Capitolo 1
Quando le avevano comunicato che suo padre era stato ucciso, Charlee McKinley stava dipingendo. Il funerale fu una specie di annuario vivente dei vertici militari al completo, inclusi maggiori, colonnelli e persino un generale, tutti accorsi a manifestare il proprio cordoglio. Il Maggiore McKinley piaceva a tutti. A tutti, tranne che a Charlee.
Nel primo anniversario della morte, saltò sulla Jeep rialzata che utilizzava per il lavoro e guidò fino al letto del torrente, nel posto che preferiva di tutta la tenuta. Il sole sorgeva davanti a lei e illuminava il paesaggio colorando le ombre. Gli animali notturni si affrettavano a tornare nella tana, un opossum attraversò la radura per poi scomparire al limitare del bosco che circondava il posto preferito di Charlee. Le sfuggì un sorriso quando vide quell’animaletto grassoccio trotterellare oltre la linea degli alberi. La cosa che non la faceva per nulla sorridere era che, ormai a un anno di distanza, ancora non sapeva che cosa fare con le ceneri di suo padre.
Dietro a un gruppo disordinato di sempreverdi alla sua destra, Charlee riusciva a intravedere la riva del lago di Table Rock, immerso nella luce scintillante di quella fresca mattina. A volte, all’alba, prima del sorgere del sole e quando non c’era quella nebbia che sembrava galleggiare sulla superficie dell’acqua, dall’altra parte del lago Charlee riusciva a intravedere le luci di River Rock, in Missouri. Il suono delicato delle onde che si infrangevano sulla sponda rocciosa le riempiva le orecchie. Quel mormorio ininterrotto era l’elemento del paesaggio dell’Altopiano d’Ozark che lei preferiva, così diverso dal rumore prodotto dalle onde violente e tumultuose che aveva avuto modo di osservare sulla costa orientale, durante una vacanza primaverile dall’università, che preferiva non ricordare. Quelle onde erano prepotenti, queste invece erano in armonia con il mondo circostante. E a Charlee l’armonia stava particolarmente a cuore.
Armonia non era quello che suscitava in lei il pensiero di quell’urna che faceva mostra di sé sulla mensola del suo caminetto. Perché suo padre non avesse affidato il compito a uno dei suoi fratelli rimaneva per lei un mistero. Forse si era trattato di una specie di ultimo scherzo di cattivo gusto. Stava riflettendo su queste cose, quando scese dalla Jeep con un salto e si diresse verso i resti di una quercia, dove amava sedersi. Una volta le querce giganti a guardia del suo posto preferito erano due, ma una si era ammalata e ormai si era trasformata in un sedile, mentre l’altro enorme albero la proteggeva dai primi raggi del sole del mattino. Si era trattato di uno scherzo? No. Suo padre non aveva mai scherzato con lei da vivo ed era impossibile che avesse cominciato a farlo da morto. Non si poteva certo dire che lei non avesse amato suo padre: lo aveva amato, eccome se lo aveva amato. Solo che lui non le piaceva e anche lui provava lo stesso sentimento nei suoi confronti. Erano due persone agli antipodi, separate da tutto ciò che li rendeva quello che erano. Dopo che sua madre era morta, avevano vissuto nella stessa casa ed erano stati cordiali, educati. Come veri estranei.
Lui non c’era più ormai da un anno. Il suo mondo non sarebbe dovuto cambiare e sembrarle in qualche modo diverso? Certo, era una donna adulta, adesso, ma non sarebbe stato normale provare un po’ di nostalgia per lui? Invece provava una sorta di rimpianto per tutto ciò che non aveva mai potuto condividere con lui.
Quando si sentì la fronte imperlata di goccioline di sudore, Charlee abbandonò la postazione sul tronco dell’albero e si avviò verso la Jeep. Sopra di lei, il sole era una palla di fuoco e si stava prospettando l’ennesima giornata di caldo infernale. Il clima era stato insolitamente afoso e questo rendeva scontrosi gli artisti.
Mentre Charlee ripassava mentalmente la lista delle proprie incombenze, riuscì a distogliere il pensiero da suo padre per concentrarsi sul mondo che amava, la residenza per artisti alla quale aveva dato il nome di sua madre. L’avevano progettata insieme prima che la malattia gliela portasse via. All’età di dodici anni, Charlee le aveva fatto la promessa di realizzarla e Marilee McKinley le aveva creduto. Le aveva sfiorato una guancia e le aveva detto: “Ci riuscirai, Charlee. So che ce la farai”. E poi i suoi occhi stanchi si erano chiusi. Charlee sapeva che non era stata quella l’ultima volta che aveva visto sua madre viva, eppure quello era l’ultimo ricordo che aveva di lei e lo teneva al sicuro in uno scrigno in fondo al cuore. La residenza per artisti era un dono di speranza per quella ragazzina che sarebbe cresciuta senza una madre che le insegnasse a truccarsi, che l’aiutasse a capire perché i ragazzi si comportano sempre in modo così strano quando provano interesse o che le scattasse delle foto al suo primo ballo. Così sua madre aveva trovato il modo di lasciarle qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che loro due avrebbero condiviso. Per sempre, anche quando la morte le avrebbe separate.
Charlee avviò il motore della Jeep e pensò alla giornata che la aspettava, elencando mentalmente ogni cosa in ordine d’importanza. Il signor Gruber aveva bisogno di un bagno. Gli altri artisti avevano cominciato a protestare. Lui era uno dei più eccentrici che vivevano nella sua tenuta, spesso trascorreva giorni e giorni senza dormire, e a volte si dimenticava di dettagli insignificanti come l’igiene. L’acqua calda del villino funzionava, nel migliore dei casi, solo ogni tanto e questo gli forniva la scusa ideale per non lavarsi. Charlee doveva decidersi, una volta per tutte, ad assumere un tuttofare. Numero diciassette, nel suo elenco delle cose da fare.
La Jeep attraversò lentamente il letto del torrente e quando raggiunse uno spazio aperto, lei poté finalmente premere sul pedale dell’acceleratore. Il terreno piano, in questa parte della tenuta, era per la maggior parte libero da rocce e durante la stagione delle piogge vi scorrazzava per puro divertimento. Poteva premere sul freno e girare il volante creando nel fango delle forme a ciambella pressoché perfette e aveva anche scoperto che questo era un ottimo metodo per allentare la tensione.
Quando superò la curva e cominciò a intravedere la struttura della residenza, Charlee sorrise. La vista era la stessa, giorno dopo giorno, ma nelle mattine come questa, dopo avere pensato a sua madre e a quanto sarebbe stata contenta, non poteva fare a meno di sentirsi piuttosto orgogliosa di sé. I villini erano disposti a semicerchio intorno a un cortile aperto, con al centro una gigante piattaforma rialzata di legno. C’erano anche dei bungalow al limitare del bosco, ma quella piazza era il centro nevralgico della Residenza per Artisti Marilee. Un grande prefabbricato in metallo utilizzato per le riunioni faceva da collegamento tra la piattaforma e i villini, sei sulla sinistra e sei sulla destra. Erano abbastanza distanti tra loro da garantire riservatezza, ma abbastanza vicini da instillare un forte senso di comunità, e questo era importante per gli artisti. In base alla sua esperienza, gli artisti erano quasi sempre persone solitarie, più a proprio agio con tele e pennelli, musica e solitudine, che con altri esseri umani. Questo spazio era un dono splendido, che offriva loro la possibilità di socializzare, a parte quando il signor Gruber non aveva fatto il bagno.
Charlee vide una porta che si apriva e un guizzo di ispidi capelli bianchi, colorati sulle punte. «Giorno» gridò a Wilma Vandervort che, con il posteriore, teneva aperta la porta del villino, mentre scuoteva un piumino per la polvere.
La donna sorrise, agitando la mano.
«Come hai dormito?» le chiese Charlee avvicinandosi.
«Come se fossi caduta tra le braccia di Morfeo.» Wilma si appoggiò il manico del piumino sul cuore e si abbracciò.
«Ma è fantastico, Wilma.»
Wilma e sua sorella Wynona erano arrivate alla colonia quasi due anni prima. Avevano pensato di rimanere solo per un weekend, ma poi i tempi si erano dilatati sempre di più e ora le due sorelle si erano trasferite definitivamente, senza nessuna intenzione di andarsene. Condividevano un villino, cosa incredibile secondo Charlee, visto e considerato che si trattava di settanta metri quadri in tutto e che entrambe le donne soffrivano d’insonnia. Non conosceva la loro età, ma supponeva avessero tra i sessanta e i settant’anni.
«E Wynona ha dormito?»
Wilma si strinse nelle spalle. «Non so. Ancora non si è alzata ed è rumorosa come una segheria in funzione.»
«Domani andrò in città. Volete venire con me a fare un giro in auto?» Cercava di fare il possibile perché gli artisti che avevano stabilito la loro residenza lì uscissero per frequentare… il mondo reale… di tanto in tanto, e alcuni di loro mostravano di gradire l’opportunità. Per altri, invece, era un compito che andava ben oltre l’umana comprensione. Wilma e Wynona erano creature socievoli.
«Certo che verremo.» Indicò il villino a sinistra. «Ma sono convinta che anche King Edward voglia venire in città. Mi ha accennato che aveva bisogno di un taglio di capelli e di calzini nuovi.»
Charlee guardò di sfuggita il bungalow dell’altro ospite. «Be’, c’è spazio a sufficienza per tutti e tre.»
«Chi è di turno per la cena, questa sera?»
«Tu e Wynona.» Charlee le sorrise.
«Come pensavo. E domani sera?»
Charlee sospirò. «Toccherebbe a King Edward.»
Wilma si portò una mano alla gola, emettendo un suono soffocato. «Ci toccheranno ancora spaghetti al tonno?»
Lei annuì.
Wilma si passò una mano fra i capelli e così facendo le punte arcobaleno si sollevarono ancora di più verso l’alto. «Sai una cosa, lui prepara unicamente quel piatto orrendo perché vuole essere escluso dal turno della cena.»
«E appunto per questa ragione tutti noi ci faremo coraggio e mangeremo.»
Wilma sollevò il mento, con aria nostalgica. «A noi artisti fa bene soffrire. Ci mantiene in una condizione di vulnerabilità. I lavori migliori sono frutto della vulnerabilità.»
La donna era un’acquarellista. Le sue opere erano stupende e delicate come lo zucchero filato. Charlee avrebbe potuto giurare che ogni suo lavoro fosse migliore del precedente. Wynona, la sorella, era stata una danzatrice. Non dipingeva né disegnava, né utilizzava altri strumenti per esprimere le proprie emozioni, ma le storie che raccontava erano incredibili e aveva il pallino di decorare gli oggetti con i brillantini. Da giovane, danzava per la USO, l’organizzazione che forniva servizi ricreativi ai militari durante la guerra del Vietnam, e sebbene per gli Stati Uniti garantire la sicurezza del personale addetto all’intrattenimento fosse un vanto, Wynona era uno spirito libero e riusciva sempre a svignarsela a tarda notte con uno dei soldati… e a volte con più di uno. Charlee era quasi certa che avesse visto cose che avrebbero potuto provocare un certo imbarazzo al governo degli Stati Uniti.
«Oggi mi occuperò della staccionata ai confini della proprietà, se qualcuno dovesse cercarmi.» In realtà non si trattava dei confini della proprietà. Era dove finiva la sua tenuta e cominciava quella di suo fratello. Un tempo, quel lotto di circa ottanta ettari era stato un campo estivo per bambini. La sua colonia per artisti occupava quella che era stata la sezione femminile mentre, a un paio di chilometri di distanza, la porzione di proprietà che la madre aveva lasciato a suo fratello maggiore corrispondeva alla sezione maschile. Quella parte si estendeva fino al parco nazionale, ma quella di Charlee comprendeva la riva più bella del lago e i bungalow migliori. Anche a ognuno dei suoi altri tre fratelli era andata una fetta della torta, ciascuna dotata di caratteristiche diverse: per esempio, sul terreno del più giovane, Caleb, c’erano delle sorgenti minerali.
Charlee sapeva perché sua madre aveva acquistato quel posto. Era stato per realizzare la residenza per artisti della quale avevano sempre parlato. Qualcosa che i suoi fratelli non avevano mai capito e che tuttora non capivano. Che importava? Era il suo sogno e a lei non sarebbe mai passato per la testa di sezionare la proprietà con delle staccionate, fino a quando suo fratello maggiore, Jeremiah, non le aveva detto che stava pensando di mettere in piedi qualcosa su quel pezzo di terra rocciosa. Si dice che buoni confini facciano buoni vicini.
Salutò Wilma e tornò alla Jeep. Poi si ricordò del signor Gruber. Charlee sospirò e si diresse verso il bungalow del suo ospite, sulla destra. Un’enorme giunchiglia di filo metallico richiamò la sua attenzione. L’artista che aveva realizzato quelle opere da esterno, era stato lì un anno prima, per un periodo di ritiro. La maggior parte degli artisti veniva a lavorare e a lasciarsi ispirare dal meraviglioso Altopiano d’Ozark. Invece quello in particolare, che si faceva chiamare Javier LaFleur, anche se lei non aveva mai saputo se fosse il suo vero nome o se si trattasse di un eccentrico pseudonimo, era arrivato lì soltanto per riposarsi, per fare passeggiate nella sua tenuta e, come le aveva spiegato, per tornare ad amoreggiare con la sua musa.
Charlee lo capiva. Erano mesi che non dipingeva nulla, salvo una cassetta per la posta e delle persiane. Le mancava avere davanti una tela bianca, aprire i tubetti e annusare i colori a olio e l’acquaragia. Al tempo stesso, mettere in piedi un luogo dove altri artisti potessero andare a ispirarsi, be’, non aveva prezzo, e in ogni caso lei come artista non era particolarmente dotata. Avrebbe avuto più tempo da dedicare alla pittura una volta che avesse trovato qualcuno per darle una mano con la gestione della tenuta.
Salì gli scalini della piccola veranda coperta. Tutti i bungalow ne avevano una e la sera gli ospiti trascorrevano del tempo a dondolarsi sulle sedie a dondolo di legno e a fotografare i tramonti spettacolari che coloravano le cime delle montagne verdi che circondavano la residenza. Per molti aspetti quel luogo ricordava un santuario, così perfettamente incastonato in quello che tutti chiamavano il Monte McKinley. Non era quello il vero nome della montagna sovrastante la sua proprietà, ma i McKinley erano stati tra i primi abitanti della piccola città di River Rock, a circa dieci chilometri di distanza, ed erano la famiglia di suo padre, la sua famiglia, generazioni di grandi lavoratori, più interessati a portare a termine un compito nel migliore dei modi che a sapere che qualcosa portava il loro nome. Brava gente, come diceva suo padre ogni volta che parlava della sua famiglia, onesti lavoratori, operosi e di poche parole. La famiglia di sua madre invece era tutta un’altra storia. Suo padre li chiamava ricconi… anche se avrebbe potuto scegliere qualche altra parola meno educata.
Charlee bussò al signor Gruber. Nessuna risposta. La zanzariera attaccata alla porta si aprì cigolando e Charlee si accorse che la maniglia si era allentata. Più tardi l’avrebbe aggiustata. Tenendo aperta la zanzariera con una mano bussò di nuovo. «Signor Gruber?»
Si udì un suono incomprensibile provenire dall’interno. Lo prese come un invito a entrare. Quando aprì, la luce inondò l’interno. Una volta dentro, Charlee sentì qualcuno che sbadigliava, ma non riuscì a mettere a fuoco. Il bungalow emanava uno sgradevole odore di stantio, di sudore vecchio e di cibo ancora più vecchio. Si sarebbe procurata un deodorante per ambienti in città. «Buongiorno.»
Le finestre erano coperte da tende molto spesse, perciò si avvicinò a quella che dava sul davanti della casa e la aprì. Dalla camera da letto arrivò una specie di sibilo. Si tolse la polvere dalle mani. «Oh, avanti. Non è così terribile.»
L’uomo emerse dalla camera da letto avvolto in un accappatoio verde scuro, che gli ricadeva sulle spalle ossute. Il signor Gruber era sulla settantina, magro come un chiodo, guance e occhi scavati e un ciuffo di capelli bianchi sulla testa.
«Perché mai dovrebbe essere un buon giorno» borbottò, «se non fosse per la stupenda creatura che è passata di qui a salutarmi?»
Charlee si voltò verso di lui e spalancò le braccia. «Lei è troppo gentile.»
«Ah! Sono stato accusato di molte cose, ma essere troppo gentile non è una di queste.» Si trascinò fino al mobile del cucinotto e si mise a guardare dentro la caffettiera, come se in quel modo potesse riempirsi, per magia, di caffè bollente.
Charlee si mise le mani sui fianchi. «Quando è stata l’ultima volta che ha mangiato?»
Per tutta risposta lui fece un grugnito e, dopo avere aperto il barattolo del caffè, ne versò un po’ nel filtro. Non si preoccupava mai di misurarlo.
«Ho visto che ha ricevuto un pacchetto da sua figlia l’altro giorno. Che cosa le ha mandato?»
Lui sollevò una mano in aria. «Una scatola di dolci, da un posto dove è stata, nei Caraibi.»
«Oh, ma che carino da parte sua.»
La vecchia caffettiera sembrò prendere vita e cominciò a emettere un gorgoglio. «Uno spreco. Quanto le sarà costata la spedizione? Per una scatola di dolci che non vale nemmeno tre dollari?»
«È un gesto molto dolce e lei le vuole bene. Proprio come gliene vogliamo noi.» Charlee gli andò vicino e gli sfiorò la guancia con un bacio. Uffa. Quanto puzzava. «E allora, ha terminato il suo dipinto?»
Lui indicò verso la camera da letto con il pollice.
Senza attendere un invito, Charlee si diresse nella stanza e recuperò una tela quaranta per cinquanta. La sistemò sul cavalletto vicino alla porta d’ingresso, per vederla alla luce del sole.
Si mise una mano sul cuore. Una spiaggia stupenda occupava la tela. Acque turchesi carezzavano la sabbia bianca come lo zucchero, le onde si infrangevano dolcemente mentre il sole faceva capolino da un nastro di nuvole dai colori vivaci. Ma il soggetto in primo piano lasciava senza fiato. Una donna dai lunghi capelli neri teneva in braccio una bimba paffuta, la bocca sorridente e gli occhi pieni di gioia. La donna indossava un abito bianco, che giocava con un soffio di brezza marina che a Charlee sembrò quasi di poter sentire: i capelli della donna brillavano al sole e la bimba rideva con la bocca sdentata, come se il mondo fosse un’enorme stanza dei giochi. «È meraviglioso.»
«Eh, non è male.»
«Si è ispirato a una foto che sua figlia le ha spedito insieme ai dolci?»
«Già. Avrei dovuto fare la bimba un po’ più magra. Sembra un maialino.»
«I bimbi piccoli devono essere cicciottelli.»
Lui fece un altro grugnito e recuperò la tazza sporca più pulita dal lavello.
«Bene» disse Charlee, tornando allo scopo della sua visita. «Ora me ne devo andare, ma volevo che sapesse che oggi farà molto caldo. Una bella doccia fresca potrebbe aiutarla a sopportarlo.»
Lui la trapassò con lo sguardo penetrante dei suoi occhi azzurri, racchiusi da una cornice di rughe. «Quindi mi stai dicendo che non hai ancora fatto riparare l’acqua calda.»
Charlee si morse un labbro. «Sa che cosa le dico? Questa mattina farà una bella doccia con l’acqua fredda e io le garantisco che la farò riparare per la prossima volta che avrà bisogno di farne un’altra… questione di un giorno o due.»
Se non avesse potuto evitare di rivolgersi a un professionista lo avrebbe fatto, ma in realtà sperava con tutto il cuore di riuscire ad assumere un tuttofare. Dopo una settimana, soltanto in tre avevano risposto al suo annuncio e nessuno le era parso competente, e uno di loro si era offerto di farla contattare dal suo addetto alla libertà vigilata… come referenza.
Si diresse verso la porta. «Ha davvero una famiglia stupenda, signor Gruber.»
Come risposta, lui fece un cenno con la mano ma, prima di andarsene, Charlee notò che lo sguardo dell’uomo si era spostato sul dipinto. I suoi acquosi occhi azzurri erano pieni di una profonda nostalgia. Alzò a mezz’aria le mani, quasi volesse entrare nel quadro e toccarne il soggetto.
«Arrivederci» sussurrò Charlee, che non voleva disturbarlo mentre osservava il ritratto della sua famiglia. Comprendeva bene quello struggimento, quella sensazione di assenza lasciata da coloro che un tempo avevano riempito il cuore, ormai svuotato.
Conosco quella sensazione.
In sella alla sua moto Ian entrò nel parcheggio dell’emporio agricolo di River Rock, Missouri, non appena notò la Jeep. Avrebbe riconosciuto quel fuoristrada ovunque e vederlo da lontano gli procurò un brivido di tensione lungo la schiena, la sensazione familiare di battaglia imminente. Anche se era rientrato dall’Afghanistan già da un paio di settimane, per lui quella sensazione era ancora normale, come respirare. Ciò che stava per succedere sarebbe potuto andare a finire bene, oppure tremendamente male. Non c’era davvero modo di saperlo prima.
Parcheggiò e appoggiò un piede a terra, ascoltando il rumore del motore che si raffreddava e osservando attentamente le tre persone sulla Jeep. Mancava il conducente, che probabilmente era all’interno dell’emporio.
Davvero uno strano equipaggio. Anzi, secondo Ian, erano proprio bizzarri. Riconosceva la Jeep, però per averla vista in foto quando ancora non era stata rialzata, con ruote e pneumatici di dimensioni più normali e senza tre dei più singolari personaggi che gli fosse mai capitato di incontrare. Un uomo con in mano un cappello e i fianchi avvolti da un kilt si agitava sul sedile del passeggero. All’improvviso cominciò a sbracciarsi come una scimmia impazzita e a urlare che c’era un’ape, prima di precipitarsi fuori dal fuoristrada. Un attimo più tardi, un po’ a fatica, risalì a bordo del veicolo e mentre si chinava a raccogliere qualcosa, non fece nemmeno il gesto di coprirsi.
«Caspita» mormorò Ian, girandosi per non guardare la striscia di carne pallida che s’intravedeva sotto il kilt.
Sul sedile posteriore due donne anziane discutevano animatamente: la prima aveva una lunga chioma bianca, mentre l’altra aveva i capelli a spazzola e di una tale gamma di colori che facevano sembrare la sua testa uno spettacolo pirotecnico.
Ian appoggiò il casco sulla moto e si diresse verso di loro, lasciando correre lo sguardo dall’emporio alle alte montagne verdi sullo sfondo. Di sicuro, molto presto, la persona alla guida dell’auto sarebbe uscita, e lui si augurava, addirittura pregava, che fosse quella che stava cercando.
In quel preciso istante lei si materializzò. Folti riccioli biondi, gambe infinite, abbronzata. Stupenda. La folata di vento che proveniva dalla montagna la colse alla sprovvista, spettinandole i capelli che andarono a coprirle il viso. Non si riusciva a vedere la parte superiore del corpo, perché trasportava un enorme sacco che forse poteva contenere… Be’, tirando a indovinare… concime. O magari terriccio per piante. Mentre la donna si avvicinava alla Jeep, il passeggero si voltò verso di lei.
«Dai, sbrigati, Char Char.» Sollevò un po’ il kilt per farsi vento. «Sto arrostendo qua fuori.»
Ian lo fulminò con lo sguardo e si domandò come mai il signor Gonnellino Stravagante si ritenesse troppo superiore per uscire dall’auto e darle una mano con il sacco. Invece di farglielo notare, però, si affrettò a percorrere di corsa gli ultimi metri che lo separavano da lei. Non appena ebbe afferrato con entrambe le braccia il voluminoso fardello, sollevandone senza problemi il peso, lei lo salutò rivolgendogli uno sguardo incuriosito, anche se gli occhi erano quasi completamente nascosti da un paio di occhiali da sole appariscenti in stile hollywoodiano. Quei suoi pantaloncini ricavati da un paio di jeans tagliati e la canotta non si accompagnavano molto bene a occhiali tanto vistosi, ma a chi importava? Era bella, proprio come nelle foto che lui aveva visto.
«Lasci che la aiuti» le disse nonostante lei non lasciasse andare il sacco e restasse lì con il petto contro il suo, a separarli soltanto il concime, in una specie di strana sfida.
«Ce la faccio.»
Gli sfuggì una risata. «Sì. Ce la faccio anch’io, ma al momento ci siamo un po’ intrecciati. Se lo lasciasse andare…» Ian spostò il peso da un piede all’altro.
La donna sembrò ancora più perplessa.
«Senta, signorina, non voglio rubarle il concime, se è questo che le passa per la mente.» Teneva il viso a pochi centimetri da quello di lei, tanto da riuscire a studiare da vicino la minuscola fossetta sopra un angolo della bocca serrata: bocca che, pur esprimendo uno stato di nervosismo, era comunque carnosa e umida. Bocca che lui avrebbe potuto baciare.
Oh, cavolo.
Toccò a lei spostare il peso da un piede all’altro e, mentre lo faceva, il sacco scivolò pericolosamente da una parte.
Lui le sorrise. «Senta, davvero, mi fa piacere aiutarla.»
Lei lasciò andare la presa e Ian lasciò andare il respiro che aveva trattenuto, insieme all’aria profumata di vaniglia che aveva respirato e a quei pensieri che non avrebbe mai dovuto avere.
Lui indicò dietro di lei, con un cenno della testa. «È con la Jeep?»
Lei raggiunse la parte posteriore del veicolo e aprì il piccolo sportello che si trovava vicino alla ruota di scorta. «Infilalo qua dentro.»
Char Char spostò un telone e altri sacchi, ricavando uno spazio che sarebbe bastato a malapena per metà del concime.
Ian aggrottò le sopracciglia. «Infilarlo dove?» Appoggiò appena il sacco sulla Jeep e lei sembrò interpretare quel gesto come un invito a cercare di fare entrare a forza il sacco in quello spazio troppo stretto, perché immediatamente cominciò a spingere. E a grugnire. E a spingere ancora un po’ con i piedi ben piantati per terra, ma dimenando il sedere a destra e a sinistra. Difficile non gradire quello spettacolo.
Quando finalmente il concime fu sistemato sull’auto, un rivolo di sudore le rigò la guancia. Richiuse lo sportello con una spallata. «Grazie per l’aiuto.» Gli fece un grande sorriso, girò sui tacchi e si diresse verso il sedile del guidatore.
«Aspetti» le disse rincorrendola. «È lei Charlee?»
Lei si bloccò con un piede sul predellino e una gamba sollevata, le mani che afferravano il maniglione, girò la testa e lo guardò negli occhi.
Ian le sorrise. «Conosco suo fratello.»
Charlee si fece scivolare gli occhiali sul naso per toglierli e li lanciò sul cruscotto. Lo scrutò attentamente per un secondo, gli occhi ridotti a una fessura.
Ian riprese fiato. Il colore dei suoi occhi era tra il grigio e l’azzurro, nessuno dei due colori, una via di mezzo. Erano una tempesta in arrivo in una giornata di sole. «Jeremiah. Non è suo fratello?»
«Ho quattro fratelli. Jeremiah, Isaiah, Gabriel e Caleb.»
Salì sulla Jeep come se fosse decisa ad andarsene, così Ian le bloccò il passaggio appoggiandosi con tutto il corpo al veicolo.
«Ero diretto proprio alla sua tenuta.»
Charlee si infilò nuovamente gli occhiali. Quegli occhi hollywoodiani da insetto lo fissarono.
«Jeremiah mi ha detto che le occorre un tuttofare per l’estate.» Era quasi certo di averla vista alzare gli occhi al cielo e fare un lungo sospiro.
«Ho messo un annuncio online su Craigslist, con un indirizzo dove spedire il curriculum.»
Quando avviò il motore, Ian allungò una mano e la mise sul volante della Jeep. «Io non ho un vero curriculum, signora.»
Tre paia di occhi spalancati dal sedile del passeggero e da quello posteriore osservavano i due mentre parlavano. Le donne si erano zittite.
L’uomo che indossava il kilt si sporse in avanti, incrociò lo sguardo di Ian e fece una smorfia. «Sei un assassino con l’ascia?»
Charlee fece una risatina e gli colpì il braccio con un pugno. «Avanti, mio fratello non mi manderebbe certo un assassino con l’ascia come tuttofare.»
Gonnellino Stravagante incrociò le braccia sul petto con aria indignata. «Non ha risposto.»
«Nossignore. Non lo sono.»
Charlee si tolse gli occhiali un’altra volta ma poi li tenne con la mano che afferrava il volante, come se fosse pronta a lottare con Ian per riprenderne il controllo, se necessario. «Nossignore?» gli fece il verso. «Sissignora?» Lo sguardo le cadde sulle cinghie dello zaino militare che aveva sulle spalle.
Ian vide che si mordicchiava l’interno della guancia. Stava succedendo qualcosa lì, nel profondo di quegli occhi che promettevano tempesta. Si stavano addolcendo, in modo impercettibile ma inequivocabile. E poteva sfruttarlo a suo vantaggio. Agganciò i pollici alle cinghie dello zaino mimetico, attirando di nuovo l’attenzione di Charlee proprio lì.
Il suo obbiettivo biondo fece un lungo sospiro. «Sei appena tornato a casa?» gli domandò e, per la prima volta da quando l’aveva incontrata, avvertì un accenno di calore nella sua voce. Aveva alzato le sopracciglia, ma mentre poco prima aveva assunto un’espressione corrucciata… ora sembrava che stesse guardando un cucciolo o qualcosa del genere.
«Sissignora. Ho prestato servizio in Afghanistan negli ultimi due anni.»
Lo avvolse in un altro dei suoi lunghi sospiri e lui cercò di non respirarselo. Invano.
Gli puntò un dito contro. «Smettila con questa signora. Non ho ottant’anni. Ne ho venticinque. Chiamami Charlee.»
Ian sorrise. «Oh, allora siamo quasi coetanei.»
«Anche io» disse l’uomo con il kilt, anche se era evidente che di anni lui ne avesse almeno il doppio.
A quell’affermazione le due donne sul sedile posteriore alzarono la voce per farsi sentire. «Abbiamo tutti venticinque anni.»
«Avrei davvero bisogno di lavorare, sign… Volevo dire, Charlee.»
La donna dai capelli a spazzola allungò una mano e scosse Charlee per una spalla.
«Teniamolo» disse sussurrando con voce roca.
Charlee si voltò e con quel gesto i riccioli si adagiarono come una stola sulle sue spalle abbronzate.
«Non voglio che mio fratello scelga chi devo assumere. Non sono affari suoi.»
«Oh, ma dai» la pregò la signora con la capigliatura pirotecnica.
«È tanto dolce e carino che mi viene voglia di pizzicargli le guance.»
L’uomo con il kilt si controllò le unghie. «Sarebbe perfetto per i miei studi di nudo.»
Ian sbatté le palpebre, togliendo la mano dal volante come se improvvisamente fosse diventato ustionante. Fece un passo indietro.
Charlee si voltò e lo guardò dritto negli occhi, con fare provocatorio e un’espressione birichina. «Vuoi davvero il lavoro?»
Ian pronunciò un sì esitante, mentre il cuore gli batteva all’impazzata.
«Abbastanza da offrirti per uno studio di nudo di King Edward?»
Dal sedile posteriore provenivano delle risatine e Ian cominciò a chiedersi se stesse per precipitare nella famosa tana del Bianconiglio di Alice.
«Ehm…»
King Edward, l’uomo con il kilt, annuì con forza.
«Io, ehm, credo di sì?»
«Te ne intendi di roba da muratori?» Charlee teneva un piede appoggiato sulla leva del cambio e Ian fece uno sforzo per evitare di fissare quella sua lunga gamba abbronzata.
«Me la cavo.»
«Piccoli lavori di idraulica, di muratura e a volte sull’impianto elettrico?» Lei si agitava sul sedile, come se stesse cercando la posizione giusta per fargli un colloquio approfondito.
Lui annuì. «Sono piuttosto bravo. Sono cresciuto lavorando ogni estate per l’impresa di costruzioni di mio padre. Facevamo molte ristrutturazioni, lavoretti, un po’ di questo e un po’ di quello.»
«Vedi, Charlee? È un esperto di un po’ di questo e un po’ di quello» fu il commento dal sedile posteriore. «Possiamo vederlo a torso nudo?»
Charlee si morse l’interno della guancia e la sua fossetta sulla sinistra diventò più evidente.
Aprendo appena la bocca, Ian sembrò implorarla silenziosamente. Era quasi certo che le sue guance fossero rosso fuoco.
Gli occhi grigi di lei mandavano scintille. «Non sarà necessario.» Ma quegli stessi occhi gli scrutarono le spalle e il petto e, cavoli, lui si sentì trattato come un pezzo di carne. E poi c’era quella fitta che gli attraversava il ventre. Quando il vento si fece più forte, Charlee si afferrò la massa di capelli con una mano. «Ti metteremo alla prova per una settimana. Ma ti avverto, non sarà facile. Io non tollero le stronzate.»
Per la prima volta, Ian sentì di avere fatto qualche progresso e che forse, soltanto forse, sarebbe riuscito a mantenere la parola data. Non si stupì nemmeno troppo quando lei gli puntò un dito in pieno petto. «E ti giuro che se il tuo scopo è quello di spiarmi, per poi riportare ogni cosa a mio fratello, ti brucerò tutti i vestiti e ti rispedirò in città, nudo.»
Ian si schiarì la voce. Forse questa era la Charlee McKinley sbagliata. Oh, ma chi stava prendendo in giro? Era esattamente come lo avevano avvertito che sarebbe stata. Anche peggio. «Capito.»
«O peggio ancora. Ti lascerò nelle mani di King Edward, che avrà facoltà di dipingerti nelle peggiori e meno lusinghiere condizioni di luce.»
Perfetto, potevano esserci delle ripercussioni, ma questo aveva ben poca importanza. Aveva ottenuto il lavoro. Il primo passo era fatto. Probabilmente anche il più importante, perché se lei avesse detto di no, sarebbe già finito tutto. «Grazie per l’opportunità.»
Per tutta risposta lei gli rivolse uno sguardo privo di emozione e, senza alcun preavviso, avviò il motore della Jeep, lasciando andare la frizione. «Seguici.»
Imboccò la strada sterrata facendo schizzare ghiaia ovunque, mentre Ian andava di corsa a recuperare la moto. La scia di polvere gli indicò la direzione. La seguì, sperando di non avere messo troppa carne al fuoco. Sarebbe riuscito ad affrontare questa sfida? Era un ex soldato con sei anni di esperienza, di cui due di stanza in Afghanistan. Eppure era bastata una sola conversazione con Charlee McKinley a farlo sentire come una giovane recluta.