Capitolo 4

 

 

 

 

 

L’arena per la quintana era un ampio spiazzo di terra battuta. Al centro vi era un palo con un supporto girevole da cui si dipartivano due aste orizzontali, alle estremità delle quali erano appesi un bersaglio e un contrappeso. Ogni quintana sembrava un gigantesco spaventapasseri con le braccia spalancate, uno scudo in una mano e una sorta di mazza ferrata nell’altra, che per fortuna era solo una palla di stoffa pressata con la pece. Ma dura e pesante come pietra. Il cavaliere doveva caricare a tutta velocità con la lancia in resta fino a colpire e oltrepassare il bersaglio. E doveva essere abile, perché dopo l’impatto il simulacro di uomo ruotava rapidamente su se stesso, e se il cavaliere non era abbastanza veloce, oltreché preciso, il contrappeso lo avrebbe colpito e disarcionato.

In quel momento Pius si stava esercitando nel combattimento a piedi, e stava eseguendo figure di scherma, menando affondi e fendenti contro l’aria polverosa. Quando sferrava un colpo, emetteva un urlo minaccioso, poi inspirava, con la testa dritta, il collo perfettamente in asse con la schiena, le spalle rilassate, i piedi larghi ben piantati a terra, le suole degli stivali che strisciavano sibilando in una danza imparata a memoria e ripetuta con movimenti sicuri.

Gisone arrivò portando Drago e, appena dentro l’arena, si fermò ad ammirare l’addestramento. Era incredibile, pensava, quanto fosse concentrato e determinato, anche se non aveva davanti un avversario.

«Prendi una spada», gli disse Pius, continuando a sferrare colpi con precisione, abile macellaio del vento.

«Una spada, messere?»

«E anche uno scudo».

Gisone vide delle armi accostate al muro: una spada, uno scudo, una lancia. Armi vere, non bastoni. Il cuore gli batteva nella gola.

«Su, prendile e vieni qui».

Afferrò l’elsa della spada e sguainò la lama, poi imbracciò lo scudo, e sentì una scarica di ebbrezza venire dalla punta dei piedi e correre per tutto il corpo. «Se qualcuno mi vedesse, potrei essere punito, messere». Rimise le armi a posto.

«Prendile, ho detto».

«Ma…».

«Allora sei un vile», lo sfidò Pius, respirando tra un colpo e l’altro. «Non ho mai conosciuto un cavaliere privo di coraggio… non vivo, per lo meno. Fammi vedere cosa sai fare».

Gisone si piegò nuovamente sulle armi e, prima di prenderle, si guardò intorno in modo losco, quasi stesse per rubarle. «Davvero, messere?»

«Vieni».

Ubbidì.

Si mise in guardia; lo sapeva fare. Era cresciuto fra i cavalieri, per tutta la vita li aveva visti ogni giorno addestrarsi con le armi e a cavallo, conosceva le loro mosse e le loro tecniche come un chierico conosce le Sacre Scritture a furia di leggerle. Dopotutto, cos’erano i gesti di uno schermidore se non tratti di penna, lettere e parole scritte senza inchiostro, nell’aria, o nel sangue?

Adesso che era vicino, poteva sentire la spada di Pius frusciare e quasi non la vedeva, tanto erano rapidi i movimenti.

«So che ci sai fare con la spada, ragazzo. Ti ho visto molte volte fare pratica con quella di legno che ti sei costruito».

«Ne ho modellato una nuova proprio qualche giorno fa, messere». Schivò un affondo, indietreggiò senza perdere il contatto con il terreno.

«Sei bravo».

«Sono onorato, messere». Mentiva, era più che onorato: felice al massimo grado, come non lo era mai stato. Non avrebbe potuto chiedere a Dio un dono più bello, mai. Avrebbe voluto che madamigella Alasia lo vedesse adesso, con una spada vera nelle mani, di fronte a un cavaliere valoroso come Pius di Rossocuore.

Parò un colpo con la lama, l’acciaio stridette e urlò.

«Ricorda», lo ammonì Pius, «la tua lama deve colpire solo carne e ossa, non usarla mai contro altro acciaio: per parare un colpo c’è lo scudo».

«Sì, messere».

«Di nuovo».

Ripeterono quella e altre figure di scherma, per un’ora intera. Alla fine Pius gli afferrò la testa e gliela grattugiò con le nocche. «Bravo ragazzo», gli disse.

Gisone si lasciò cadere in ginocchio e restituì la spada a capo chino. «Vi ringrazio, messere. Oggi è il giorno più bello della mia vita».

Pius rise. «Credi che sia finita?». Fece un gesto con la mano, e Drago si mosse verso di lui. Arrivò come un cane ubbidiente.

Gisone era al settimo cielo; quella che credeva essere la giornata più bella da che aveva memoria si stava tramutando in qualcosa di ancora più incredibile: Pius gli permetteva di provare la quintana?

E se lo avesse visto il conte o qualcuno dei suoi, magari il siniscalco Evervino?

Certe cose non erano permesse a uno stalliere.

«Monta in sella», ordinò Pius.

E lui lo fece. In quello, Gisone era ancora più abile che con la spada, e si poteva ben dire che conoscesse i cavalli meglio di chiunque altro a Charbonnières. Ma non aveva mai brandito una lancia prima.

Pius la raccolse, gliela diede e si fece da parte. «Coraggio, carica il bersaglio».

Gisone portò il destriero sul limitare dell’arena e partì alla carica con la lancia in resta, mirando al vecchio scudo appeso a uno dei due bracci – dall’altro pendeva il contrappeso, che oscillava mosso dal vento. Lo stesso vento spostava la punta della lancia e gli soffiava sabbia sottile negli occhi. A un certo punto, quando era a metà dell’arena, non riuscì più a vedere con nitidezza lo scudo che avrebbe dovuto colpire.

Drago respirava sotto di lui, il torace possente, che si dilatava e si contraeva, maestoso, le falcate imperiose che battevano sulla terra un ritmo antico quanto la guerra.

E il cuore di Gisone batteva ancora più rapido degli zoccoli dell’animale.

Mancò il bersaglio. Ma colpì il palo sovrastante e l’impatto lo fece vacillare; per un attimo restò in bilico sulla sella, poi arrivò lo schiaffo del contrappeso, che gli si conficcò nella schiena, duro e doloroso. Gisone stramazzò a terra con un gemito, la lancia gli scappò di mano e rotolò via.

Pius accorse chiedendogli se si fosse fatto male.

«Sto bene», rispose, e si rimise in piedi per dimostrarlo. Ma gli doleva tutto e faticava a tenere l’equilibrio sulle gambe.

«Sicuro, ragazzo?»

«Sicuro».

«Allora riprova».

Lo fece, e lo rifece, sei volte; nelle prime tre cadde di nuovo; nella quarta andò a vuoto; poi riuscì per due volte di fila a centrare il bersaglio e a sfuggire al contraccolpo della pesante palla di stoffa.

Il resto della mattinata lo trascorse ammirando Pius, che non sbagliava mai un colpo con la lancia e si addestrava con la spada, la mazzafrusta, l’ascia, il pugnale, e anche a mani nude; e lui lo servì portandogli da bere e uno straccio con cui detergere il sudore.

Alla fine se ne tornò alla stalla con Drago, il cuore gonfio di una gioia smisurata.

Non poteva credere che fosse accaduto davvero. Non solo messer Pius non gli aveva assegnato compiti da scudiero, ma gli aveva perfino permesso di usare le armi, e di cavalcare con la lancia, e di imparare osservando e ripetendo le sue mosse. Era stata una vera e propria lezione di cavalleria, finita per giunta con i complimenti.

E nessuno lo aveva punito o anche solo rimproverato.

Era semplicemente incredibile.

Si disse che dopo quel giorno sarebbe potuto morire in pace. Per la prima volta in vita sua si era sentito un uomo, uno di quelli che Dio riesce a vedere da lassù.

«Messer Pius!». Un armigero arrivava di corsa, trafelato, l’armatura che sferragliava a ogni passo. «Messer Pius, venite, presto!».

Gisone si fermò ad ascoltare da lontano, chiedendosi cosa fosse accaduto di tanto grave.

«Cosa succede?», chiese Pius rinfoderando la spada.

«A quanto pare gli uomini di Ervand de Flor…». L’armigero si tolse l’elmo e rifiatò tamponandosi il sudore della fronte. «Pare che abbiano ucciso una fanciulla nel feudo di madama Iselda. La sventurata mancava da casa da alcuni giorni». Boccheggiò voltandosi a indicare l’ingresso principale di Charbonnières. «Un paggio di madama Iselda è venuto a riferirvelo. È fuori dal castello. Dice che se ne andrà solo quando sarà sicuro che il messaggio vi sia stato recapitato».

Pius piegò la faccia in un’espressione sinistra e annuì. «Vai e digli di tornare dalla sua signora. Digli che me ne occuperò io».

«Sì, messere».

L’armigero tornò indietro, ma senza affrettarsi.

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