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LA FINE DELLA STORIA

Il barista comunicò che l’ennesima spremuta di arancia era pronta. Per l’esattezza era la terza che bevevo… D’altra parte io amo quel sapore acidulo e poi fanno bene alla salute! Il succo di questi frutti, originari della Cina e valorizzati dagli arabi, sono ricchi di vitamina C e di antociani, sostanze speciali che li colorano di arancione e che sono preziosi antiossidanti per le nostre cellule.

Ma c’era un’altra ragione se ne stavo bevendo così tante.

Il bar dell’Angustina si approvvigionava di arance provenienti da un aranceto speciale, che cresce a ottocentoventitré metri sul livello del mare ed è incastonato sulle ripide pendici del vulcano più alto d’Europa. Il clima respirato dalle foglie degli alberi è sia marino sia montano e gli sbalzi repentini di temperatura tra giorno e notte uniti al vento che contiene i profumi della montagna ma anche quelli del mare rendono la polpa dei frutti assolutamente speciale! Insomma, una spremuta di una bontà unica prodotta in un territorio unico.

Ecco perché, quel giorno, ne bevvi tre bicchieri colmi. Ma anche perché ero seduto al tavolino del bar da diverse ore, mentre il mio amico si trovava nella camera sotterranea della grotta. E mentre mia nonna mi mitragliava di parole, il mio cervello era invaso da uno sciame di domande: «Cosa avrà visto Tommaso? Che storie avrà sentito? Come starà?».

Durante tutta la corsa in macchina verso la grotta, il mio amico era rimasto in silenzio, perso nei suoi pensieri, ma poi, una volta giunti davanti all’imboccatura da cui usciva un’aria gelida che sapeva di umidità e roccia bagnata, era entrato senza indugio.

Avevo visto le sue spalle che, pezzetto dopo pezzetto, venivano prese dal buio e poi lui si era voltato, ci aveva guardato e io avevo notato che i suoi occhi brillavano.

Che cosa era? Forse un raggio di sole era riuscito a farsi strada nella bocca della grotta e si era semplicemente riflesso nei suoi occhi? Eppure, vedendolo, io avevo sentito un’onda di calore venire verso di me ed entrare nel mio cuore. Un vento di affetto che trasportava parole come “amicizia” e “condivisione”.

Quello che so è che quella era stata l’ultima visione di Tommaso. Poi l’oscurità lo aveva inghiottito. Io e la nonna eravamo andati al bar, ed è lì che avevo ordinato le famose spremute di arancia in cui il gusto acidulo rincorre quello dolce facendo esplodere un fuoco artificiale di sapori armonici.

Ed è lì che, seduto a un tavolino, mia nonna mi mitragliava di parole. Parole molto belle in realtà, che io bevevo insieme alla spremuta di quelle arance che hanno respirato sia i profumi del mare sia quelli della montagna. Dorothea mi stava raccontando le storie del suo DNA. Quelle che aveva ascoltato nella grotta insieme a nonno Tonio.

Venni a conoscenza della storia di Arussi e del suo spirito, dei fratelli Impriani e della loro avventura sul Massiccio del Cilalo, e poi ascoltai la triste vicenda della dolce Minimini e, per finire, il terribile destino del truce Galamo. Insomma, di tutte le storie che l’avevano preceduta e che l’avevano resa quella che è adesso. E più mia nonna mi mitragliava di parole, più mi emozionavo. E più mi emozionavo, più mi veniva la gola secca. E più mi veniva la gola secca, più tracannavo una spremuta di arancia dietro l’altra. Nel mio palato danzavano l’acido citrico con lo zucchero della frutta, nel mio cuore si muovevano onde contrastanti di emozioni e nella mia testa ronzava ancora la preoccupazione per Tommaso.

All’improvviso questo miscuglio di preoccupazioni, gioie e sapori si trasformò in uno stormo di uccelli che prese il volo e sparì in un attimo dalla vista. Anche il fiume di parole di mia nonna si fermò di colpo, come se avesse incontrato una diga a sbarrargli il cammino.

Tutto questo perché dalla finestra del bar vedemmo comparire l’inconfondibile figura di Tommaso.

Camminava lentamente e sembrava in trance. All’inizio mi preoccupai ma poi, guardando meglio, tirai un sospiro di sollievo. Sorrideva, ma con un sorriso speciale. Uno di quelli che non finiscono quando gli angoli della bocca tornano orizzontali, ma rimangono sotto forma di luce negli occhi.

E la bella stagione anticipata risplendeva insieme a Tommaso.

E qui, cari amici, siamo giunti alla fine di questa storia: quello che successe dopo è semplice da raccontare.

Per togliersi di dosso il freddo, l’umidità e l’odore delle rocce bagnate, Tommaso bevve una cioccolata in tazza. Quella con il cacao coltivato in alcune aziende biologiche ed equosolidali di Chuao, in Venezuela.

E poi tutti e tre ci mettemmo in macchina: mia nonna alla guida, io di fianco a lei e Tommaso sul sedile posteriore. Mia nonna iniziò a pigiare il pedale dell’acceleratore e condusse la macchina fino a una trattoria di campagna. Lì mangiammo con gusto e facemmo rincorrere i sapori della cucina tradizionale insieme alle loro storie antiche come il mondo: i primi agricoltori, i grandi viaggi degli uomini, la loro intelligenza e sapienza nel miscelare gli ingredienti.

Durante il pranzo noi Procolo parlammo alla stessa velocità della macchina della nonna, mentre Tommaso rimase in silenzio.

Ma andava bene così: come ormai avevamo capito, ognuno di noi ha la propria storia che lo ha fatto chiacchierone oppure silenzioso. E tutte le storie sono intricate e racchiudono la cosa più preziosa che ci sia: noi stessi.

I giorni passarono e le mattine si trasformarono in pomeriggi, i pomeriggi in sere, le sere in notti che vennero scacciate dalla lama rossa dell’alba facendo muovere la giostra delle nostre vite e delle persone che gravitano intorno a noi.

Io e Tommaso tornammo a scuola dove trovammo ad attenderci interrogazioni, verifiche ma anche ricreazioni e chiacchiere con gli amici.

Mio padre continuò con la sua vita fatta di insegnamenti part time, di racconti per il bambino interiore e di frasi sagge (che ripeteva a tutte le persone che incontrava, conosciute o sconosciute) del suo idolo nonché mentore, il professor Antonio Morro.

Mia madre, Barbara Barnabò, con la sua solita attività al centro yoga Colombre.

Insomma, tutto come prima?

No, perché oggi, finalmente, il sole ha acceso la primavera dappertutto. I balconi e le aiuole cittadine sono pieni dei colori dei fiori e anche i palazzi, pur nel loro grigiore, sembrano luccicare di gioia.

E poi, di tanto in tanto, una farfalla bianca si insinua tra il traffico immobile dell’ora di punta e si dirige verso le corolle generose di nettare. Ma la primavera, oggi, non è solo nell’aria, è riuscita a farsi breccia nel mio cuore, che sprizza una sorgente di gioia. La quale si irradia nelle gambe che corrono e che inseguono un pallone e, quando lo incontrano, lo colpiscono così forte da inviarlo dall’altra parte del prato, oggi verdissimo, incastonato tra via Piave, via Marzabotto e via Pasubio, accanto a un grande supermercato e circondato da alti palazzi.