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IL SEGRETO DELLA GROTTA ANTICA

Il tutto si svolse durante le vacanze di Natale, periodo che passo sempre spostandomi da una casa all’altra dei miei parenti. Prima mi incontro con gli zii materni, poi vado dai genitori di mia madre, dopo mi sposto nel paese di mio nonno materno, a pochi chilometri dalla mia città.

La vigilia di Natale invece è inderogabilmente dedicata alla famiglia Procolo. E qui potrei aprire una parentesi interminabile sulla famiglia di mio padre, dato che è composta da una madre (mia nonna), un padre (mio nonno) morto qualche anno fa, e da un numeroso branco di fratelli e sorelle: sette in tutto, uno più originale dell’altro.

Vi dico solo che, come recita un motto delle nostre parti, il frutto non cade mai troppo lontano dall’albero e quindi, dato che mia nonna è una super chiacchierona, anche i suoi figli soffiano continuamente l’aria dalla gola e la modulano con la lingua e le labbra, trasformandola in un fiume di parole.

La sera del 24 dicembre, tre giorni dopo la vicenda di Tommaso, mi ritrovai nel salotto di casa di mia nonna, sommerso dal mare di suoni emessi dai miei zii e cugini.

Il mio umore non era cambiato e la solita nuvola nera incombeva sopra di me anche se, devo ammetterlo, quel ribollio di parole mi scaldava un po’ il cuore.

A un tratto, in mezzo a quei marosi fatti di domande, racconti e aneddoti, mi sentii osservato. Gli occhi di mia nonna Dorothea mi avevano afferrato e non volevano mollarmi.

Non solo: il flusso di parole che esce costante dalla gola di mia nonna si era fermato e lei mi fissava con espressione seria e attenta.

Quello sguardo riusciva a penetrarmi e sapevo che aveva già rintracciato il sasso nero posato sopra il mio cuore.

E mentre nel salotto le voci dei miei zii e cugini si univano formando un unico immenso falò di chiacchiere, mia nonna si avvicinò e, mantenendo lo sguardo serio, mi fece cenno di seguirla.

Uscimmo dalla sala, ci inoltrammo nel corridoio e ci fermammo di fronte alla porta dello studio di nonno Tonio.

Dato che, come vi dicevo, “i frutti non cadono mai troppo distanti dall’albero” e “buon sangue non mente”, i miei zii sono tutti professori, e anche mio nonno è stato un professore.

Tonio Procolo era uno stimato docente dell’università della mia città.

Mia nonna aprì la porta e l’aria, rimasta intrappolata per troppo tempo nella stanza, mi investì con il suo odore di carta e legno. Entrammo quindi nello studio e, una volta accesa la luce, mille raggi artificiali partirono dal lampadario appeso al soffitto, si propagarono alla massima velocità consentita dall’universo e rimbalzarono sugli oggetti della stanza, rendendoli visibili ai nostri occhi.

L’immagine che emerse dal buio la conoscevo molto bene: vicino alla grande finestra campeggiava la scrivania di legno ricoperta da una costellazione di libri, biro, carte e un’unica grande foto, un ritratto della famiglia durante una vacanza al mare di tanti anni fa. I giovani visi dei miei zii, di mio padre e dei miei nonni erano allegri e dall’immagine proveniva un’ondata di vita. Per un attimo mi parve addirittura di sentire le voci della famiglia più chiacchierona del mondo: un frammento di un passato remoto ancora vivo e palpitante e che aveva tutt’oggi tanto da dire. E poi c’erano le librerie: grattacieli di legno grondanti tomi di ogni dimensione. C’era la zona dedicata agli antichi egizi, e quella dei fenici; vicino alla porta, si stagliava la grande muraglia sulla vita dei romani e, lungo tutta la parete, la parte più corposa, quella relativa alla passione di mio nonno, nonché il perno dei suoi studi: il mito greco.

Mentre nonna Dorothea si aggirava per la stanza scrutando tra gli scaffali con fare attento alla ricerca di qualcosa di preciso, io vagavo tra le colonne di legno, prendendo in mano libri a caso.

Ogni pagina conteneva una magia: macchie di inchiostro capaci di trattenere una memoria antica e di mantenerla viva. Tutto questo era per mio nonno fonte di un tale fascino da averci dedicato una intera vita.

Nel frattempo mia nonna continuava a cercare: prima nella zona dei greci, poi in quella dei romani e poi in qualche cassetto. Finalmente un sorriso sottile le accarezzò il volto: aveva trovato quello che cercava. Si trattava di un libretto rilegato con una copertina di cuoio su cui erano scolpiti a fuoco il nome dell’autore e il titolo del libro: Tonio Procolo, Il segreto della grotta antica. Ebbene sì, l’autore era proprio lui, il professor Procolo, cioè mio nonno, il padre di mio padre.

Mia nonna mi porse il piccolo libro e, aprendolo, notai che le lettere seguivano il moto ondulatorio ed elegante della scrittura di mio nonno. Per dirla in altre parole: era stato scritto a mano dal professor Tonio Procolo in persona.

La visita allo studio del nonno terminò e, sempre in silenzio, ci inoltrammo nel corridoio dove, passo dopo passo, il volume delle voci dei Procolo aumentava sempre più, fino a diventare assordante quando tornammo in sala.

Sarà stata l’allegria di ritrovarsi insieme, o forse l’abbondanza di cibo e vino, fatto sta che nessuno si accorse della nostra breve assenza. Mia nonna si immerse tra i suoi figli e nipoti, la sua espressione tornò allegra e dalla sua bocca partì il solito fuoco artificiale di parole.

E così, tra un racconto e l’altro e tra mille portate, la serata si concluse e io e i miei genitori facemmo ritorno a casa.

Mi infilai a letto e, nonostante l’ora tarda, presi il libretto che mi aveva dato la nonna e iniziai subito a leggere.

TONIO PROCOLO

IL SEGRETO DELLA

GROTTA ANTICA

8 gennaio 2012

Mi accingo, questa sera, a scrivere alcune note su quanto recentemente avvenuto presso la facoltà di Storia Antica (nella quale lavoro) e che ha avuto un effetto anche sulla mia vita privata.

I giornali locali e nazionali hanno già riportato abbondanti informazioni sui fatti di cronaca. Esistono, però, dei segreti che custodisco e che nessun giornale potrà mai raccontare.

Qui parlerò delle conseguenze che questi fatti hanno generato in me.

Il giorno 22 novembre dell’anno appena passato, alcuni operai erano impegnati nel montaggio della nuovissima rete Wi-Fi presso la biblioteca della nostra facoltà.

Ebbene, mentre stavano trapanando un muro, hanno scoperto un vano segreto.

La rimozione dei mattoni ha portato alla luce una stanza delle dimensioni di dieci metri quadrati, contenente alcune pergamene. Secondo le prime analisi, effettuate dal mio staff e da quello del mio collega professor Ortiz, i fogli sono di cartapecora e risalgono almeno al I secolo a.C. Con ogni probabilità, però, sono addirittura più antichi.

Lo studio, ancora in fase preliminare, dei tratti grafici e dell’alfabeto utilizzato fa supporre che le pergamene, diciotto in tutto, siano state redatte da studiosi provenienti dalla Cina, dall’India e dalla depressione caspica.

Seppure esistano ancora delle incertezze sulla datazione delle pergamene e sugli autori, possiamo affermare che la scoperta è straordinaria e lo è per ben due punti:

1. Gli scambi tra la nostra città e le civiltà orientali sono decisamente più antichi di quanto si pensava.

2. Le conoscenze geologiche degli orientali sono straordinarie. In una delle pergamene viene descritta, dal punto di vista geologico, la zona Angustina, la quale dista dodici chilometri dalla piazza principale della nostra città. Le descrizioni delle rocce e della stratigrafia sono state visionate dal professor Gualberto Guappi, docente di Geologia presso il nostro ateneo, il quale ha appurato che le rocce citate dagli antichi studiosi sono state classificate secondo il metodo moderno elaborato da Charles Lyell nel 1830.

E con queste parole, che racchiudono lo stato dell’arte sulle pergamene ritrovate, concludo la parte che riguarda la mia sfera professionale.

Ora mi accingo a descrivere quello che è accaduto il 14 dicembre, sempre dell’anno appena passato, e per farlo devo togliermi la giacca del professore e mettermi i comodi panni di Tonio Procolo, l’uomo, il figlio che è stato e il padre che è diventato. Tonio Procolo è anche marito da più di mezzo secolo e, da qualche anno, nonno orgoglioso di una miriade di nipoti.

Ecco, quest’uomo, di anni ottantatré, ha visitato la grotta dell’Angustina il giorno 14 dicembre.

Quel giorno, io e mia moglie, armati di scarponi, torce elettriche e bastoni da montagna, ci siamo inoltrati nei cunicoli della grotta per giungere nella stanza descritta, con dovizia di particolari, nelle pergamene.

Le cose che abbiamo visto e che abbiamo ascoltato sono state meravigliose e sono entrate nel nostro cuore.

Ecco perché questa sera mi sono messo a scriverle, perché tanta bellezza va regalata e, ne sono sicuro, verrà apprezzata.

Regalo che, però, vi farò domani. In questo momento i miei ottantatré anni di vita mi stanno dicendo, con la loro voce fatta di dolori alla schiena, di profonda stanchezza e di vista annebbiata, di andare a dormire e di riprendere la stesura di questo diario domani mattina in compagnia di un buon caffè.

E quindi buonanotte, fogli ancora bianchi, ci vediamo domani mattina di buon’ora con la voglia di riempirvi delle piccole macchie nere che ci sono state tramandate dai fenici e che spero saranno di aiuto per qualcuno. A domani.

Con quel saluto finiva il libretto di mio nonno, anche se, forse, è più corretto chiamarlo il suo diario.

In realtà, Il segreto della grotta antica non terminava con le tracce di inchiostro rotonde ed eleganti di mio nonno, ma continuava sotto forma di pagine e pagine intonse. E io sapevo esattamente il motivo di questo deserto bianco.

La mattina del 9 gennaio 2012, giorno in cui le pagine bianche avrebbero dovuto riempirsi di ricordi e pensieri, mio nonno, il professor Tonio Procolo, morì improvvisamente.

Come avevo potuto non accorgermene subito! Eppure avevo letto la data all’inizio dello scritto, semplicemente non l’avevo collegata a quell’evento drammatico.

Ricordo bene quel giorno. Erano appena finite le vacanze di Natale e sia io sia mio padre dovevamo riprendere la scuola.

Erano le 7.45 e io stavo divorando una fetta di pane tostato con il miele, mentre mio padre preparava il caffè per sé e per la mamma, che ancora poltriva a letto. Contestualmente, il prof stava pensando alle lezioni che avrebbe dovuto tenere e io pregustavo l’incontro con i miei compagni delle elementari. In particolare, non vedevo l’ora di raccontare quello che mi era successo, in quei giorni di vacanza, a Tommaso.

Bene, mentre io ero immerso nei pensieri, mio padre si spostava da un lato all’altro della cucina, il caffè borbottava nella caffettiera, un’altra fetta di pane stava per abbrustolirsi nel tostapane, il cellulare di papà si mise a squillare.

«Perfect timing as ever» rispose mio padre alla vista del nome comparso sul display. Il prof ha vissuto due anni in California ed è rimasto legatissimo alla lingua inglese e ha una paura folle di perderla. Ecco perché non manca mai l’occasione di rispolverarla.

Comunque… avete indovinato il nome che con “tempismo perfetto come sempre” apparve sul display del cellulare?

Certo, era quello di mia nonna Dorothea, famosa non solo per le sporadiche chiamate ai figli ma, soprattutto, per la sua capacità di farlo nei momenti meno opportuni. Come se non bastasse e come già sapete, mia nonna è una gran chiacchierona e fermare il suo fiume di parole è un’impresa pressoché impossibile. Quella mattina, però, le cose non andarono come al solito: la voce di nonna Dorothea non era quella squillante di sempre. Con frasi spezzate e intrise di dolore, avvertì della morte di suo marito: il nonno Tonio.

Mai più scorderò l’espressione di mio padre: i suoi lineamenti, incapaci di accogliere una notizia così grande, crollarono improvvisamente mostrando un’espressione impotente. Benvenuto Procolo reagì come se avesse ricevuto un cazzotto in faccia; sferrato senza preavviso, privo di un apparente motivo e proveniente dal suo migliore amico. Non era triste, non era disperato, non versò alcuna lacrima. Era semplicemente sconvolto e incapace di reagire e di proferire parola.

I minuti passarono e io, che avevo capito che era successo qualcosa di grave anche se non avevo idea di cosa fosse, continuavo a sgranocchiare la mia fetta di pane. Poi, lentamente, il viso di mio padre riprese un poco della sua espressività e le parole tornarono, seppur con difficoltà, a viaggiare nella sua gola. Con lo sguardo simile a un automa, chiamò mia madre, ci abbracciò e quindi ci diede la notizia terribile. Si vestì, scese per strada, dove l’attendeva la sua fedele bicicletta, e si recò a casa dei suoi genitori, luogo che aveva accolto la sua infanzia e quella dei suoi numerosi fratelli.

Arrivato da mia nonna, mi raccontò poi, si strinse attorno ai suoi fratelli e sorelle e tutti insieme a mia nonna.

Il resto è storia: passato qualche giorno, esattamente il 12 gennaio 2012, ci fu il funerale che venne celebrato nella chiesa vicino a casa dei miei nonni. La partecipazione fu colossale.

Mio padre, i suoi fratelli e mia nonna erano seduti di fronte alla bara ed erano così vicini, l’uno contro l’altro, da formare una sorta di muro umano. Di fianco a loro c’erano, anch’essi seduti uno accanto all’altro, tutti i fratelli di mio nonno. Dietro di loro c’eravamo noi: tutti i nipoti con le nuore e i generi di mio nonno. Alle nostre spalle un oceano di visi seri e di vestiti scuri. Era la massa di colleghi, autorità, amici, studenti vecchi e nuovi, e tanti, tantissimi conoscenti. Persone che avevano incrociato mio nonno in qualche strada secondaria della vita e che non erano rimasti indifferenti a tale incontro.

Tra i ricordi più vivi di quella giornata c’è il prete che racconta delle trame segrete di Dio, c’è mio padre che va sull’altare e legge una lettera scritta al padre defunto e poi ci sono le persone che, in fila ordinata e silenziosa, aspettano il loro turno per abbracciare mia nonna e dirle sottovoce una parola di conforto.

Sono tante le immagini che emergono dalla mia memoria: tutte nitide e vive e non solo tristi. Risulta impossibile, infatti, passare un’intera giornata con i fratelli Procolo senza un aneddoto divertente, una battuta e una risata. E infatti, dopo il funerale, ci recammo in un ristorante, le parole tornarono a scaldare l’atmosfera e qualche sorriso comparve nuovamente sui nostri visi.

Il pasto si concluse con le parole spezzate, più dalla commozione che dal dolore, di mia nonna: «Questo pranzo è offerto dal nonno Tonio».

Dorothea, infatti, aveva pagato il conto con i soldi trovati nel portafoglio di suo marito.

Ed è così che si concluse un’era e ne incominciò un’altra.

Ecco, questa è la storia come l’ho vissuta io ma, ovviamente, non è l’unica versione. Ce ne sono tante altre e, prima di affrontare la discesa nella grotta, vi vorrei raccontare (brevemente, non temete) quella di mia nonna Dorothea. Versione che ho ascoltato milioni di volte.

I miei nonni, come molte persone anziane, vivevano incastonati in una serie di abitudini che il tempo aveva reso inossidabili. Una di queste riguardava il rito del risveglio mattutino.

La sveglia in casa dei nonni Procolo suonava alle 6.50 del mattino. Dopo esattamente un minuto, cioè alle 6.51, mio nonno si alzava, si dirigeva in cucina e accendeva il gas sotto la caffettiera, già pronta dalla sera prima.

Mentre il caffè saliva, mio nonno apparecchiava la tavola, preparava le fette di pane tostato con il miele e poi, quando il borbottio della caffettiera si espandeva nella cucina, versava il liquido bollente nelle tazzine bianche e blu. Poi le riponeva sul vassoio di legno colorato di rosso, insieme a due bicchierini di acqua e due biscotti al cioccolato.

Con il vassoio in mano faceva ritorno in camera, porgeva la tazzina, il bicchierino e il biscotto alla moglie e poi, insieme, sorseggiavano il primo caffè della giornata sdraiati a letto. Dopodiché entrambi si alzavano, terminavano la colazione in cucina e poi ognuno si metteva in marcia per consumare la giornata: mio nonno nel suo studio o all’università (era professore emerito), mia nonna a casa, anche lei a scrivere o leggere.

La mattina di quel fatidico 9 gennaio 2012 si ruppe la routine consolidata e resa granitica dai numerosi anni passati insieme.

La sveglia suonò come tutti i giorni alle 6.50 ma, giunte le 6.51, mio nonno non si alzò. Anzi, chiese a mia nonna di andare in cucina e accendere lei il fornello per preparare il primo caffè della giornata. Stupita, ma non preoccupata, Dorothea si recò in cucina, preparò il caffè che versò nelle tazzine bianche e blu che ripose, insieme a due bicchierini di acqua e due biscotti al cioccolato, sul vassoio di legno dipinto di rosso. Rientrando in camera, trovò mio nonno sdraiato sul letto con gli occhi chiusi mentre dallo stereo uscivano le note potenti e soavi di La passione secondo Giovanni di Johann Sebastian Bach. Mio nonno, accortosi della presenza di sua moglie, disse solo questo: «Che musica bellissima!».

E dopo una vita spesa a cercare parole, a ordinarle, metterle al sicuro nei libri e negli articoli, quelle furono le ultime pronunciate dal professor Tonio Procolo.

I due anziani bevvero il caffè in silenzio ascoltando, insieme, la musica del compositore tedesco. Senza dirsi niente, mia nonna capì che toccava solo a lei, quella mattina, alzarsi e andare a preparare la vera colazione. Abbrustolì le fette di pane, le ricoprì con l’oro del miele, fece gorgogliare dell’altro caffè dalla macchinetta e aspettò mio nonno, che però non arrivava. Solo a quel punto iniziò a preoccuparsi e tornò in camera per controllare cosa stesse facendo suo marito.

Le note del capolavoro barocco ancora uscivano dallo stereo ma mio nonno non le ascoltava più. Il suo corpo era lì, sdraiato sul letto, mentre la sua anima si era volatilizzata. Dove era andata? Nessuno lo sa.

Il resto è noto. Mia nonna chiamò l’ospedale, un medico si precipitò a casa Procolo, ma la sua unica azione fu quella di sancire burocraticamente quello che era successo: mio nonno, Tonio Procolo, era morto e non sarebbe tornato mai più.

Fu solo a quel punto che Dorothea chiamò uno a uno tutti i suoi figli e, alle 7.45, mentre stavamo facendo colazione, arrivò il turno di mio padre, il quale accolse la telefonata con la frase “perfect timing as ever”!

Poi ci fu il funerale e quindi il pranzo con i parenti e, ancora, il periodo di lutto in cui i fratelli Procolo si strinsero gli uni con gli altri e, soprattutto, attorno a mia nonna.

Ebbene, quei ricordi che avevo ormai accantonato da anni avevano ripreso improvvisamente vita e ora mi pulsavano tra le mani sotto forma del libro incompiuto di mio nonno. Quel pezzo di vita non solo era tornato ma mi si era insinuato dentro accendendo una tempesta emotiva.

Le ore della notte, con la loro calma, addolcirono la furia della tempesta, rallentarono il mio respiro, chiusero le mie palpebre e mi accompagnarono in un sonno agitato e pieno di sogni che, però, non lasciarono alcuna traccia consapevole al mio risveglio.

Il giorno successivo, Natale, trascorse in una apparente normalità: io e i miei genitori ci scambiammo i regali su lettone, facemmo colazione, ci vestimmo bene e andammo a pranzo a casa dei nonni materni. Poi pranzo pantagruelico, baci e abbracci con le zie e gli zii, regali a profusione e, per finire, arachidi, mandarini e tombola.

Sinceramente, solo una parte di me partecipò a queste attività. L’altra, quella più viva, pensava a un’unica cosa: telefonare a nonna Dorothea.

Finalmente, arrivò la sera e i miei genitori, spossati, si spaparanzarono sul divano. Io invece mi chiusi in camera e digitai il numero di mia nonna sul telefonino. Lei rispose immediatamente come se già sapesse che l’avrei chiamata.

La conversazione fu breve, semplicemente le dissi che avevo letto il diario e che, sia lo scritto sia le pagine bianche, mi avevano colpito nel profondo.

Nonna non si dilungò in chiacchiere e mi propose di accompagnarmi alla grotta dell’Angustina; grotta i cui cunicoli percorrono sinuosi le viscere della Terra per ben settanta chilometri e che secondo alcuni è stata costruita, in tempi remoti, da monaci orientali e, secondo altri, si trova nel bel mezzo di un crocevia elettromagnetico.

E fu così che il giorno 29 dicembre 2019, finiti tutti i festeggiamenti del Natale, mi ritrovai a bordo dell’automobile di mia nonna con destinazione la grotta dell’Angustina!

Per l’occasione mi ero preparato al meglio: scarponi da montagna, pile invernale e giacca a vento 96% poliestere, 4% elastan. Cuoio capelluto e orecchie erano protetti da un berretto di lana biologica e le mie mani, foderate da guanti sempre di lana biologica, stringevano una torcia elettrica provvista di tre differenti modalità di luce: alta, bassa, stroboscopica. Non solo, la sua potenza arrivava fino a novemila lumen e, per finire, era a prova di scivolo e resistente all’acqua.

Il viaggio durò venti minuti (l’Angustina si trova alle porte della mia città), mia nonna parcheggiò la macchina e disse che mi avrebbe aspettato al bar che dista cento metri dall’imboccatura della grotta. Poi mi diede un bacio, mi augurò “in bocca al lupo” e si allontanò.

E ora non mi resta che portarvi con me nei cunicoli di quella grotta che ospita una magia, grazie alla quale le cose senza voce possono parlare e quelle invisibili finalmente si scorgono.

Lei era lì, di fronte a me, con il suo antro oscuro simile alla bocca di un gigantesco animale addormentato. Dalla sua gola usciva un alito gelido che odorava di pietra bagnata, di muschio e di umidità. Mi bastava percorrere qualche metro, accendere la mia torcia elettrica a novemila lumen e dal design innovativo per scoprire i segreti che mio nonno avrebbe voluto raccontare nel suo diario.

E invece l’insicurezza si insinuò dentro di me e prese la forma di gambe tremanti e di un turbinio di domande: «Chi me lo fa fare?». «Perché mai dovrei scendere nei cunicoli freddi, bui e pure pericolosi?» «Non sarebbe meglio andare al bar con mia nonna, sorseggiare una bella cioccolata calda e riprendere la vita di sempre?» «Cosa mi importa, in fondo, dei segreti di questa stupida grotta?»

Ma l’insicurezza trovò, dentro di me, anche un’altra forza: quella della curiosità. Questo sentimento si fece strada infondendomi una gran voglia di camminare e dando origine a un altro vortice di domande: «Cosa c’è là dentro?». «Perché mia nonna vuole che entri?» «Cosa ha scoperto mio nonno?»

Dentro di me le due legioni, una formata dalla paura e l’altra dalla curiosità, si fronteggiarono, si scontrarono e si diedero battaglia. Dallo scontro emerse un unico vincitore. Fu lui ad accendere la torcia da novemila lumen, con tre differenti modalità di luce, a prova di scivolo e resistente all’acqua. Sempre lui inviò energia alle mie gambe, che si mossero e che mi portarono all’interno della gola di quell’animale vivo e fatto di pietra, dall’alito gelido e dall’odore di roccia bagnata e muschio.

E fu così che mi trovai a camminare immerso nel buio profondo della grotta. La strada, in realtà, era piuttosto semplice da percorrere: il sentiero era lineare, in leggera discesa e privo di massi pericolosi da aggirare. Non trovai neanche degli strani bivi che mi costrinsero a decisioni impossibili. Mentre camminavo, e lo feci per almeno quattro chilometri,il fascio di luce emesso dalla torcia frantumava il muro nerissimo che si stagliava davanti a me.

Pezzetti di buio scappavano veloci al mio passaggio per ritornare immediatamente tra le rocce e tra gli anfratti appena mi allontanavo. Quel luogo, infatti, apparteneva di diritto all’oscurità, che ci abitava solitaria da milioni di anni.

Di passo in passo, vidi un riverbero bluastro provenire da alcune rocce che fasciavano un’apertura nel cunicolo. Un’ampia camera illuminata naturalmente. Che si trattasse di un’allucinazione? Un amico di mio padre, appassionato speleologo, mi aveva raccontato che dopo aver passato tante ore al buio, si iniziano a vedere cose che non esistono.

E, invece, il brillio che avevo notato non era frutto della mia fantasia, non proveniva dalla mia mente, ma dai sassi che costellavano lo spazio allargato della caverna.

Mi fermai esattamente al centro di quello slargo illuminato come per magia, spensi la torcia e scoprii che le parole scritte da mio nonno prima di morire erano vere: in quel luogo le cose senza parole raccontano delle storie e l’invisibile diventa visibile.

La magia era così grande e così inaspettata da mettere in secondo piano la luce delle rocce che, ora, mi sembrava normale. La vera magia era un’altra.

Come posso spiegarvi quello che accadde?

Ci provo in questo modo: noi tutti sappiamo che il nostro cervello “parla”, e lo fa grazie a delle piccole scariche elettriche scambiate tra cellule neuronali. Queste micro-scosse si trasformano in pensieri e immagini. Gli impulsi elettrici vengono poi elaborati e trasformati in parole. Anche il cuore, la pancia e la gola emettono queste scariche che, in questo caso, diventano emozioni.

Il cuore parla una lingua più difficile di quella del cervello e, di conseguenza, risulta piuttosto complesso trasformarla in parole. Ecco perché esistono il disegno, la musica e tutte le altre forme di arte: per esprimere le voci che si muovono nel cuore e nella pancia.

Ebbene, tra il chiarore bluastro della stanza nascosta dai chilometri di roccia, tra l’aria intrappolata in quella gola da millenni, non solo il cervello e non solo il cuore sanno parlare.

Mille voci, ciascuna proveniente da ogni singola cellula, si unirono in un coro perfettamente armonizzato. In realtà, per essere precisi, quelle voci uscirono da una parte della cellula. Una zona protetta da una membrana che contiene, avviluppati uno sull’altro, dei filamenti sottili e lunghi. Ecco, sono loro che parlarono e che, all’interno di quella caverna, mi raccontarono la propria verità. Una verità tramandata da milioni di anni da una molecola piuttosto complessa.

Quello che ho sentito mi ha aiutato a uscire dal mio periodo nero come il fondo buio di quella grotta, gelido come il suo alito ghiacciato.

Ma qui, cari amici, mi fermo e vi riporto la sue parole, le parole del vero protagonista di questa storia: l’acido desossiribonucleico.