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Il manager

È bene dare quando ci chiedono, ma meglio è comprendere e dare quando niente ci viene chiesto.

Kahlil Gibran

 

 

La trasformazione esistenziale che stavo vivendo e la registrazione del disco “a modo mio” avevano un costo non indifferente. Così, mentre la mia scala di valori si stava rimodellando verso l’alto, il mio conto in banca precipitava rovinosamente verso il basso. Di quel passo, non avrei potuto resistere a lungo.

Cominciai a chiedermi quale fosse la strategia migliore per pubblicare quelle canzoni e tornare in tour. In passato, pur essendo stato contattato da due noti manager, avevo scelto di essere io il rappresentante della band, solo a volte affiancato da mio fratello Michele. Arrangiarmi era la mia specialità. Non era per superbia né tanto meno per modestia, ma per la semplice consapevolezza che, avendo io un approccio autentico alla musica e mancando di una spregiudicata voglia di “successo”, un manager importante mi avrebbe scaricato in breve tempo.

La schiera di fan dei Sun Eats Hours, i quattro album autoprodotti, l’indiscutibile esperienza live tra Europa e Giappone e le belle facce da presentare al pubblico erano tutti fattori vincenti, ma vacillavano di fronte alla prospettiva di un disco in italiano. Per tale ragione realizzai che dovevo prendere in considerazione l’eventualità di collaborare con un manager. All’inizio non trovai soluzioni. In Italia solo alcuni grandi nomi rivestivano questo ruolo e nessuno faceva al caso mio: sapevo cosa chiedevano e il potere che esercitavano sui loro artisti.

Poi, una sera, dopo essermi confrontato con Maurizio, mi balzò alla mente l’unica persona che poteva essere adatta a noi. Ero nella cucina dello studio di registrazione, stavo preparando l’immancabile piatto di pasta, quando in un attimo un ricordo mi fece esclamare a voce alta «Marco Morini!». C’era solo un piccolo dettaglio da considerare: di mestiere non faceva il manager!

Marco Morini, classe 1978, è di Modena. Difficile non notarlo, data l’altezza, la stazza atletica da pallavolista e i capelli rossi a spazzola. Si era trasferito a Milano appena ventenne. Oggi, a trentacinque anni, è un esempio concreto per tutti i giovani che sognano di fare della propria passione un lavoro. Ha iniziato come stagista in una etichetta discografica, si è poi spostato come dipendente nella società Team World e ora, dopo dieci anni, ne è general manager e proprietario. Team World si occupa di promozione web, di viral marketing e in generale della gestione delle community di fan per i maggiori artisti italiani e per le superstar internazionali. In Italia non aveva (e non ha) rivali: Marco nel suo lavoro è il numero uno.

L’avevo conosciuto a Milano nel 2006 quando con Ilich Rausa affidammo a Team World parte del lavoro promozionale dello split–album Metal Addiction che Rude Records stava lanciando sul mercato. Grazie all’aiuto di due cari amici – ai quali mi lega tuttora un profondo affetto, Tommaso Ricci (al tempo stagista in Team World) e Stefano Mantegazza (al tempo bassista della band Finley) – Marco si era interessato ai Sun Eats Hours. Da quel momento in poi ci aveva unito una reciproca simpatia e stima professionale. Avevamo collaborato per alcuni mesi sulla promozione del singolo Rain (canzone dei The Cult da noi rivisitata nel disco Metal Addiction) e, a conclusione di quel lavoro, mi aveva espresso un pensiero che mi era rimasto impresso: «Fra, tu sei naturalmente portato alla comunicazione, però questa qualità è sprecata in Italia perché la gente non può capirti».

Un anno e mezzo dopo quelle parole, Marco Morini fu l’unica persona a cui decisi di proporre la mia nuova idea. Senza spiegargli nulla, a fine maggio gli girai alcuni brani chiedendo un suo parere. Lui mi rispose entusiasta, così gli scrissi questa mail.

Sent: Wednesday, May 28, 2008 3:31 PM
Subject: Azzardo, importante

Caro Marco,
di questo vorrei parlarne di persona ma intanto ti voglio lanciare il pensiero.
In questi giorni con Maurizio Baggio abbiamo affrontato diverse volte l’argomento Sun Eats Hours in italiano e abbiamo appurato che è in atto un cambiamento forte ma positivo, sincero. Siamo più ispirati da queste canzoni che da quelle in inglese… Sembra strano, ma è così.
Ora il dubbio sull’impostazione da dare alla presentazione alle etichette discografiche per l’eventuale uscita sul mercato è forte.
1. Abbiamo fatto un percorso che ci ha portati a valutare di buon grado la possibilità di produrre un album interamente in italiano.
2. Abbiamo seguito un percorso di scrittura da cantautorato, nel quale di fatto io scrivo la musica e i testi e Maurizio Baggio mi segue come produttore artistico.
3. Abbiamo osservato che le canzoni in italiano di oggi sono potenzialmente interessanti per un pubblico differente rispetto al passato.
4. Non abbiamo abbandonato l’idea di fare un album in inglese per l’estero e uno in italiano per l’Italia, ma al momento siamo al lavoro principalmente sui brani in italiano.
5. I contenuti sono il mio obiettivo: la comunicazione, la positività dell’esperienza in atto.
Ho bisogno di un consiglio sincero per potermi presentare in modo chiaro e vincente alle grosse indipendenti e, nel caso, alle major. O, meglio ancora, sarei entusiasta di poterlo fare insieme a te. Questo può essere il primo passo per un percorso lavorativo comune.
Ti ringrazio di Cuore,
Francesco

Marco mi rispose che la mia proposta cadeva incredibilmente a pennello: con Mauro Orlandelli (il fondatore di Team World) stava infatti valutando l’idea di seguire direttamente un artista e diventarne manager.

Se da una parte la mia pareva un’intuizione, dall’altra quella e–mail arrivò alle persone giuste nel momento giusto, come se fosse tutto già amorevolmente preparato.

Presto notai le caratteristiche che ci accomunavano: l’intraprendenza, la concretezza, l’instancabilità e la capacità di sognare. E scoprii che Marco aveva una grande fede: questo mi sorprese ulteriormente. Preparammo subito una scaletta di lavoro e partimmo con il piede giusto.

I suoi consigli si rivelarono preziosi, schietti, e volti al Bene delle canzoni. La sua presenza mi ridiede la carica.

Prima del mio accordo con Morini, avevo fissato per il 5 giugno un incontro discografico importante per presentare le nuove canzoni. L’appuntamento era con Pico Cibelli e Stefano Seresini, rispettivamente A&R e responsabile promozione di Universal Music Italia.

L’incontro era nato alcune settimane prima grazie a un contatto iniziale di Gianluca “Boston” Menegozzo con Stefano Seresini. Boston lo aveva intervistato per la stesura della sua avvincente tesi di laurea in Scienze della comunicazione (Promozione e discografia: il caso italiano tra arte, marketing e comunicazione). Avevano parlato anche dei Sun Eats Hours e Gianluca gli aveva lasciato il CD e DVD Ten Years. Dopo qualche giorno, Pico Cibelli mi aveva telefonato convocandomi nei loro uffici.

Ricordo ancora la tensione che precedette quel meeting. Era la mia prima presentazione delle canzoni in italiano e non si trattava di una etichetta qualsiasi. La Universal, infatti, è una delle più grandi società discografiche del mondo, particolarmente quotata in Italia per la capacità di promuovere anche musica non propriamente commerciale.

L’album in italiano in quel momento era ancora in uno stato di work in progress: avevo solo otto brani finiti e li portai alla Universal confezionandoli come meglio potevo. Presentai i testi delle canzoni con alcuni appunti personali che ne descrivevano la nascita e la ragione, un book autobiografico della band con cento pagine di articoli sui Sun Eats Hours, alcune foto e tutta la discografia (comprensiva anche delle versioni estere dei vari dischi).

Nonostante in quel periodo il rapporto con Boston fosse piuttosto freddo, gli chiesi di accompagnarmi. Eravamo entrambi tesi, ma felici.

Arrivammo a Milano con mezzora di anticipo. Per ingannare l’attesa, pensammo di andare in un bar lì vicino: scesi dalla macchina e, qualche metro dopo, pestai in pieno quanto aveva lasciato un cane. Era un vero trionfo di cacata! Cercai di essere positivo facendomi una risata, ma poi passai la gran parte di quella mezzora a pulire la scarpa: conoscete un esercizio migliore di questo per portare la calma e la concentrazione dentro voi stessi prima di un importante appuntamento?

Fatti tutti gli scongiuri necessari, entrammo in Universal.

Era impossibile trattenere l’emozione! Le pareti erano tappezzate di foto di grandi artisti e di riconoscimenti per dischi italiani e internazionali, alcuni dei quali erano tra i miei preferiti. Era tutto speciale.

Boston aveva un aspetto cadaverico. Io avevo la salivazione azzerata e il batticuore. Mi faceva uno strano effetto provare tanta emozione: da anni non mi sentivo così, nemmeno su un palco.

L’arredamento era innovativo, colorato, e trasmetteva vitalità. Rimasi colpito dallo stile fresco e giovane, probabilmente perché presso altre grandi etichette si notava molto il prestigio degli ambienti, ma meno la creatività di chi ci lavorava.

Pico Cibelli ci fece accomodare nel suo ufficio e poco dopo arrivò anche Stefano Seresini. Alle pareti un poster di Lorenzo Cherubini, artista di punta della Universal, il riconoscimento per le centomila copie vendute dell’album di Fabri Fibra, oltre ad altre immagini che attestavano i successi dell’etichetta.

Diedi a Cibelli il materiale preparato. Vidi stupore nei suoi occhi: «Credo di non aver mai ricevuto una presentazione così ben fatta, complimenti!».

Ascoltammo le otto canzoni tutte d’un fiato: non appena un brano raggiungeva i due minuti e mezzo, Pico skippava alla canzone successiva. Mi faceva uno strano effetto quel modo di castrare l’ascolto, come se una canzone dopo due minuti non avesse più nulla da dire.

Giunti al termine, Cibelli fece le sue considerazioni soffermandosi sui brani che lo avevano maggiormente colpito, esaminando sia i testi sia gli arrangiamenti, poi mi disse: «Vedi, Francesco, per me i Sun Eats Hours devono far esplodere lo stereo».

«In che senso?»

«Come posso dire… I testi dovrebbero essere più smaliziati, magari più legati a tematiche sociali e politiche».

Silenzio.

«Forza le immagini, esagera un po’ la realtà. Le persone oggigiorno vengono attirate da testi senza peli sulla lingua e noi abbiamo bisogno di ottenere l’attenzione dei media e di stupire i ragazzini».

Mi si gelò il sangue.

«Guarda l’enorme successo di Fabri Fibra, non so se comprendi. Io voglio dei pezzi che facciano BAM!»

«Perdonami, Pico, cosa intendi per BAM?»

Lui, vedendomi leggermente imbarazzato, cercò di approfondire le ragioni delle sue osservazioni.

«Francesco, capiamoci, hai scritto testi profondi e i brani suonano bene. Presentati da un artista già noto sarebbero perfetti. Si tratta di uno stile che può essere apprezzato da un pubblico abbastanza eterogeneo, da chi ascoltava i Timoria o i Litfiba a chi segue Ligabue per intenderci, perciò veramente a un sacco di gente».

«È buono che la musica possa parlare a molte persone» dissi.

«Sì, ma oggigiorno è quasi impossibile far emergere band che hanno questo sound e questa attitudine, perché i media le accostano grossolanamente a grandi nomi come Vasco, Ligabue o altri big, anche se poi magari non c’entrano nulla con questi artisti. Se le radio ti danno un minuto è tanto. Se iniziano a pensarla così a un primo ascolto, noi abbiamo chiuso e la band muore perché non si vendono dischi e non c’è visibilità».

«È un controsenso, però!»

In quel momento Pico incrociò lo sgomento sul mio volto e per questo aggiunse: «Puoi dirmi che è frustrante, ma è così. La gente vuole un sound specifico, chiaro, perché se proponi qualcosa che ha caratteristiche con più colori, c’è il forte rischio che non rimanga impressa».

Le sue osservazioni da fratello maggiore mi spinsero a pensare che in effetti non avevo esperienza nella scrittura in italiano e che forse avevano ragione gli altri quando dicevano che mi stavo cacciando in un casino senza precedenti.

«Un artista giovane generalmente può contare su rari passaggi radiofonici e televisivi; perciò, se sei un semisconosciuto al grande pubblico e non hai santi ai piani alti, solo una canzone che colpisce veramente attira l’attenzione. Bisogna forzare un po’ la realtà. È così».

Io rimasi in silenzio.

«Quando ho ascoltato il vostro disco Ten Years, ho immaginato uno stile di scrittura tipicamente punk anche per i brani in italiano. Se continuate come avete sempre fatto, ma con dei testi in madrelingua un po’ incazzati e ribelli, noi possiamo lanciarvi. Capiamoci: non è che dovete fare finta, ci mancherebbe, però… Sappiamo già che non venderemmo centomila copie del vostro disco, ma certamente avreste una schiera di fan agguerriti, noi le nostre cinque–diecimila copie vendute e i vostri concerti nei club sarebbero un successo. E poi negli anni potreste crescere di album in album, divenendo il punto di riferimento nazionale per quel genere musicale. Credimi, questo iter oggi è molto più sicuro, mentre se vi avventurate in sound troppo estesi, con testi dai concetti astratti, la vita si fa molto difficile».

Ero sconvolto, ma ammetto che il suo ragionamento non faceva una piega. L’analisi di Pico seguiva una logica quasi matematica: era assolutamente concreto e, per quanto poco condivisibile da un punto di vista ideale, ciò che diceva era lo specchio di una realtà evidente.

Quel suo monologo fu una vera e propria lezione di marketing e lancio di artisti.

Concluse affermando: «Citando band della nostra scuderia, tra il suono aggressivo dei Linea 77 e il pop rock dei Vanilla Sky, si è creato uno spazio importante. Io e Stefano avevamo ipotizzato che i Sun Eats Hours potessero piazzarsi in quella posizione e mantenerla a lungo».

Ne fui lusingato. Però, per essere ciò che loro auspicavano, avrei dovuto in parte fingere, recitare una parte.

«Francesco, i miei consigli sono davvero per il vostro bene: siete sulla piazza da vari anni, siete bravi, siete quattro bei ragazzi e la gente del vostro ambiente vi conosce. Potremmo fare un ottimo lavoro».

Rimasi in silenzio alcuni secondi, e nel frattempo i pensieri viaggiavano alla velocità della luce. Ripensai alle canzoni che avevo portato con me all’incontro. In effetti, alcune erano mediocri, però altre – come 1972, Il giorno di Alice, Oggi sono solo e Notti bugiarde – avevano qualcosa di speciale, nelle quali ero certo di aver catturato stati d’animo comuni a molti.

Ripresi la parola: «Pico, grazie per la tua sincerità, non è da tutti. Ho compreso».

Dovevo valutare bene la situazione e pesare le mie parole. Ero a un nuovo bivio: le argomentazioni di Pico mi avevano sbattuto in faccia una cruda realtà discografica. Non si trattava di decidere quale posizione assumere nei suoi confronti, bensì di chiarire a me stesso cosa sentivo nel mio cuore. Ero davvero pronto a prendere una strada che poteva rivelarsi ancora più lunga e impervia del previsto?

«Ho scritto queste canzoni come un riflesso di quello che sto vivendo. Posso riflettere maggiormente su qualche tema sociale, vedere se mi esce qualche brano più spinto, anzi, ti do la mia parola che ci proverò, ma non sono in grado di forzare ciò che sento».

È possibile che arrivi il giorno in cui qualcuno vi mostri una via che sembra sicura. Magari questo qualcuno (può essere una situazione, un amore, una società, un manager o perfino un familiare) per migliorare il vostro stato, vi chiederà di rinunciare a una parte di ciò che sentite, ma vi darà la sensazione che quella sia la scelta giusta da fare. Di fronte alle proposte allettanti, soprattutto se si è in una circostanza di bisogno, chiunque può cedere.

Se avessi incontrato Pico da adolescente, sarei stato la persona più felice al mondo. Ma io stavo cambiando, le mie canzoni avevano un colore nuovo, i miei intenti erano diversi, mentre le richieste di Pico andavano dalla parte opposta. Era un vero dilemma, perché non capita tutti i giorni di avere una possibilità con la Universal.

«Ah, Francesco, un’ultima cosa: in riunioni come questa, di solito, incontriamo i manager degli artisti, questa è stata una eccezione. Pochi cantanti si gestiscono certi momenti da soli, e sono tutti di un’altra generazione. Prendilo come un complimento».

Fui onorato dalle sue parole. Ci salutammo con simpatia e stima reciproca, con la promessa di riflettere ancora qualche giorno sull’incontro, anche se avevamo già capito le nostre reciproche posizioni.