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San Salvador

You’ve got a way to keep me on your side.

Johnny Cash

 

 

Devo ammettere che non seguimmo una sola parola del consiglio di Jerry Only. Quella notte io e Giulio tornammo in albergo molto tardi, mentre il resto della truppa non fu in grado di ritrovare l’hotel e rimase a dormire presso gli stand del festival.

Rimanemmo anche il giorno seguente come ospiti dell’organizzazione: una delle nostre band preferite, i No Fun at All, si esibiva per l’occasione dopo molti anni di assenza dai palchi. Dopo averli visti dal vivo ribadii a me stesso che era meglio non andare a sbirciare troppo certi miti stagionati: stanno bene là, nella teca dei propri piccoli idoli personali.

Al festival eravamo benvoluti: dagli organizzatori agli spillatori di birra dell’ultimo chiosco in fondo all’area, tutti sembravano fare a gara per esprimerci la loro ospitalità (nel modo tipico del nostro mondo). Purtroppo, è più facile inciampare laddove il terreno è scosceso e quella seconda notte fu un mezzo delirio. Con la scusa che non dovevamo suonare, non valeva la regola del trattenersi prima del concerto. Dopo dieci mesi a casa, i miei compagni diedero il meglio.

A metà del minitour, ci fermammo per due day–off in Portogallo, a Lisbona. Ricky, Lemma e il fonico erano alle prese con dissenteria e vomito che attribuivano a qualche cibo mangiato in quei giorni. Mi colpì la loro convinzione!

Quel malessere, però, toccò anche me. Di certo non per un’intossicazione alimentare, bensì per una megasbronza durante l’aftershow del concerto di Oviedo. Complici tanti fattori, quella sera avevo perso anche io il controllo.

Il giorno seguente eravamo tra i protagonisti dell’Azero Rock Festival di Santander, dove avevamo già suonato in altre occasioni. La nausea dalla notte precedente purtroppo non mi abbandonava e, per la prima volta in vita mia, fui costretto a interrompere il concerto. Ricky, Boston e Lemma, nell’attesa che rientrassi, e per spezzare l’imbarazzo, proposero un brano da soli. Mentre provavo a vomitare di fianco al palco, li ascoltavo eseguire Ace of Spades dei Motorhead nella versione da noi rivisitata. Era una situazione assurda: sentivo la mia band suonare senza di me e intanto mi guardavo con disprezzo, incapace di portare a termine il mio impegno.

Per le consapevolezze acquisite, quella caduta mi sbatteva in faccia la mia fragilità ancora evidente. Stavo pagando la mia notte brava e mi chiedevo se fosse stato solo uno scivolone accidentale o se nascondesse altro, di più profondo. Sapevo bene, infatti, che le sbronze hanno molte facce e varie ragioni, alcune palesi, altre nascoste; sta di fatto che l’alcol richiama a sé l’animo in cerca di un varco, di una via di fuga, di una strada diversa nella quale trovare qualcosa che da sobrio non afferra o magari castra.

Io in quel periodo non stavo bene. Non stavo bene con me stesso, con quel piede che tenevo in due scarpe, con quello che stavo facendo, con i sensi di colpa per il mio passato. La crisi iniziata l’anno prima non era finita, anzi, più passavano i mesi e più mi stava attraversando. L’incontro con Gesù non aveva trasformato la mia vita nel giardino dell’Eden, piuttosto aveva aperto i miei occhi e il mio cuore, rendendoli capaci di vedere ciò che avevo loro nascosto.

Gesù, l’Eucaristia, il silenzio, la preghiera avevano portato nella mia vita il fuoco che purifica e la spada che taglia, entrambi noti d’altronde per non essere teneri. Quando posavo lo sguardo sulla fulgida luce che avevo scoperto, trovavo sempre la forza di essere migliore, ma tutt’attorno pareva esserci solo un mondo che cercava di distogliermi da quel bagliore di farmi credere che fosse solo un’illusione. Era una lotta, l’eterna lotta, di cui io però non avevo ancora reale consapevolezza.

Non era mai accaduto che la mia band fosse sul palco senza di me. Nella trama dei giorni tutto ha un suo significato e quella era la perfetta trasposizione di ciò che era già ormai palese a livello interiore. Quanto portiamo dentro, prima o poi, si trasferisce anche all’esterno.

Giunse l’ultimo concerto. Per la prima volta suonammo a Burgos e fu uno show memorabile.

Il locale era sold out, le persone non potevano nemmeno muoversi tanto erano accalcate. Ricordo che il pubblico cantava talmente forte da superare la mia stessa voce al microfono… Era stupendo ascoltare in quanti mi facevano il coro. Mentre ero lì, grondante di sudore su quel piccolo palco a millecinquecento chilometri da casa, incrociando gli sguardi di tutti quei giovani entusiasti, fu davvero dura trattenere le lacrime. Pensavo ai propositi che avevo fatto e intanto qualcosa in fondo al cuore mi diceva che concerti come quello forse non ne avrei più fatti.

A fine esibizione ci fu un tripudio. Ci lanciammo sul pubblico, che a sua volta ci lanciò in aria. Subito dopo, però, appena tornato con i piedi a terra, me ne sgattaiolai al piano superiore del club per stare da solo. E lì scoppiai a piangere, un pianto amaro che durò a lungo.

Ricky salì e mi trovò disteso su una panca del camerino: «Francy, cos’è successo? Stai male?!».

«No. Lascia stare».

Eravamo entrambi ancora madidi di sudore.

«Perché non vieni giù? C’è tutta la gente che ti aspetta!»

«Non me la sento, Ricky. Non vedi come sono messo?»

«Sì, ma domani torneremo a casa, bro». (“Bro” sta per brother.)

«Cosa sto facendo? Cosa stiamo facendo, Ricky? Non capisco più nulla. Le mie scelte… insomma, non mi sento più me stesso in questo ruolo, eppure pensare di lasciare tutto ciò mi fa stare terribilmente male! Sto di merda! Non mi capisco…»

Ero veramente triste.

Ricky, che mi conosce come le sue tasche, mi abbracciò e mi disse: «Fratello, siamo ancora qui. Tu hai sempre visto prima di noi e anche stavolta troverai la strada giusta, ne sono certo. Come so che ti ho fatto stare di merda un sacco di volte e ti prego di perdonarmi. Anche io non voglio che tutto questo finisca»..

Per quanto Ricky fosse altalenante nell’umore e nella vita, rimaneva l’amico con cui avevo vissuto più cose e lui sapeva ancora parlare al mio cuore.

Tornati a casa non pensai più a quei giorni. Aspettavo soltanto notizie dalle case discografiche e da Morini. Purtroppo, però, si facevano attendere.

Mi sentivo nelle mani di personaggi che usano dire: «Ti faremo sapere presto» con la leggerezza di un intercalare, noncuranti dell’importanza che certe parole hanno nella vita delle persone.

La mia quotidianità era parcheggiata in un limbo lavorativo. Nonostante ciò, ero convinto che appena avessi ricevuto la proposta di Carosello, le cose si sarebbero rimesse in moto, senza sapere invece che di lì a breve quel limbo si sarebbe trasformato in un inferno.

A settembre inoltrato non c’era ancora alcuna novità. Decisi di volare a Maiorca con Valentina, con cui nel frattempo avevo iniziato seriamente una relazione.

La prima volta che ero stato nell’isola delle Baleari era il luglio del 2000, quando avevo convinto un gruppo di amici a prendere al volo una vacanza low–cost. Alloggiavamo in un tremendo hotel sul porticciolo di Can Pastilla e, se ci fossimo arresi a stare una settimana in quell’agglomerato di cemento, ci saremmo fatti un’idea terribile dell’isola. Invece, grazie a dei motorini scassatissimi, avevamo passato intere giornate a girarla, in due, a quaranta chilometri orari. Ma ne era valsa la pena perché era un sogno.

Ho visitato una trentina di Stati nei cinque continenti, ma alla fine Maiorca è il luogo a me più caro in assoluto, il mio grande amore. Per questa ragione, al termine di quella amarissima estate del 2008, ci tornai con la speranza di trovare una risposta.

Pur essendo con Vale nella terra che più amavo, continuavo a non essere felice. I pensieri, i rovelli, le angosce mi seguivano ovunque.

Tutte le mie insicurezze, di fronte alla pace di quei luoghi straordinari, emergevano sempre più. L’unica cosa che mi donava sollievo era girare l’isola senza una meta precisa, contemplarne la bellezza, la purezza, la natura e condividere tutto ciò con Vale.

Il 19 settembre stavamo percorrendo una stradina piena di curve, costruita tra le montagne a strapiombo sul mare nella parte settentrionale. Improvvisamente sentii di dover girare a sinistra, ma non vidi nessuna strada da imboccare e così tirai dritto. Dopo qualche minuto risentii la stessa voce interiore che insisteva nel dirmi che dovevo tornare indietro e girare. Mi fidai. Feci inversione e in effetti mi accorsi di una piccola strada sterrata che prima non avevo visto. La imboccai e, con mia sorpresa, mi ritrovai in un piazzale abbastanza ampio con molti ulivi. Parcheggiai lì. Più avanti si scorgeva un’antica costruzione bianca e così ci incamminammo. Era una specie di casa museo e vi era un guardiano anziano che parlava solo catalano.

Entrammo e avvertii dei brividi, senza capire perché. Era davvero un luogo senza tempo. Sulle pareti erano presenti oggetti di vario tipo: abiti, libri, quadri e degli strani schemi nei quali scorgevo dettagli che avevano a che fare con la Bibbia, i Vangeli, la Kabbalah, l’astronomia, la fisica, la botanica… e il centro di tutto era il Cristo. Ero senza parole. Non coglievo appieno il significato di quegli schemi, ma ne ero completamente rapito.

All’interno delle stanze trovai alcune informazioni sulla storia di quel luogo. Si trattava del Collegio di Miramar, fondato e voluto dal beato Raimondo Lullo nel 1276, lo stesso autore dei disegni che tanto mi affascinavano.

Il collegio era costruito quasi a strapiombo sul mare e godeva di una vista mozzafiato; quel luogo condensava un mix straordinario di bellezza, natura e armonia. Nei giardini adiacenti mi sentii in pace con me stesso, non so nemmeno dopo quanto tempo.

Rientrato nella casa museo cercai ulteriori informazioni e scoprii che quel Raimondo Lullo aveva avuto una vita pazzesca: dopo varie visioni di Gesù in età adulta, ebbe una radicale conversione e divenne teologo, logico, mistico, filosofo, scrittore, e missionario spagnolo tra i più celebri e studiati dell’Europa del tempo. La Chiesa lo ricorda il 30 giugno. Tenete a mente questa data.

Io e Valentina eravamo profondamente emozionati e grati per quell’inaspettato regalo e, quando il sole iniziò a calare, sentii l’esigenza di andare a San Salvador. La mia “casa”.

Molti hanno sperimentato cosa significhi trovarsi in un luogo che pare parlare proprio a sé; non c’è la necessità di credere per forza in un Dio per sentire un feeling innato verso una località, una montagna, una casa, un deserto. Si sente e basta.

San Salvador è un monastero posto su un’altura a sud dell’isola di Maiorca. Quando ci arrivai nel 2002, ben prima del mio risveglio spirituale, sentii che quel luogo per me era “casa”.

Dopo l’ispirante incontro con Lullo attraverso il suo Miramar, arrivare in cima al Puig de Sant Salvador, passando in mezzo a una rigogliosa natura mediterranea, mi riportò il sorriso interiore.

“Eccoti!” pensai. Mi ritrovavo di fronte all’immensa statua del Cristo Re, non più in croce, bensì proposto in tutta la sua potenza, con il braccio spiegato in segno di protezione. Tutt’attorno c’erano i colori più belli dell’universo, magistralmente dipinti in un tramonto celestiale che illuminava l’intera pianura e il mare in lontananza. Eravamo soli, io e Valentina, un vento lieve ma fresco ci accarezzava i capelli e la pelle.

Fu allora che sentii di nuovo quell’impeto salvifico, la necessità di rimettermi di fronte al Signore con tutto me stesso senza nascondergli nulla. Abbracciai Vale, la strinsi a me e le dissi che avevo bisogno di stare un po’ da solo con il Mister e lei capì al volo.

«Maestro, sono qui», come se Lui già non lo sapesse.

Di fronte a quella torre di oltre trenta metri sulla quale è posto il Cristo risorto, mi sentivo piccolo come un granellino di sabbia. Ero inginocchiato, scalzo, con la chitarra al mio fianco.

«Mi sono affannato a sgattaiolarti via…

«Eppure tu non mi molli…

«Sei sempre presente».

Intanto ripensavo a tutte le persone che amavo e da cui ero stato amato immensamente: mamma, papà, mio fratello Michele, i nonni, tutti i parenti, gli amici di una vita, la mia band, i miei amori, i prof, gli allenatori, i colleghi, i fan più stretti e tutti coloro che mi avevano donato immancabilmente un sorriso, un gesto d’amore, un sostegno.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime di gratitudine.

«Grazie per questa vita straordinaria… Grazie perché… è un dono! Perché non ho fatto nulla per averla… e me l’hai data. E la sento davvero».

Le lacrime mi segnavano il volto e il vento le rendeva subito fredde sulla pelle.

«Grazie per le immense opportunità che mi hai dato e di cui nemmeno mi sono reso conto. Grazie per avermi amato ogni giorno della mia vita».

Mi abbassai con la testa verso il suolo, appoggiandola alle mani giunte.

«Perdonami, Signore, ti prego. Perdonami per tutto ciò che non ho visto e che non vedo. Perdonami per ogni mio stupido lamento».

Silenzio.

«Fa’ che io trovi la forza di essere me stesso e l’umiltà di dare a Te la guida della mia vita».

In quell’attimo mi si presentò alla mente una melodia definita. Entrò come un lampo in quella preghiera, quasi fosse una memoria, un’armonia che ben conoscevo. Sentivo dentro di me l’arpeggio e un coro quasi solenne. Corsi sulle scale della torre, imbracciai la chitarra e, seguendo il tema che andava in loop dentro me, cercai di riproporlo sulle corde. Era una sequenza tutt’altro che semplice, eppure fu come se già lo sapessi eseguire.

Appena iniziai a suonarlo, arrivarono di getto queste parole, come una sorta di dialogo:

Ci sono cose di me che non mi spiego e non vedo vie che dicano chi sono io veramente…
Mi specchio in un passato che oggi non c’è, ma c’è una faccia che si chiede “chi sei?”.
La luce schiude intenti che oggi non vuoi. Se cambi il passo, qui non c’è acceso o spento: quel che esiste lo sai, e vince solo quello.
E dunque chi sei? La notte sogni facce che oggi non hai, ma sai che sono lì nascoste dentro di te. La vita che sei ti chiede di essere te, solo te stesso…
E chi sei tu lo sai.

Poi la penna si fermò un paio di minuti.

Restai in silenzio e, quando credevo che ormai quella magia fosse svanita, arrivarono queste ultime due frasi:

Solo tu puoi alzare il velo che nasconde quello che sei. Non c’è successo che ti batte… lo vedi?

Dire che ero emozionato è poco. Sentivo che quanto stavo componendo era scritto a quattro mani. Erano frasi molto semplici con vari livelli di interpretazione ma che, soprattutto, parlavano dritte al mio cuore. Così nacque San Salvador.

Chiamai Valentina perché venisse ad ascoltare quella melodia. Più la suonavo e la cantavo e più lei voleva che io andassi avanti. Non so per quanto restammo lì, ma si fece buio e le stelle iniziarono a farci compagnia.

Quando tutt’attorno c’è silenzio, la notte avanza e gli astri compaiono in cielo, la timida vibrazione di una voce e il delicato suono di una chitarra sono in grado di far sentire il Paradiso meno distante.