlee in un abbraccio che durò forse un po’ più a lungo di quanto Ian avrebbe desiderato.

Quando Rodney finalmente la lasciò andare, lei lo squadrò attentamente dalla testa ai piedi e Ian dovette deglutire un paio di volte, come se qualcosa gli fosse andato di traverso. Sentì una vampata di calore e così si rese conto che non gli piaceva per niente che Charlee fosse così amichevole con gli altri uomini, visto che con lui riusciva a malapena a essere tollerante.

Charlee prese fra le mani il viso di quel tizio, alto e secco. «Hai un ottimo aspetto, Rodney. Hai messo su un po’ di peso, vero?»

«Non abbastanza. Chi è il tuo amico?» Rodney sembrava interessato, ma tornò dietro il bancone.

Charlee mise una mano sulla spalla di Ian. «Lui è Ian Carlisle. Lavorerà per me questa estate. È appena rientrato dall’Afghanistan.»

A giudicare dall’espressione accigliata del tizio con la divisa a righe, probabilmente non gradiva che Ian e Charlee avrebbero trascorso insieme l’intera estate. Ian gli tese la mano, attraverso il divisorio di vetro. «Piacere, Rodney.»

Rodney osservò per qualche secondo la mano che gli veniva tesa, poi sollevò lentamente la propria. Ian gli diede una stretta decisa, segno di reciproco rispetto.

«Piacere mio, Ian.» Lo disse come se fosse una domanda.

Cavoli, era stato via soltanto due anni. Non si usava più stringere la mano? Rodney rivolse la sua attenzione a Charlee. «Il solito?»

Lei annuì.

Ian le diede un’occhiata e per un brevissimo istante gli sembrò un appuntamento. Si sforzò di allontanare l’idea dalla mente. «Che cos’è il solito?»

«Caramello caldo, banana e marshmallow, con l’aggiunta di panna montata.»

«Bleah. Davvero?»

Lei gli lanciò un’occhiata di sfida.

Ian tornò a rivolgersi a Rodney. «Per me solo un gelato al caramello caldo, con noci pecan.»

Mentre aspettavano, Charlee si mise a tamburellare le dita sul bancone.

Rodney tornò con l’intruglio per lei e un classico gelato al caramello caldo per Ian. Li porse entrambi attraverso il divisorio di vetro. «Offre la casa.»

Ian aveva già estratto dal portafoglio una banconota da venti dollari e la teneva a mezz’aria. Rodney la indicò con un cenno del capo. «Davvero. Offre la casa. Grazie per avere servito il nostro Paese.»

Ian avrebbe voluto protestare, ma che cosa poteva ribattere? Lentamente ripose la banconota nel portafoglio. «Grazie. Molte grazie.»

Non si trattava solo di farsi offrire qualche dollaro di gelato. Era un gesto che dimostrava che la gente comune ricorda ed è consapevole del fatto che ogni giorno giovani soldati rischiano le proprie vite in terra straniera, rinunciando all’affetto della propria famiglia.

Mentre si allontanavano per andare a sedersi a un tavolo da picnic, Charlee gli diede una pacca sulla spalla. «Un gesto carino, vero?»

Ian per poco non soffocò. «Già. Mi sembra un bravo ragazzo.» No, non stava cercando di indagare, certo che no; non stava proprio cercando di stabilire che tipo di rapporto avessero questo tizio e Charlee.

«È un buon amico. Lo conosco da una vita.» Charlee scivolò sulla panca di fronte a Ian e affondò i denti nel gelato. «Mmmh.» Chiuse gli occhi e Ian ne fu contento, perché quella specie di bisbiglio gli si era insinuato nel ventre e stava puntando sempre più verso il basso.

Charlee aprì gli occhi e poi gli fece l’occhiolino. «Non credo che tu gli sia piaciuto, all’inizio.»

«Credo che non gli sia piaciuto che io fossi con te

«In che senso?» Affondò nuovamente il cucchiaio nella panna montata.

«Ha una cotta per te, Charlee.»

Lei puntò il cucchiaio verso Ian. «Non dire sciocchezze, non è così.»

Il gelato di Ian si stava sciogliendo così ne prese un gran boccone. «È così senza dubbio.»

Charlee scosse la testa e corrugò la fronte, preoccupata. «No. Non è possibile, cioè lui sa di…»

A quel punto Ian si mise a fissarla. «Sa di che cosa?»

Charlee sembrò persa nei propri pensieri. «Non di che cosa. Di chi. Anzi, sai che cosa ti dico? Non mi va di parlarne.» Si alzò in fretta e furia dal tavolo da picnic per tornare al pick-up.

Ian restò seduto e addentò un altro boccone di gelato. «Come fai a mangiarlo usando la leva del cambio, mentre guidi?»

Lei raddrizzò le spalle e tornò al tavolo. «Non posso.»

Ian sorrise. «Puoi rimetterti seduta, se vuoi.»

Lei si lasciò cadere sulla panca. «Bene, ma per quanto riguarda l’altra cosa, non voglio parlarne.»

Lui alzò le spalle. «Nessuno te lo chiede.»

«Ah» rispose lei. «Meglio così, allora.»

Finirono il gelato mentre Ian si chiedeva per quanto ancora sarebbe riuscito a portare avanti questa cosa, prima di confessarle il vero motivo per cui si trovava lì. Allontanò il pensiero dalla mente. Non si trattava di qualcosa che poteva decidere di dirle di punto in bianco. Lo sapeva bene. Gli era stato spiegato chiaramente. Le avrebbe dovuto dare del tempo. Lei aveva bisogno di fidarsi, ma quanto si sarebbe potuta fidare di lui dopo avere saputo la verità? Ian non aveva più voglia di gelato.

Doveva sempre tenere presente che non lo faceva per se stesso. Lo faceva per onorare la parola data. Non contava quello che sarebbe successo a lui. Quello che contava davvero era aiutare Charlee a comprendere e per questo occorreva tempo, ma almeno adesso riusciva a intravedere qualche crepa nel muro di granito che lei si era costruita intorno. Anche se di poco, gli sembrava che quel muro cominciasse a sgretolarsi.

«Tutto bene?» la voce di Charlee era morbida e tenera.

«Scusa. Mi sono perso nei miei pensieri per qualche secondo.»

Sul labbro aveva una punta di panna. «L’ho notato. Sai, capisco che debba essere piuttosto difficile reinserirsi nella società, dopo essere stato nell’esercito così a lungo.» Leccò la panna che aveva sul labbro e con la punta delle dita ripulì il bordo della coppetta. Ian restò in silenzio. Lo era davvero. Per molte più ragioni di quante potesse spiegare a lei.

«Se mai avessi bisogno di parlare…»

Lui alzò gli occhi e incrociò il suo sguardo. Lasciava trasparire sincerità, la stessa minuscola scintilla che aveva notato quando si erano incontrati per la prima volta e che si era addolcita dopo avere saputo che lui era un soldato. Aveva senso. Charlee aveva quattro fratelli soldati e, per quanto ne sapeva lui, al momento erano tutti in missione e suo padre era morto da eroe. «Grazie.» Fu tutto quello che riuscì a dirle, perché era proprio lei che rendeva così difficile il suo reinserimento. Lei e quel segreto che lui custodiva. Lei e la verità che doveva ancora venire a galla. Lei e il fatto che lui avrebbe dovuto farle cambiare idea su alcune cose, alle quali si era rassegnata da troppo tempo.

Charlee si alzò in piedi. «Torniamo a casa.»

Ian inghiottì la saliva. Lei aveva scelto la parola casa di proposito. La conosceva ormai abbastanza bene da poterlo affermare con certezza. Casa era il porto sicuro. Casa era dove affrontavi i tuoi problemi. Casa era… non era la sua e mai lo sarebbe stata. Ma andava bene così. Ian apprezzò il suo gesto e si dipinse un sorriso sul volto. «Sì. Torniamo a casa.»

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Charlee guardava fuori dalla finestra della cucina che dava sulla piazza. Wynona e Wilma erano intente a sistemare un filo di luci bianche intorno all’ombrellone di uno dei tavoli rotondi. Le nuove luci diffondevano un alone luminoso tutto intorno e a Charlee piaceva molto. Adorava quella piazza e la piattaforma dove i quattro tavoli da giardino fungevano da pilastri della pista da ballo. La pista da ballo era il nome che Wynona aveva attribuito alla spaziosa superficie quadrata, che ricordava davvero una pista da ballo. Ovviamente, da quando lei aveva aperto la residenza, non aveva mai avuto quello scopo. Charlee sorrise nel vedere Wilma e Wynona piazzare altri fili di luci sui vari tavoli. C’erano anche alcune torce di bambù già accese che contribuivano a illuminare lo spazio circostante e a tenere il più possibile lontani insetti e zanzare. Grazie anche alle decorazioni stravaganti di un centinaio di artisti che avevano lasciato il segno del loro passaggio, lo spazio riservato alla cena aveva un che di magico. Questo era il momento della giornata che preferiva, perché le dava modo di ricaricarsi, di rilassarsi e di godere dell’atmosfera con semplicità. Era l’unico momento della giornata in cui si sentiva davvero in sintonia con l’ideale della Residenza per Artisti Marilee, quando riusciva a sentirsi soltanto una fra i tanti artisti, non la proprietaria. Non quella che aggiustava le cose, ritrovava gli oggetti smarriti o metteva fine alle contese.

Dietro di lei, in piedi davanti al lungo bancone di acciaio inossidabile, King Edward era impegnato nella preparazione dei suoi spaghetti al tonno. «Che cosa ne pensi del soldato?» gli chiese girandosi a guardarlo.

Lui fece una smorfia e si strinse nelle spalle.

L’odore che stava invadendo la cucina era leggermente nauseabondo. Charlee si morse l’interno della guancia, pensando al suo nuovo dipendente. «Mi sembra un po’ triste.» Aveva senza dubbio dato prova delle sue capacità con lo scaldabagno e, a volere essere del tutto onesta con se stessa, cosa che aveva già deciso di non volere, la compagnia del giovane le piaceva. Le ricordava i suoi fratelli, anche se Carlisle non era così rigido e le sembrava meno nevrotico. Era facile fare conversazione con lui. Anzi, era persino stata sul punto di raccontargli di Richard. Anche al solo pensiero di quel nome la sensazione di nausea aumentò. Richard, il suo sbaglio più grande. Era entrato nella vita di Charlee e le aveva fatto perdere completamente la testa. Aveva dimostrato interesse per il suo lavoro artistico, per la residenza, per ogni singolo dettaglio della sua vita. Le era sembrato che tutto ciò esercitasse un fascino su Richard. Per una volta, Charlee si era sentita al centro dell’universo per qualcuno. Fino a quando lo aveva beccato al Neon Moon con una rossa. Quella sera aveva capito quali fossero le sue vere intenzioni con lei. La cosa l’aveva distrutta e Charlee non era tipo da riprendersi in fretta.

«Non sono sicuro che il soldato non sia un assassino con l’ascia.»

Charlee fece una risatina, riuscendo così ad allontanare l’agitazione che le aveva procurato il pensiero del tradimento di Richard. Aveva questioni più impellenti su cui riflettere. Carlisle, per esempio. «Be’, non possiamo esserne certi. Ho cercato di sentire in proposito Jeremiah, ma non sono riuscita a mettermi in contatto con lui.»

«Jeremiah è nel North Carolina, vero?»

«Sì. La sua battuta di caccia durerà ancora una settimana e poi tornerà alla base.» Era confortante sapere che almeno uno dei suoi fratelli era sul suolo americano. Già, se soltanto fosse riuscita a riportare a casa anche gli altri tre.

«Nonostante i tuoi dubbi, sono abbastanza certa che Ian non sia un assassino con l’ascia.»

«Finiremo tutti morti, come ragazzini in un film dell’orrore.»

Charlee si girò e si appoggiò al lavandino. «Cerca di non essere così tragico. Ian è un mio dipendente. Una mia responsabilità. Tu non morirai come in un film di Hollywood e, per quanto riguarda chi faccio lavorare nella mia tenuta, non sono affari di mio fratello. Non ho bisogno di sentirlo e di ricevere la sua approvazione.»

«Odio dovertelo fare notare, ma tu questo lo avevi già deciso la prima volta che hai visto Ian.» King Edward si avvicinò, bofonchiando. «Char Char, tesoro. Puoi reggere tu lo scolapasta, dato che stai monopolizzando il lavandino?»

«Certo.» Quando gli spaghetti bollenti finirono nello scolapasta, si sollevò una nuvola di vapore. Tutti quegli spaghetti deliziosi che stavano per fare una fine orribile, affogando nella salsa di pomodoro con il tonno.

Li scolò e li rimise nella pentola. «Ti seguo.»

King Edward assunse il comando. Quando uscirono, furono accolti da un applauso e Charlee non poté fare a meno di passare rapidamente in rassegna con gli occhi il gruppo di persone, cercando in mezzo a loro un certo tuttofare dai capelli scuri. Poi lo vide, dall’altra parte del prato. Si era cambiato i jeans da lavoro e ne indossava un paio puliti, ma scoloriti, che gli avvolgevano le cosce forti e la vita sottile come soffice velluto. Sulle ginocchia erano strappati e questo lo rendeva inspiegabilmente sexy ai suoi occhi mentre lo guardava avvicinarsi. Aveva una canotta nera aderente e Charlee non si accorse di essersi improvvisamente paralizzata finché non sentì la voce di King Edward che le diceva in un orecchio: «Oh, dolcezza, sembri davvero affamata».

Charlee sbatté le palpebre diverse volte e si rese conto di avere il viso in fiamme. Dall’altra parte del prato, Ian si chinò a raccogliere un fiore di tarassaco. Sembrava così a proprio agio, con una mano infilata nei jeans aderenti, mentre con l’altra reggeva il fiore tra indice e pollice. Sembrava davvero a casa, mentre attraversava la proprietà di Charlee, quasi fosse lui il padrone. «Be’, se il nostro soldatino avesse un’andatura meno rilassata, potremmo tutti cominciare a mangiare, prima che si raffreddi.»

King Edward rise di gusto. «Avverto una certa frustrazione sessuale nelle tue parole, Char.» Lei lo trafisse con lo sguardo.

King Edward continuò a parlare, senza fare caso al suo sguardo di disapprovazione. «Non parlerei proprio di andatura rilassata. Direi che ha un’andatura volutamente lenta.»

All’improvviso Charlee vide che tutti i presenti si erano radunati a semicerchio intorno a lei, con lo sguardo rivolto verso Ian Carlisle. Wilma le mise una mano sulla spalla. «Sì, la sua è decisamente un’andatura lenta. Oh, oppure da sfilata.»

Wynona concordava. «Ha un’andatura da sfilata. Non c’è dubbio, e guarda come gli riesce naturale. Mamma mia, se mai avessi incontrato un ballerino così armonioso, avrei potuto conquistare il mondo.»

Charlee sentì il cuore batterle all’impazzata nel petto, ma era come immobilizzata. «Vai e conquista il mondo, mia cara.» Wynona le parlò nuovamente e indicò Ian. «È così che un uomo come quello riesce a farti sentire.»

D’un tratto Charlee fu travolta da un altro genere di emozione. Ricominciò a mettere a fuoco il mondo intorno a lei. Riconosceva quello che provava. Si sentiva forte e inattaccabile.

«Sì. Un uomo come quello può farti sentire così, subito prima di passarti sopra, come uno schiacciasassi.»

Wynona sospirò.

King Edward posò la salsa sul tavolo. «Quello che so è che sarà un’estate rovente.» Charlee sperava di no. Era stanca ed esaurita e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era che il suo equilibrio già precario fosse ulteriormente compromesso. Troppe cose stavano andando male nel suo mondo o, se non proprio male, troppe cose stavano cambiando. La peggiore, ciò che provava per la residenza. Ogni mattina doveva trascinarsi fuori dal letto e affrontare la giornata. E questo non era da lei. La passione si stava trasformando in un peso e in Ian Carlisle, dall’altra parte del prato, vedeva una risposta ma anche un problema. Eppure, delle tante cose che Charlee non sapeva, di una era certa: a Ian serviva del tempo per riabituarsi a vivere nel mondo reale e a tutti quelli che non riuscivano a trovare il proprio posto nella società lei poteva offrire un rifugio e un posto sicuro. Per come la vedeva Charlee, Ian era soltanto un diverso tipo di artista che aveva bisogno di trovare il suo posto.

Nessun problema. In quello lei era brava. Ma doveva anche preservare il suo cuore, aveva un debole per i soldati. Charlee aveva bisogno che lui fosse come i suoi fratelli. O come suo padre. Loro appartenevano a quel genere di uomini che non avrebbero mai approvato il lavoro della sua vita e non lo avrebbero mai nemmeno capito. Erano guerrieri, capi, combattenti, ma dentro non erano vivi, come l’uomo di cui lei aveva bisogno. Non erano artisti, né appassionati e nemmeno spontanei. Erano ordinati e inquadrati e molto presto Ian, con quella sua personalità di tipo A, l’avrebbe fatta impazzire. Certo che sarebbe stato così, e lei sarebbe stata al sicuro. In qualche modo, lui stava già cominciando a farlo.

«Sera.» Ian aveva un sorriso pericoloso. Un po’ storto, con un lato della bocca appena sollevato che lasciava intravedere una fila di denti bianchi sotto quelle sue labbra appetitose.

Charlee bofonchiò un saluto. Quando fece per sedersi, si ritrovò inaspettatamente in braccio a qualcuno, invece che su un sedile di legno. «Oh, scusami Wilma.» Rideva, perché era imbarazzata. Non si era neppure accorta che Wilma fosse lì. Tenendo gli occhi fissi su Ian, che si stava sedendo al tavolo di fronte al suo, Charlee si spostò per andare a occupare il posto di fianco a Wilma. Un suono raschiante richiamò la sua attenzione. Charlee si girò indietro a guardare e vide che Wynona le stava rubando la sedia.

Quando Wilma lanciò un bicchiere vuoto a King Edward, Charlee cominciò a capire. Wilma diede un’occhiataccia a Edward. Lui fece spallucce; lei spalancò gli occhi e gli indicò una delle sedie libere al suo tavolo. Wynona aveva già preso la mano del signor Gruber e lo stava trascinando verso la quarta e ultima sedia libera del tavolo, che Charlee aveva tentato di occupare. Ovviamente Ian era rimasto da solo, seduto sotto uno dei fili di luci e con la fiamma delle torce di bambù che si rifletteva nei suoi occhi scuri.

Pensava che lui sarebbe scoppiato a ridere per quella scenetta. A ridere di lei. Ma non lo fece. Ian Carlisle respirò a fondo e rimase a guardare con la testa all’indietro il cielo trapuntato di stelle, e il cuore di Charlee si sciolse un po’.

Sopra di loro il cielo risplendeva con i suoi infiniti frammenti di diamante. Era stupendo e nelle giuste circostanze avrebbe potuto essere molto romantico, ma quelle non erano le giuste circostanze perché, da quanto lei capiva, per Ian quel cielo voleva dire trovarsi, forse per la prima volta da molto tempo, in un luogo dove poter chiudere gli occhi e riposarsi senza la paura di esser svegliato dai colpi di mortaio, dai combattimenti. Dalla guerra.

Ian stava ritrovando casa. Lei lo sapeva perché era la stessa cosa che suo fratello Isaiah le aveva spiegato quando era tornato la prima volta dall’Iraq. Era rimasto a casa solo un anno e lei era stata così felice di riaverlo in patria finché non lo avevano rispedito in Afghanistan. La gioia di Charlee era durata poco e forse il rientro di suo fratello le aveva causato più dolore che altro. Aveva capito il tormento dei soldati, anche se solo in minima parte.

Quando Ian riaprì gli occhi, nonostante lei avesse cambiato di posto la individuò immediatamente. Lui seduto e lei in piedi, per un brevissimo istante, condivisero qualcosa. Che cosa significava tornare a casa. E sapere che qualcuno lo poteva capire.

Charlee indicò la sedia di fronte alla sua. «Posso?»

Il suo viso s’illuminò. «Se non lo fai mi distruggi.»

Il suo buon umore alleggerì l’atmosfera. Charlee si mise una mano sul fianco. «Io ne dubito.»

Un sorriso malizioso attraversò il viso di Ian. «Comincio a pensare che metterai in dubbio tutto quello che dico.»

«Finché non ti conoscerò meglio, di sicuro.» Si accomodò sulla sedia e finse di non notare che Ian la stava sottoponendo a un esame attento. «Ho imparato che gli uomini non sono le creature più degne di fiducia.» Perché mai lo aveva detto? Charlee si passò le mani fra i capelli, quasi a scacciare da sé il passato e tutti i ricordi che lo accompagnavano.

«Imparato da chi?»

Richard, stava per rispondere, cosa davvero strana perché non voleva mai parlarne con nessuno. «L’ho imparato dai miei fratelli.»

«Ah.»

«Quegli stessi che mi propinavano un cucchiaio di sale aromatizzato dicendomi che era zucchero alla cannella, o che mi legavano con il nastro adesivo al tronco di una quercia. Quelli che mi prendevano per le braccia e per le gambe e mi lanciavano nel fiume. Potrei anche proseguire, ma credo che tu abbia afferrato il concetto.»

«Jeremiah è il più grande, vero?» replicò Ian intrecciando le mani sul suo addome piatto.

Lei cercò di non farci caso, ma si ritrovò a fissarle in un punto preciso, dove finivano i jeans e cominciava la camicia. «Ha trentun anni. Isaiah ventinove. Gabriel, ventisette e Caleb è il piccolo di casa.»

«Più giovane di te?»

«Di un anno.» Il vento si alzò portando con sé il profumo di caprifoglio. Era diventato più forte su quel lato del capanno degli attrezzi.

«Suppongo che non dovrei più chiamare piccolo un uomo che tutti i giorni gira con la sua arma automatica, ma lui resta sempre il mio fratellino.»

Dietro di loro King Edward riempiva i piatti con gli spaghetti con un gran rumore di posate sulla porcellana. Poco dopo raggiunse il loro tavolo.

Charlee deglutì, nauseata dallodore del tonno caldo nella salsa di pomodoro che riempì l’aria, sovrastando il profumo del caprifoglio. Edward sorrise. «Porzione abbondante per il nostro soldato?»

Charlee guardò Ian con gli occhi sgranati, poi accennò un sì quasi impercettibile con la testa.

Ian ricambiò lo sguardo staccandosi le mani dallo stomaco. «Oggi ho faticato un bel po’.»

Mentre Edward lo guardava con un’espressione che Charlee avrebbe potuto definire un ghigno sadico, lei si schiarì la voce e incrociò lo sguardo di Ian, poi accennò nuovamente un movimento con la testa, ma si bloccò quando Edward indirizzò su di lei il suo sguardo laser.

Quando Ian si mise a battere le mani, tutti rivolsero l’attenzione verso di lui. «Dammi una porzione doppia, Edward.»

Povero soldatino, pensò Charlee. Aveva cercato di metterlo in guardia, ma perché gli uomini devono sempre complicarsi l’esistenza?

Malvagità. Pura malvagità era quello che si leggeva negli occhi di King Edward. Lo sapeva che cucinava da schifo. Lo faceva apposta.

Ian sollevò il piatto e lo annusò a fondo.

Charlee si tirò indietro, pronta a ripararsi sotto il tavolo nel caso in cui avesse sputato tutto. «Ha un profumo fantastico.»

Come? Come? Charlee sbatté le palpebre. Il sorrisetto che Edward aveva sulle labbra svanì. «Dammene ancora un po’, Eddie. Sto morendo di fame.»

Il mestolo rimase sospeso in aria per alcuni lunghi istanti, poi Edward fissò Ian, arricciando il labbro superiore in una smorfia. Alla fine, sbuffando, gliene schiaffò un altro po’ nel piatto e tornò a sedersi. «Tuffatici» borbottò.

E lui lo fece davvero. L’aria sembrò fermarsi nel momento in cui Ian sollevò il primo boccone. Lo portò alla bocca con gli occhi fissi su Charlee, poi masticò due volte e inghiottì.

Lei si aspettava un principio di soffocamento. Invece stava per succedere qualcosa di diverso. Ian posò la forchetta sul piatto. «Wow. Davvero, wow.»

Lo sguardo di Charlee passò da lui al tavolo vicino, dove quattro paia di occhi tondi erano intenti a osservare Ian.

«King Edward, ma questa roba è fantastica.»

Charlee aspirò forte, inorridita. I commensali del tavolo vicino fecero altrettanto. Ian, be’, lui continuò a inghiottire un boccone dopo l’altro fino a che il piatto non fu quasi vuoto.

Alla fine si pulì la bocca con un tovagliolo. «Devi passarmi la ricetta, Edward.»

Edward non ci pensava davvero a girarsi né tantomeno a rispondergli, così lo sguardo di Ian passò su Charlee, i cui occhi riflettevano non solo la luce delle torce, ma anche qualcos’altro. Qualcosa di più. Si passò rapidamente la punta della lingua sulle labbra, inumidendole. Quella bocca era troppo perfetta, troppo sensuale per appartenere a un soldato che abitava nella sua tenuta. Poi Ian abbassò le sopracciglia e fu allora che lei notò il suo sorrisetto.

Senza darlo a vedere gli indicò il piatto e con il solo movimento delle labbra gli chiese: «Buono?».

Ian guardò verso l’altro tavolo e poi si sporse verso di lei. «Terribile.»

Charlee si portò una mano alla bocca e strizzò gli occhi per evitare di scoppiare a ridere. Dietro di loro, al tavolo vicino avevano cominciato una conversazione sui musei.

Charlee sollevò una mano. «Perché?»

Ian lanciò un’occhiata a destra e a sinistra, poi le fece cenno di avvicinarsi. Anche lui si sporse verso di lei e Charlee rifiutò di ammettere persino a se stessa che quella vicinanza stava scatenando un vortice di emozioni dentro di lei.

Quando furono entrambi lì, a pochi centimetri di distanza, con il petto appoggiato al bordo del tavolo, Ian le rispose: «Il mio comandante ci diceva sempre di non fare mai sapere al nemico quali sono le tue paure. La paura è l’unico tipo di potere che lui ha su di te. Non bisogna mai dargli il fiammifero per accendere la miccia».

Charlee sentì che un lento sorriso le stava affiorando sulle labbra. Ian sorrise a sua volta e i due restarono lì seduti, a guardarsi e a condividere l’arte della guerra.

«Dev’essere stato un comandante molto in gamba.»

Ian inghiottì, sentendosi stringere la gola. «Era il migliore.»

Charlee restò in silenzio e lasciò che si abbandonasse ai ricordi. Sui lineamenti di Ian si potevano vedere chiaramente le cicatrici lasciate dalla guerra e dal suo passato.

A un certo punto, Ian tornò al presente e si girò verso i commensali alle sue spalle. «Allora, Edward, hai mai pensato di aggiungere della cipolla bionda? O magari un po’ più di basilico?»

Edward si girò e gli lanciò un’occhiataccia.

«Io adoro trafficare ai fornelli, sai. Se ti va, posso passare in cucina la prima volta che sei di turno e magari potremo preparare insieme qualche piatto creativo.»

Anche Charlee si mise a osservare il tavolo vicino e vide che gli artisti avevano gli occhi spalancati e un’espressione sbalordita. Wilma e Wynona alzavano e abbassavano la testa ritmicamente, come una barchetta sull’acqua, mentre Edward sembrava quasi sollevato all’idea di poter avere un aiuto in cucina. «Se ti piace tanto cucinare, prenditi pure il mio turno» replicò.

Ian si appoggiò allo schienale. «Ma no, sarà più divertente se lo faremo insieme.»

Quando Edward sospirò distogliendo lo sguardo, Charlee scrutò il volto del soldato che aveva davanti. Negli occhi scuri gli si leggeva un’espressione divertita; le labbra erano distese in quel suo pericoloso sorriso a mezza bocca, le mani premute sulla superficie del tavolo. Era riuscito a sconvolgere completamente non soltanto Edward, ma anche gli altri artisti. Eccetto Gruber, che sembrava annoiato da tutta la faccenda. Poi quegli occhi scuri smisero di fissarla e Ian le fece l’occhiolino. «Non preoccuparti. So cucinare.»

«Certo che sei un bel tipo» gli sussurrò di rimando. «Penso che in questo momento il tuo comandante sarebbe davvero orgoglioso di te.»

Un battito di ciglia. Due. Lo sguardo di Ian fisso sull’orizzonte e poi ancora più lontano. La stessa bocca che poco prima aveva pronunciato parole piene di sottintesi, era rimasta vuota e leggermente aperta. Lei vide spegnersi la luce nei suoi occhi. L’espressione maliziosa svanita lasciava il suo posto a qualcosa di più buio, di più profondo e, se Charlee non si sbagliava, di molto più doloroso.

Il dolore di un soldato rientrato in patria.

La gente era davvero in grado di capire il sacrificio compiuto da questi uomini? Ian aveva subito un trauma. Di quello ne era certa, ma quale tipo di trauma? Sperava che una sola estate gli bastasse a recuperare. Aveva ogni diritto di vivere una vita libera dall’angoscia della guerra.

Rivolse un pensiero ai propri fratelli, che si trovavano all’estero per servire il Paese, e ai traumi che a loro volta rischiavano di subire. Sarebbero tornati in patria con gli stessi fantasmi che aveva visto negli occhi di Ian? Sarebbero tornati tutti a casa?

Trascorse un momento prima che lei si accorgesse della sensazione di calore sulla mano. Charlee abbassò lo sguardo e vide che sopra la sua c’era la mano di Ian.

Le sussurrò: «Stai bene, Charlee?».

No. Non stava bene. Era una donna che aveva realizzato il proprio sogno, per poi scoprire di non essere più sicura di desiderarlo ancora. Del resto, se non lo avesse fatto lei, chi si sarebbe preso cura dei vari signor Gruber del mondo? Lei era un’orfana. Era una ragazza che ogni sera pregava che i propri fratelli riuscissero a tornare a casa, una ragazza preoccupata che non ce la facessero.

A modo suo, lei era un soldato. E aveva subito un trauma.

Senza rispondere Charlee si alzò dalla sedia. Paura e amore la indussero ad allontanarsi dalla pista da ballo, superando la piazza e girando l’angolo, fino al sentiero delimitato dagli alberi che conduceva al riparo del portico di fronte a casa sua. Quando raggiunse i gradini per salire sul portico, aveva gli occhi pieni di lacrime, perché era stata una sciocca a pensare di poter ospitare un soldato nella tenuta senza avvertirne la sofferenza, la stessa che i suoi fratelli provavano ogni singolo giorno. Amava i suoi fratelli, per quanto cocciuti fossero. Charlee si era convinta che sarebbero tornati tutti a casa. Jeremiah era già in patria, ma restavano gli altri tre. Suo padre era morto durante un combattimento l’anno prima. Secondo lei, la sua famiglia aveva già dato abbastanza, ma ormai aveva capito che ci sono parti di un soldato che non ritornano mai. Ci sono cose che ognuno di loro lascia sul campo di battaglia, cose che nessuno di loro potrà mai riavere.

Charlee entrò in casa al buio, piangendo. Piangeva per i suoi fratelli e per l’innocenza che non avrebbero mai riavuto. Quando vide sulla mensola del caminetto l’urna, le venne voglia di lanciarle contro qualcosa. Non capisci che io non ero preparata a tutto questo? Io non sono in grado di tenere insieme una famiglia sparsa per mezzo mondo, e tu… tu te ne sei andato. La luce proveniente dalla cucina si rifletteva sulla liscia superficie di porcellana dell’urna. Non sentì nessuna risposta, nessuna rassicurazione. Charlee andò a letto senza preoccuparsi di chiudere a chiave la porta. Non ne aveva motivo. Nessuno sarebbe arrivato fino a lì. Era sola.

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«Ma che cosa ho detto.» Ian ripensò all’accaduto e si alzò da tavola per avvicinarsi agli altri quattro ospiti. Mortificato, pensando che Charlee fosse corsa via a causa sua, si fermò ai piedi di coloro che la conoscevano meglio.

«Certo che tu ci sai davvero fare con le signore» scherzò Edward.

Wilma ebbe uno scatto e contemporaneamente si udì un colpo soffocato provenire da sotto il tavolo. Edward sobbalzò. «Ahi. Mi hai tirato un calcio.»

Wilma strinse le labbra, l’espressione corrucciata. «Non preoccuparti, Ian. Non hai fatto nulla di sbagliato.» Wynona allungò la mano per prendere la sua. «Proprio così, dolcezza. Tu non c’entri.»

Ian si passò l’altra mano tra i capelli. «Allora magari qualcuno riesce a spiegarmi che cosa è successo, così non capiterà più?»

Le due sorelle aprirono bocca, ma non ne uscì una parola. Edward prese una forchettata di spaghetti. «Per quanto mi riguarda, credo che sia colpa tua.» Spostò la sedia, così Wilma non sarebbe riuscita a tirargli un altro calcio.

Wynona strinse la mano di Ian tra le sue. «Charlee è una creatura davvero speciale.» I suoi grandi occhi espressivi contornati da minuscole rughe ammiccavano, come se desiderassero fargli capire qualcosa. «È unica.»

«Sì» concordò Wilma. «Insolita. Complicata.»

Ian le incoraggiò, ma nessuna delle due disse altro. Voleva capire Charlee. Doveva farlo, se voleva portare a termine la sua missione. «E per le persone complicate, uniche, insolite, è normale andarsene a metà di una cena, senza dare spiegazioni?»

Wilma si agitò sulla sedia. «No. Charlee è profondamente toccata da quello che succede nel mondo. È empatica.»

Empa… cosa? Be’, questo non sarebbe certo stato d’aiuto. Era come parlare un’altra lingua.

Il signor Gruber appoggiò la mano sul tavolo. «Oh, santo cielo. Quello che stanno cercando di spiegarti, soldato, è che tu non puoi pensare di riuscire a conoscere una persona come Charlee in una sola notte. Lei è fatta a strati. Le donne più forti a volte sono le più tenere di cuore. Charlee non si è arrabbiata con te… qualunque cosa tu abbia fatto. Sei entrato nel suo cuore e questo la spaventa. Capito?»

Intorno a loro il vento cominciò a soffiare più forte. Già. Capiva, eccome.

«Davvero eloquente, Arnold.» Wynona lasciò andare la mano di Ian e diede un colpetto a quella del signor Gruber. Lui fece una smorfia e la ritrasse.

«Quindi, adesso io che cosa dovrei fare? Rincorrerla?»

I quattro artisti risposero contemporaneamente in due modi opposti. Gli uomini erano per il sì. Le donne, invece, per il no. Decise che questa volta avrebbe dato retta alle donne.

«Dalle tempo» disse Wilma, e il cenno di assenso di Wynona confermò che era d’accordo con lei. Una folata di vento fece fluttuare nell’aria le lunghe ciocche bianche di Wynona e il suo viso fu attraversato da un dolce sorriso d’incoraggiamento.

Ian capì che da giovane doveva essere stata una vera bellezza. Oltre che una danzatrice, aveva la sensazione che dovesse essere stata anche una testa calda. «Bene. Le darò tempo. Ce la posso fare.»

Appena rientrò nel bungalow non ne fu più così sicuro. Quando c’era Charlee abbassava la guardia su troppe cose. Soltanto quell’unica estate, poi la sua vita sarebbe andata avanti. Con quel pensiero in testa individuò il diario, alla luce debole della luna che si diffondeva attraverso la persiana aperta.

Ian si spostò di lato sulla sedia per fare in modo che la luce della luna illuminasse le pagine. Non che lui ne avesse bisogno: aveva memorizzato così tante righe che bastava leggere le prime parole.

Alcune pagine avevano un titolo; altre no, ma tutte erano importanti, e ognuna di loro gli arrivava dritta al cuore.

Charlee,

ti vedo con gli occhi della mente. In piedi sul portico a guardare il tramonto. Qui invece è l’alba. I proiettili fischiano sopra le nostre teste, ma questo non cambia l’azzurro del cielo. Ci copre come un manto e ricorda ai ragazzi che è proprio lo stesso cielo sotto il quale sono cresciuti e che hanno osservato quando, da bambini, sdraiati a pancia in su, disegnavano la forma delle nuvole. Riesco a immaginare ognuno di loro. Riesco a vedere il loro padre che li stringe tra le braccia. Non è trascorso molto tempo da quando giravano in bicicletta o sullo skateboard, né da quando hanno preso la patente e magari dato il primo bacio. Oh, io guardo nei loro giovani occhi e vedo i bambini che sono stati, ma adesso sono uomini. Ognuno di loro è un uomo, che conserva ferite e ricordi con i quali nessun uomo dovrebbe mai essere costretto a convivere. Ovviamente non tutto è negativo da queste parti, per loro. Si stanno formando una propria personalità, per diventare le persone che saranno, per il resto della vita. Stanno imparando che ogni giorno finisce. Questo è ciò che dico loro. «Giù con la testa e su con lo spirito» ripeto sempre. «Questo giorno, come tutti i precedenti, finirà. In che modo finirà, dipenderà da voi. Chi eravate questa mattina e chi sarete questa sera, dipenderà solo da voi. Non potete avere il controllo di quello che vi succede, ma potete decidere da soli come affrontare le cose.» Queste parole valgono anche per te, Charlee. Non puoi avere il controllo di quello che ti succede, ma puoi decidere da sola come affrontare le cose.

Ian richiuse il diario. Sarebbe stata più dura di quanto aveva immaginato. Anche se non sapeva che cosa aspettarsi, Charlee era molto più… che parola aveva usato Wilma?… complicata di quanto avesse immaginato. Inoltre la reazione del suo corpo quando era con Charlee non lo aiutava per niente. Aveva sentito parlare così tanto di lei che gli era parso di conoscerla anche prima di arrivare lì. Aveva creduto che poterla vedere e incontrare avrebbe mandato in frantumi il personaggio da favola che aveva creato con la propria immaginazione. Lei era solo carne e sangue e lui aveva bisogno che la favola finisse. Perché teneva già a Charlee molto più di quanto avrebbe dovuto e, visto quanto era testarda, era molto probabile che, una volta saputa la vera ragione della presenza di Ian, lo avrebbe cacciato via. Preso tra due McKinley, Ian non aveva idea di come comportarsi. Da un lato esisteva il dovere. Dall’altro, una donna che aveva imparato ad amare a distanza. Non esisteva una via d’uscita facile. Se in passato aveva creduto che la guerra fosse difficile, questa situazione era mille volte peggiore e tutto dipendeva da lui. Doveva farsi forza e dirle tutto. Del diario, di ogni cosa. Non poteva più aspettare. Anche se aveva avuto specifiche istruzioni di lasciarle il tempo di conoscerlo, prima di sganciare la bomba; essere lì, in possesso di quel diario, senza chiarire ogni cosa, era semplicemente sbagliato. Glielo avrebbe detto. Alla prima occasione.