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LA VERSIONE DI TOMMASO
«Ma chissà poi perché ho accettato? Cosa mi è saltato in mente? E chissenefrega dei miei parenti antichi come il mondo (come dice Sebastiano).»
Questo è quello che pensavo mentre sfrecciavo verso la grotta dell’Angustina. Eppure eccomi lì, diretto proprio alla famosa caverna all’interno della quale, come dice il mio amico Sebastiano, l’invisibile diventa visibile e le cose senza parole iniziano a parlare. Cos’avranno poi da dire le cose senza parole e cosa avranno da mostrare le cose invisibili? Nulla di nulla, esattamente come i parenti che, antichi come il mondo, sono ormai morti e sepolti da secoli. Mannaggia a Sebastiano e alla sua parlantina! A quell’ora potevo essere spaparanzato sul divano davanti alla PlayStation, e invece…
Il mio cervello rimuginava, mentre il paesaggio fuggiva veloce dal finestrino della macchina di nonna Dorothea. Io, oltre a maledire il destino, ascoltavo i dialoghi dei miei compagni di viaggio, seppur distrattamente e a fatica.
In realtà i racconti della famiglia di Sebastiano sono sempre interessanti: i Procolo sono capaci, infatti, di trasformare con le parole un fatto normalissimo in qualcosa di straordinario.
Hanno però due problemi: parlano a una velocità di molto superiore a quella a cui andava la macchina. Ed è tutto dire… visto che la signora Dorothea costringeva la piccola utilitaria a lanciarsi a tutta birra per le strade di campagna. E poi, quando i Procolo sono insieme, come quella mattina, fanno uscire dalle gole il fiume di parole contemporaneamente, formando una nuvola sonora comprensibile solo ai membri di quella famiglia. E noi esseri umani normali percepiamo un suono simile a quello di uno sciame di calabroni, nulla di più.
Quella mattina, seduto sul sedile posteriore della macchina, con l’orecchio ascoltavo il ronzio dei due Procolo, con la mente maledicevo la mia decisione di visitare la grotta e con lo sguardo osservavo il paesaggio che cambiava velocemente forma e colore.
«Ma allora,» direte voi «perché hai detto “ci voglio andare anche io” e perché non ti sei rimangiato le parole?».
Perché una parte di me moriva dalla voglia di andare dentro la grotta dell’Angustina e ascoltare i segreti del mio DNA.
Dovete sapere, infatti, che i miei genitori, ma anche i miei nonni, sono persone di poche parole e io non so praticamente nulla né dei Pirovano né degli Impriani, cioè la famiglia di origine di mia madre.
Di tutta la massa dei miei parenti, io possiedo solo poche e sfilacciate notizie.
Per esempio, so che mio padre lavora nel campo dell’agricoltura e si occupa di patate. È laureato in Agraria e da molti anni è il responsabile della produzione di una varietà di patata coltivata solo nella nostra zona e famosa in tutto il mondo. Ecco perché è spesso in viaggio: Stati Uniti, Berlino, a volte anche in Africa… Insomma, viaggiando così avrà tante avventure da raccontare, direte voi. E invece no, gli unici argomenti che mi riporta sono relativi al tubero di origine americana: la migliore patata fritta si mangia in Belgio, negli Stati Uniti d’America esiste una varietà perfetta per essere cotta al forno… Tutto lì, nessun racconto sulle immense pianure americane, neanche una parola sulla capitale culturale dell’Europa e nessun cenno sull’Africa e i suoi misteri. Ah, dimenticavo, mio padre si chiama Giacomo. Giacomo Pirovano, ovviamente.
Passiamo a mia madre Teresa, Teresa Impriani. Teresa lavora presso un grande centro commerciale e si occupa degli acquisti. Cosa mi racconta del suo lavoro? Indovinate un po’: nulla. Quando torna a casa mi chiede distrattamente della scuola e poi basta, il silenzio regna sovrano.
Il dialogo tra i miei genitori? Il tema principale sono le patate: mio padre chiede a mia madre come procedono al supermercato le vendite delle “pepite della terra” e mia madre gli risponde con qualche numero. Ecco qua i dialoghi di casa Pirovano.
Ah, dimenticavo di dirvi che entrambi i miei genitori sono originari di una città di mare dove si sono conosciuti, sposati e dove è nato mio fratello maggiore, Matteo. Quando lui era molto piccolo, si sono poi trasferiti qui, dove abitiamo ancora e dove Giovanni e io siamo nati.
A proposito, i miei due fratelli: Matteo il grande e Giovanni il medio, entrambi al liceo. Cosa ci diciamo tra noi? Poco e niente. Tra noi regna un oceano di disinformazione.
So pochissimo anche dei miei nonni. Le sole notizie a disposizione riguardano il loro lavoro: i miei nonni, entrambi in pensione, facevano uno il pescatore e l’altro il commerciante di sementi.
Nonno Tino, il padre di mia madre, ama il pesce ma odia l’acqua. Ecco qua, finita la storia. Non so quali avventure abbia vissuto in mare, non conosco i suoi amici, non so come abbia conosciuto mia nonna Roberta. So solo che ha trascorso una vita in mezzo al mare. E che la salsedine e il vento non gli hanno tolto le parole ma gli hanno solcato il viso con mille rughe profonde.
E mio nonno paterno? Si chiama Saverio, Pirovano ovviamente, e di lavoro commerciava mais e grano. Anche lui parla con il contagocce ma può addirittura diventare prolisso su un tema: l’Inghilterra. Quando lavorava, si recava spessissimo oltre la Manica e, chissà perché, quella terra gli è entrata nel cuore. I suoi racconti sulla Gran Bretagna, però, sono sempre uguali e riguardano solo il cibo.
Ma anche di lui non so altro. Non ho idea di chi fossero i miei bisnonni, non so esattamente cosa facessero i miei nonni nella vita privata, insomma, i discorsi della mia famiglia assomigliano ai ruscelli di pianura in estate: completamente secchi.
E ogni tanto mi chiedo: forse i miei parenti sono così parchi di parole perché hanno paura di tirarle fuori? Forse temono che se uscissero all’esterno, le parole porterebbero con sé un passato doloroso che nessuno di loro vuole evocare? Ma queste sono, ovviamente, solo delle mie opinioni e non ho una reale idea del perché stiano sempre zitti. Poveri di parole, ma non di entusiasmo. Basti pensare che entrambi i miei genitori, ma anche noi fratelli, appena possiamo ci carichiamo di corde e imbragature e andiamo a visitare i boschi attrezzati: salire e scendere dalle fronde è la nostra passione.
Ora capite che, non conoscendo neppure il mio passato prossimo, il racconto di Sebastiano sugli antenati antichi come il mondo accese la mia curiosità.
In realtà, c’è un’altra ragione che mi ha spinto a pronunciare la fatidica frase “ci voglio andare anche io” e che non mi ha permesso di rimangiarmela. Una ragione nascosta, che non ho ancora rivelato a nessuno.
Agli occhi di tutti, io sono un ragazzo sereno e senza problemi, che si fa poche domande e che vive alla giornata. Non sono di certo uno studente modello, non mi ammazzo di studio, ma un dignitoso sei meno meno lo porto sempre a casa. E dato che la mia famiglia, come avete intuito, è piuttosto permissiva, il mio tempo libero è occupato principalmente dalla PlayStation e dal divano di casa e tutti, i miei genitori, i miei professori e pure i miei amici, sono convinti che io sia un ragazzino sereno. Ebbene, questa è solo una parte della realtà. Da qualche tempo, delle strane sensazioni mi vengono a visitare. Per esempio: sto giocando alla Play? Ecco che mi sale un po’ di tristezza. Sto mangiando una bistecca? Un senso di noia si fa largo dentro di me. Mi sto per addormentare? Arriva a trovarmi la domanda: «È tutto qui?». Seguita da: «Davvero non hai voglia di avventure?».
Inquietudini e domande che cercano di rompere la mia routine ben consolidata.
Quando è iniziato tutto questo? Non ve lo so dire con precisione.
La mia vita andava a gonfie vele quando, chissà da dove, è arrivata la prima sgradevole sensazione. Per spiegarvelo potrei usare una metafora alla Sebastiano: è come l’inverno che arriva nella nostra città e lo fa in maniera sommessa, senza farsi vedere. All’inizio, verso ottobre, fa comparire una giornata piuttosto fredda, ma subito dopo ricopre il cielo di un azzurro quasi estivo e alza la temperatura. Dopo qualche giorno, ecco che getta un po’ di pioggia, non tanta in verità. E poi accorcia di qualche minuto le ore di luce, gradualmente, senza farsi notare. Lentamente, pezzetto dopo pezzetto, si prende sempre più spazio finché una mattina, quando esci per andare a scuola, ti trovi in mezzo al gelo e le giornate sono brevissime.
Ecco, così è andata per me: prima un pensiero buio ogni tanto, poi un po’ di tristezza qua e là e… ora ho una paura terribile che queste sensazioni, esattamente come l’inverno che ricopre per mesi la città, si prendano una parte della mia vita. Per questo ho detto la famosa frase: “Ci voglio andare anche io”.
E poi, visto che sono in vena di confidenze, vi confesso l’ultima della ragioni. Quella mattina, nel prato vicino a casa, ho guardato Sebastiano negli occhi. E ho visto una luce nuova, una voglia di vita che sono quasi sicuro prima non ci fosse. Sarà stata quella scintilla nelle sue pupille, sarà stata la sua espressione distesa, fatto sta che mi ha assalito una gran voglia di vita, di scrollarmi di dosso la pigrizia e di gettarmi a capofitto in qualche avventura.
Questi sono i fatti che mi spinsero a salire sulla macchina di Dorothea che, sfrecciando per la campagna, quella mattina mi portò dritto davanti alla grotta dell’Angustina.
Sebastiano aveva pensato a tutto, equipaggiamento compreso: si era assicurato che indossassi degli indumenti caldi e poi, dopo avermi stordito con mille particolari, mi aveva prestato, per incredibile concessione, la sua pila fornita di mille qualità di cui ne capii solo una: era molto potente.
Insomma, dopo aver corso attraverso la campagna, la macchina guidata dalla signora Dorothea si fermò nel parcheggio di fianco alla grotta dell’Angustina.
Furono sufficienti pochi passi e mi trovai di fronte alla bocca, piuttosto inquietante, della fatidica caverna. Dalla sua gola profonda e nerissima usciva un’aria gelida intrisa di umidità.
«Chissà che paura…» vi starete dicendo.
E invece, sarà stato il sole che quel giorno splendeva come se fosse primavera oppure la voglia di stare un po’ in silenzio, fatto sta che le mie perplessità si volatilizzarono lasciando il posto a una voglia irresistibile di entrare. Dentro di me, una legione coraggiosa di sentimenti non vedeva l’ora di incontrare i parenti antichi come il mondo e di ascoltare le loro storie.
Ecco perché salutai velocemente Sebastiano e sua nonna (che mi avrebbero aspettato nel bar vicino) e, con passo deciso, mi inoltrai nella grotta: la grotta dell’Angustina.