1.

Nel 1960 Jay Dark non si chiamava ancora Jay Dark. Il suo nome era Jaroslav Darenski, detto Jaro, aveva vent’anni e faceva il ladro. Si introduceva nelle case dei ricchi di Manhattan, arraffava un po’ di roba, catenine, orologi, fermacravatte d’oro, e rivendeva la refurtiva ad Avram lo Zoppo, un ricettatore armeno che puntualmente lo fregava, ma del quale, tutto sommato, aveva finito per fidarsi. Anche perché in giro, dalle sue parti, non c’era molto di meglio. Per «le sue parti» Flint intendeva Williamsburg. A quel tempo Williamsburg era una zona devastata, teatro di scontri fra bande di strada e minoranze etniche piú o meno rissose, sobborghi popolari dai quali la brava gente si teneva accuratamente alla larga e nei quali persino gli sbirri avevano un certo timore a ficcare il naso. Una terra franca aperta alle scorribande di un ragazzo come Jaro: il luogo ideale per pascolare nella melma, in attesa…

Già: in attesa di che?

È probabile che lui allora già sapesse, o quanto meno confusamente sentisse, di essere «diverso». Intanto, era un solitario. Non aveva amici. E non voleva averne. La solitudine gli era amica, compagna, sorella, madre. Un ragazzo non solo diverso. Un ragazzo diverso e strano. La sua stranezza ruotava intorno alla questione della lingua.

Anzi, delle lingue.

Cominciò tutto per caso. C’era questa libreria sulla Sesta Strada che faceva affari d’oro. Il titolare, un ometto sui cinquanta, aspirante scrittore frustrato, ritirava l’incasso una volta a settimana, lasciando nel frattempo la cassa a gonfiarsi di contanti. Una sera Jaro si fece chiudere dentro, attese che il commesso abbassasse la saracinesca, si concesse un’ora prima dell’arrivo del metronotte, e quando si sentí al sicuro, uscí allo scoperto e si diresse alla cassa. Stava per darci sotto di grimaldello quando gli cadde l’occhio su un dizionario inglese-spagnolo. Flint mi disse che lui stesso, Jaro, non riusciva a spiegarsene il motivo, ma d’improvviso la cassa, e i denari che conteneva – l’unica ragione, in fondo, che lo aveva spinto a mettere piede in una libreria – persero d’importanza, e Jaro si accese di passione per il dizionario. Aveva già appreso qualche rudimento di spagnolo dai ragazzi di una gang portoricana che bazzicava nelle vicinanze del sottoscala dove viveva in quel periodo. Prese a sfogliare timidamente il dizionario, quasi con atteggiamento di religiosa devozione, cercando di ritrovare quelle poche parole che aveva imparato e di riprodurne il suono. Si accorse subito che legava con facilità frasi piú complesse. Fu una rivelazione. Leggeva, leggeva, leggeva, e assimilava con una tale concentrazione che non si accorse del trascorrere delle ore. Il rumore della saracinesca – era l’orario di apertura – lo strappò bruscamente all’esame della lettera «P». Si rifugiò in un angusto vano fra due enormi espositori e si dileguò mescolandosi ai primi clienti, col suo prezioso tesoro nascosto sotto il giubbotto.

In quel momento non poteva saperlo, ma aveva mosso i primi passi verso la sua nuova vita.

Rubava libri in lingua straniera. Si immergeva avidamente nella lettura. Ripeteva le frasi ad alta voce. Si impadroniva degli accenti e delle sfumature piú insignificanti, sino a dominare gli uni e le altre. Girava per il quartiere cercando di carpire ogni suono esotico, provocava piccole occasioni per scambiare battute con individui di ogni etnia, e sfidava sé stesso a intuire il senso e il significato delle loro parole. Rubava gioielli e orologi per sopravvivere, si nutriva di lingue straniere per sentirsi vivo.

Era stato toccato da quello che, in seguito, avrebbe chiamato «il dono».