Capitolo 19

 

 

 

 

 

Anche Pius in quel momento avrebbe voluto udire la voce di Dio.

Prendi la mia spada, spezza la mia lancia, paralizza le mie mani, impediscimi di uccidere.

Cosa devo fare?

In quale luogo devo cercarti?

Silenzio.

Pius aveva vegliato per una parte della notte accanto all’altare, nella cappella del castello di Charbonnières, ma non aveva domandato a Dio di concedergli la vittoria. Era rimasto a pensare alla dama che amava, ai suoi baci, alle sue parole, all’amore che provava per lei. Poi era andato a letto e aveva dormito, stanco, anche a causa delle lunghe giornate di allenamento con la lancia e con la spada.

Il giorno precedente aveva fatto recitare delle preghiere in molte chiese, com’era in uso fra i cavalieri prima di un duello; ma non aveva commissionato delle suppliche per se stesso: non gli piaceva l’idea di mercanteggiare con Dio, tantomeno per interposta persona. Aveva chiesto e ottenuto dai chierici che Dio fosse implorato, sì, ma affinché i sudditi di de Flor non avessero a subire troppo male dalla morte del loro signore.

Ervand de Flor, una civetta sulla cotta d’arme come emblema di famiglia, aveva rubato.

Lo aveva fatto più volte, sulle terre indifese di Iselda.

Si vociferava che avesse dilapidato le proprie ricchezze e si fosse condannato alla rovina acquistando e collezionando reliquie. Stando alla diceria del popolo, era andato in malora per ingenuità, essendosi fatto rifilare un gran numero di falsi che, quindi, non aveva potuto rivendere. Si mormorava che nel suo castello avesse una grande camera piena soltanto di oggetti fasulli, ma c’era anche chi sosteneva che non mancassero quelli autentici e sacri.

Qualche anno addietro, poi, de Flor aveva sostenuto spese ingenti per edificare un nuovo castello, e ancor di più gli stava costando mantenerlo. Chi vi aveva soggiornato, tra i cavalieri degni anche di migliori compagnie, riferiva che fosse sporco, umido e buio; si viveva nel frastuono e nel disordine e si gettava tutto per terra, e la paglia che ricopriva il pavimento era sempre ingombra di resti di cibo lasciati dai cani.

E ad aggravare la situazione erano sopraggiunti i doveri di vassallo: de Flor era stato chiamato a sostenere il suo signore in diverse battaglie e aveva dovuto affrontare la spesa necessaria al mantenimento di quindici cavalieri, cinquanta sergenti a cavallo e cento fanti, per due anni consecutivi.

Pius di Rossocuore aveva combattuto al fianco di quegli uomini, dalle armature vecchie e consumate, perché lo scopo della sua vita era lo stesso del barone de Flor: servire Tommaso I, conte di Moriana.

Le incursioni dei ribaldi mandati da de Flor sulle terre di Iselda di Occitania si erano ripetute con una frequenza maggiore e preoccupante negli ultimi due anni.

Ma non era per questo che Pius e de Flor stavano per battersi in duello.

Pius non aveva mai informato il conte Tommaso delle razzie subite dalla sua amata, non aveva mai riferito al suo signore dei cacciatori di frodo, dei predoni che saccheggiavano le case dei villici, molestavano le donne e le fanciulle e rubavano il bestiame; si era sempre occupato personalmente di quei fatti incresciosi, risarcendo a proprie spese i sudditi di madonna Iselda e quando possibile offrendo loro protezione.

Aveva preferito discuterne direttamente con Ervand de Flor.

Lo aveva fatto una domenica, in città, dopo la messa.

«Come osate?», aveva reagito de Flor spalancando le braccia e gesticolando come un predicatore sul pulpito. «Pensate piuttosto a voi! Che l’eresia immonda a cui avete venduto l’anima non vi condanni presto alle fiamme dell’inferno. Costui difende un’eretica!», aveva strillato additandolo. «Costui è un eretico a sua volta, perché crede nel Demonio. Conosco persone che lo hanno udito esporre la sua abominevole dottrina!».

Pius lo aveva scaraventato a terra.

De Flor aveva chiesto aiuto, gemendo e annaspando, e uno degli uomini che lo accompagnavano aveva scelto di estrarre la spada corta e di lanciarsi contro Pius, compiendo l’ultimo gesto della sua breve esistenza.

Un solo pugno in pieno volto lo aveva spento, come un getto d’acqua sulla fiammella di una candela.

Non avrebbe voluto che accadesse, ma non poteva immaginare che sarebbe bastato un pugno per uccidere quel giovane cresciuto nella mollezza della città; e non poteva neppure immaginare che fosse il nipote di de Flor.

Questo aveva reso il duello inevitabile.

Pochi giorni dopo l’accaduto, il conte Tommaso aveva ricevuto de Flor nel proprio castello e aveva ascoltato le sue rimostranze; l’incontro si era concluso con la richiesta di un duello risolutore all’ultimo sangue.

Tommaso si era visto costretto a dare la sua approvazione.

A Dio la facoltà di stabilire una volta per tutte chi dei due cavalieri fosse nel giusto.

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