Capitolo 34
Braccia cariche di ceppi e di stipa si stavano dirigendo verso le cucine, dove il fuoco divampava e il grasso colava.
Altri servi stavano portando le tavole nella sala del banchetto. Le sistemarono sui cavalletti e sopra vi misero tovaglie candide e una nave di ceramica, contenente sale e spezie in abbondanza, e poi coppe e calici fatti di gemme, di corallo, di corna e denti di animali, e bacini d’oro, mestoli d’argento, e quadre di pane scuro, una per ogni commensale.
Per esplicita richiesta di Pius, il giullare chiamato a rallegrare la corte del conte e i suoi ospiti durante il banchetto era Stabelo, il figlio del taverniere, che aveva portato con sé anche altri musici. Avevano tamburi, flauti, un salterio, un’arpa, una bombarda, una cornamusa; accordavano gli strumenti e scaldavano le voci, mentre un servo cominciava a tagliare il pane battendo il piede a ritmo della loro musica.
Vicino alle tavole, i servi sistemarono due acquamanili d’argento a forma di unicorno e colmi d’acqua profumata alle rose per i commensali, che si sarebbero lavati le mani prima di sedersi a mangiare.
Nelle cucine c’era concitazione fra i cuochi; avevano iniziato a lavorare già da molte ore. Era tutto uno sfarfallare di coltelli che sfilettavano e spolpavano, e di mannaie che si abbattevano sonoramente sui taglieri spaccando ossa. Sul pavimento, due uomini stavano macellando un cervo e altri stavano per sgozzare un maiale; la bestia strillava e quelli che cercavano di tenerla ferma non erano da meno. Il sangue scorreva a fiumi verso gli scoli.
In fondo, vi erano quattro archi sorretti da tozzi pilastri quadrati, tre dei quali davano su ambienti ampi come stanze, sovrastati da una cappa a imbuto con canna fumaria. I fuochi erano tutti e tre accesi, ma solo due sfrigolavano già e divampavano ogni volta che vi cadevano sopra le gocce di grasso fuso.
Alcuni strani animali che talvolta passavano per le cucine di Charbonnières, Gisone non li aveva mai visti da vivi, ma non aveva neppure avuto il privilegio di vederli spesso del tutto cotti. Indicò un uccello morto e ne domandò il nome.
«Quello è un airone», gli rispose uno dei cuochi, una sagoma indefinita fra i vapori biancastri.
«Adesso lo squartate?»
«L’airone non si squarta», lo corresse il pingue e bonario Divinangelo, il capo dei cuochi, che in quel momento stava lavorando su un grosso pesce di lago, stendendogli sopra un velo giallo luccicante. «Per ogni animale si deve usare il termine giusto: l’airone si smembra, l’anatra si spolpa, l’aragosta si spunta, lo storione si trancia…».
Gisone annuì facendo vagare gli occhi in quel mondo di fiamme e fumo, di grida e sangue, che ogni volta gli faceva pensare all’inferno. Solo le innumerevoli padelle e casseruole di rame appese alle pareti e i broccali sulle mensole e gli otri mitigavano quell’impressione. «Cosa state facendo?»
«Non lo vedi? Sto dorando un pesce».
Per l’occasione speciale, non lo stava facendo con lo zafferano, ma nel modo migliore: con foglie d’oro vero, così sottili che gli volavano fra le mani al minimo movimento dell’aria causato dal suo respiro.
«E quello?». Gisone indicò un vassoio ovale su un ripiano.
«Quello è un pesce cotto in tre modi e in tre colori: la coda è bollita, il centro è arrostito, la testa è fritta. E quello… Lo vedi quello? È un luccio che prepareremo al forno cuocendolo dentro una crosta di pane».
«Buono!», esclamò Gisone. Lui, a differenza dei cavalieri, mangiava di rado il pesce e la carne. I suoi pasti erano quasi sempre a base di ortaggi, di cipolle, di aglio, di formaggi e, soprattutto, di pane di segale o avena, che inzuppava nel latte. Tutte cose che, lo sapeva, i nobili disprezzavano, considerandole alimenti per villici.
Un medico che aveva fatto sosta presso il conte, una volta, gli aveva detto che i cibi prelibati sono dannosi alla salute dei contadini e dei servi. Ma lui non gli aveva creduto. Anche Divinangelo gli aveva detto, in segreto, che quelle erano tutte storie per evitare che le persone umili cominciassero a pretendere troppo.
«Tieni». Il capocuoco gli porse una cialda dolce e un bicchierino di vino speziato, controllando che nessuno lo vedesse. «Ora va’, togliti dai piedi».