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Alcuni dicono che i figli non vivono come insegnano gli adulti, ma come vivono gli adulti. Forse è vero. Però i figli vivono anche un bel po’ imparando dagli adulti.

Il bassista viene svegliato da un colpetto alla porta. Apre a petto nudo. Benji ridacchia.

«Ti serve qualche vestito in più se dobbiamo andare a pattinare.»

«Ti ho aspettato per tutta la sera ieri, avresti potuto chiamare» sussurra il bassista amareggiato.

«Scusa» dice Benji.

E il bassista lo perdona. Anche se prova a non farlo. Del resto, come si può non perdonare un ragazzo che ti guarda in quel modo?

Il Pelliccia è sempre uguale, l’odore è quello di animale bagnato mescolato al cibo di un piatto nascosto dietro il termosifone. Ai tavoli sono seduti uomini, soltanto uomini. Mira sa che tutti si accorgono del suo arrivo, ma nessuno la guarda. È sempre andata fiera di non spaventarsi facilmente, eppure l’imprevedibilità di quel gruppo le invia brividi freddi lungo la schiena. È già abbastanza brutto vederli nel palazzetto alle partite della prima squadra, mentre gridano oscenità contro Peter alla fine di una stagione fallimentare. Vederli qui, in una stanzetta in cui quasi tutti hanno bevuto, la rende più nervosa di quanto sia disposta ad ammettere.

La mano di Ramona raggiunge la sua sul bancone. L’anziana donna sorride tra i denti storti.

«Mia! Che ci fai qui? Finalmente ti sei stancata di avere un marito astemio?»

Mira abbozza un sorriso quasi impercettibile.

«No. Sono venuta solo a ringraziarti. Ho saputo quello che hai detto alla riunione del club.»

«Non c’è bisogno» borbotta Ramona.

Mira si avvicina al bancone, insiste:

«Invece sì. Ti sei fatta avanti quando nessun altro voleva farlo, e voglio guardarti negli occhi mentre lo dico. Anche se so che in questa città vi vergognate a ringraziarvi.»

Ramona ride e tossisce.

«Tu non sei mai stata una che si vergogna molto, ragazza.»

«No» sorride Mira.

Ramona le dà una pacca sul braccio.

«Questa città non conosce la differenza tra giusto e sbagliato, devo ammetterlo. Ma conosciamo la differenza tra bene e male.»

Le unghie di Mira affondano nel bancone. Non è venuta solo per ringraziare, ma anche perché deve avere la risposta a una domanda. Ed esita a porla qui dentro. Però Mira non è mai stata brava nemmeno a tirarsi indietro.

«Perché l’hanno fatto, Ramona? Perché il Gruppo ha votato per lasciare Peter al suo posto?»

Ramona la fissa. Tutto il locale si zittisce.

«Non so a che cosa…» comincia Ramona, ma Mira solleva le mani, esausta.

«Risparmiami le cazzate, per favore. Non dirmi che non esiste nessun “Gruppo”. Esiste, e odia Peter.»

Mira non si volta, ma sente gli occhi degli uomini sul collo. Dice con voce tremante:

«Sono una donna piuttosto intelligente, Ramona, so contare. Non era possibile che Peter vincesse se il Gruppo e tutti quelli che il Gruppo influenza non avessero votato per lui.»

Ramona la osserva a lungo, senza battere ciglio. Nessuno degli uomini si alza. Nessuno si muove. Alla fine Ramona, lentamente, annuisce e poi ripete:

«Come ho detto, Mira, da queste parti la gente non conosce sempre la differenza tra giusto e sbagliato. Ma conosciamo la differenza tra bene e male.»

Il petto di Mira si solleva sotto i respiri, la carotide pulsa, le unghie lasciano i segni sul bancone. Di colpo le suona il telefono, lei sobbalza e comincia a rovistare nella borsa, è un cliente importante, esita per sette squilli prima di rifiutare la chiamata. Respira profondamente tra i denti. Quando rialza la testa c’è una birra sul bancone.

«Per chi è?» chiede.

«Per te, testona. Non hai proprio paura di niente, ragazza» sospira Ramona.

«Non è necessario che mi offri da bere» ansima Mira scusandosi.

«Non è da parte mia» chiarisce Ramona accarezzandole la mano.

Mira impiega alcuni istanti a capire. Però abita nel bosco da un tempo sufficiente per sollevare la birra senza fare altre domande. Mentre beve sente gli uomini con i giubbotti neri brindare senza parole alle sue spalle. Non si ringrazia tanto spesso a Björnstad. Tantomeno ci si scusa. Quello, però, è un modo per dire che in questa città alcune persone riescono ancora a tenere nella zucca due pensieri contemporaneamente. Che si può desiderare di prendere a pugni un direttore sportivo ma non accettare che qualcuno faccia del male ai suoi figli.

E che si rispetta una persona tosta che entra qui senza paura. Indipendentemente da chi è.

In strada passa Robban Holts. Si ferma davanti alla porta del Pelliccia, sorride tra sé. Poi prosegue senza entrare. Domani va al lavoro.

David è a letto con le due persone che ama, ride quando una cerca di proporre un nome per l’altra. A David sembrano tutti nomi di personaggi dei cartoni animati, o di vecchi nonni di qualcuno. Ogni volta che lui propone un nome, invece, la fidanzata gli chiede “perché?”, lui scrolla le spalle come se niente fosse e mormora “perché è bello, tutto qui”, al che la fidanzata scrive il nome su Google, seguito dalle parole “giocatore di hockey” e scopre esattamente da dove l’ha preso.

«Sono terrorizzato» confessa lui.

«In effetti, è incomprensibile che il mondo permetta a noi due di prenderci la responsabilità di una nuova persona senza chiedere il permesso a nessuno» ride lei.

«E se saremo dei pessimi genitori?»

«E se invece no?»

Lei tiene la mano di lui sulla pancia, appoggia le dita sul suo polso, picchietta sul vetro del quadrante.

«Presto avrai qualcuno a cui lasciare l’orologio.»

Jeanette si ferma a lungo accanto al recinto ad ammirare.

«Mio Dio. Un allevamento, proprio come lo sognavi. Quando eravamo ragazze e ne parlavi di continuo non ci credevo.»

Adri allunga un braccio, anche se le parole sminuiscono il gesto.

«Be’, è solo qui intorno. Se aumentano ancora i premi dell’assicurazione dovrò dare via i cani e chiudere. Però è mio.»

Jeanette le accarezza la spalla.

«È tuo. Sono fiera di te. È così strano… a volte vorrei non essere mai tornata qui e a volte vorrei non essermene mai andata. Capisci che cosa voglio dire?»

Adri, che ha sempre avuto un modo di comunicare per nulla complicato, risponde:

«In effetti no.»

Jeanette sorride. Quella “non complicatezza” le manca. Quando smisero con l’hockey, Adri si ritirò nel bosco e Jeanette trovò un piccolo club di boxe a Hed. Quando Adri comprò questo vecchio terreno, Jeanette si trasferì in una città più grande e cominciò a praticare arti marziali, di qualunque genere. Quando Adri prese i primi cuccioli, Jeanette disputò i primi incontri. Per un breve, fuggente anno fu una lottatrice professionista. Poi arrivarono gli infortuni, quindi cominciò a studiare per diventare insegnante pur di avere qualcosa da fare durante la convalescenza, e una volta guarita era diventata una brava insegnante ma non era più una lottatrice altrettanto brava. Aveva perso l’istinto. Quando morì suo padre, e sua madre aveva bisogno di più aiuto di quanto suo fratello riuscisse a darle, tornò a casa. Doveva fermarsi un paio di mesi, invece adesso è qui, professoressa della scuola e di nuovo parte della città. Questo posto ha un modo di afferrarti dentro che è difficile da spiegare. Da un lato c’è tutto ciò che ha di brutto, e la lista è davvero lunga, però ci sono cose così belle che riescono a splendere tra le schifezze. Le persone, soprattutto. Dure come il bosco, testarde come il ghiaccio.

«Posso affittare uno dei tuoi capanni?» chiede Jeanette.

David suona alla porta di casa Ovich. La mamma di Benji apre, stanca, appena rientrata dal lavoro, dice di non sapere dove sia il figlio. Forse dalla sorella a Hed, al Fienile, suggerisce. David ci va. Katia è al bancone, lo guarda incerta, ma alla fine dice di non saperlo. Lui sa che è una balla, ma non insiste.

Quando esce dal Fienile uno dei buttafuori lo chiama.

«Tu sei l’allenatore di hockey, vero? Stai cercando Benji?»

David fa segno di sì. Il buttafuori indica in direzione del palazzetto.

«È passato di qui con il suo amico. Avevano i pattini, credo che il ghiaccio sia troppo pericoloso al lago, saranno andati alla pista dietro il palazzetto.»

David lo ringrazia. Quando gira l’angolo è ancora buio, i ragazzi non possono vederlo ma lui vede loro. Benji e l’altro. Si stanno baciando.

David trema fin nel profondo. Si vergogna ed è schifato.

«Capanno? Per fare che?» chiede Adri.

«Voglio fondare un club di arti marziali» risponde Jeanette.

Adri ridacchia.

«Questa è una città di hockey.»

Jeanette sospira.

«Lo so. Santo cielo, lo sanno tutti. Ma dopo ciò che è successo… non credo che questa città abbia bisogno di meno sport, proprio adesso. Credo che gliene serva di più. Non so molto di altri sport, ma conosco le arti marziali. Posso dare questo ai ragazzi.»

«Arti marziali? Calci e pugni, questa roba qua?» chiede Adri sarcastica.

«Non si tratta di calci e pugni, sono sport esattamente come…» inizia a spiegare Jeanette nonostante dentro di sé si renda conto che Adri sa benissimo quale sport praticava e cosa richiede, perché lei era sempre la prima a telefonarle dopo ogni incontro per sapere com’era andata nel dettaglio.

«Ti manca così tanto combattere?» chiede Adri.

«Tutti i giorni, semplicemente» sorride Jeanette.

Adri scuote la testa. Tossisce acido.

«Questa è una città di hockey.»

«Allora mi presti il capanno o no?»

«Prestare? Un attimo fa hai detto “affittare”!»

Le due donne si guardano male. Ridacchiano. A quindici anni si hanno degli amici. A volte si ritrovano.

Da piccoli, Benji e Kevin s’intrufolavano nella stanza degli allenatori e rovistavano nella borsa di David. Erano solo bambini, non sapevano nemmeno che cosa cercavano, volevano solo saperne di più sul coach che idolatravano. Una volta che David li scoprì stavano giocando, ammirati, con il suo orologio, finché a Kevin cadde a terra e il vetro si ruppe. David era entrato di corsa e aveva perso la testa in un attimo, non gli capitava quasi mai, ma quella volta li sgridò fino a far tremare le pareti del palazzetto:

«Quell’orologio era di MIO PADRE, maledetti mocciosi!»

Le parole gli si bloccarono in gola quando vide gli occhi dei bambini. Il senso di colpa non l’ha mai abbandonato davvero. Non ne parlarono più, ma David introdusse un rituale, solo tra sé e loro due. Ogni tanto, magari solo una volta in una stagione, quando uno di loro giocava una partita fenomenale, decisamente sopra la normalità, mostrando lealtà e coraggio, dava l’orologio al ragazzo, che poteva tenerlo fino alla partita successiva. Nessuno a parte Benji e Kevin sapeva della sfida, ma in quell’unica settimana all’anno in cui uno dei due riusciva a ottenerlo era immortale agli occhi dell’altro. In quei sette giorni era tutto più grande, perfino il tempo.

David non si ricorda quando hanno smesso. I bambini sono cresciuti, lui se n’è dimenticato, porta ancora l’orologio ogni giorno ma crede che nemmeno i ragazzi se ne ricordino più.

Sono cresciuti così in fretta. Tutto è cambiato così rapidamente. Gli juniores più forti hanno chiamato David, tutti vogliono giocare per lui a Hed. Costruirà una buona prima squadra lì, la prima squadra che ha sempre voluto mettere in piedi. Avrà Kevin, Filip e Lyt, con un gruppo di giocatori leali intorno a sé. Sponsor forti, supporto delle istituzioni, costruiranno qualcosa di grande. Manca solo un pezzo. E adesso quel ragazzo è lì sul ghiaccio, con le labbra su quelle di un altro ragazzo. David sta per vomitare.

Quando volta le spalle ai due e se ne va senza essere notato, l’orologio di suo padre brilla alla luce di un lampione solitario. Non riesce a guardare Benji negli occhi. Non sa se ci riuscirà mai di nuovo.

Tutte le ore che un giocatore e un allenatore trascorrono insieme nello spogliatoio, tutte le notti in pullman di ritorno dalle trasferte, a che cosa sono servite? Tutte le risate e le battute, tanto più rozze quanto più lungo era il viaggio, David ha sempre percepito tutto questo come qualcosa che univa la squadra. A volte le storielle erano sulle bionde, a volte prendevano in giro la gente di Hed, a volte prendevano di mira i gay. Ridevano tutti. Si guardavano e ridevano forte. Erano una squadra, si fidavano l’uno dell’altro, non avevano segreti. Eppure uno di loro ne aveva uno. L’ultimo che si potesse immaginare. È un tradimento.

Al calare della sera Jeanette appende un sacco da boxe al soffitto e stende un tappeto morbido sul pavimento del capanno. Adri la aiuta con smorfie e lamenti. Quando finiscono, Jeanette rimane ad allenarsi da sola, mentre Adri attraversa il bosco, arriva in città, raggiunge il quartiere delle villette a schiera. È tardi, e quando Sune apre e la vede dice senza fiato:

«È successo qualcosa a Benjamin?»

Adri scuote impaziente la testa, chiede invece:

«Come si fa a fondare una squadra di hockey?»

Sune si gratta la pancia confuso.

«Allora… Be’, non è difficile, si comincia e basta. In giro ci sono sempre ragazzi che vogliono giocare.»

«E ragazze?»

La fronte di Sune ne tradisce la perplessità. I respiri fischiano sotto il suo peso.

«C’è una squadra femminile a Hed.»

«Noi non siamo di Hed» risponde Adri.

Sune non può evitare di ridere, però mormora:

«Mi sa che non è un buon momento per una squadra femminile a Björnstad. Abbiamo già abbastanza problemi così.»

Adri incrocia le braccia.

«Ho un’amica, Jeanette, fa l’insegnante. Vuole fondare un club di arti marziali nel mio capanno.»

Le labbra di Sune sembrano assaporare parole sconosciute.

«Arti marziali?»

«Sì. Arti marziali. È brava. Era una lottatrice professionista. Ai ragazzi piacerà.»

Sune si gratta la pancia con entrambe le mani. Cerca di concentrarsi su ciò che sta per succedere.

«Ma… arti marziali? Non è una città di arti marziali. È una…»

Adri si è già avviata. Il cagnolino la segue senza esitazione. Sune gli va dietro imprecando e borbottando.

Quando David era piccolo, suo padre era un supereroe invincibile, come sono i papà. Si domanda se lo sarà anche lui per suo figlio. Il padre gli ha insegnato a pattinare, con pazienza e tenerezza. Non faceva mai a botte, David sapeva che a volte gli altri papà lo facevano ma il suo mai, suo padre leggeva le fiabe, cantava le ninnenanne, non rimproverava il figlio se si faceva la pipì addosso in un negozio, non gridava quando rompeva un vetro con un pallone. Era grande nella vita e un gigante sul ghiaccio, spietato e invulnerabile. “Un vero uomo!” lo elogiavano sempre gli allenatori. David si appoggiava alla balaustra e assorbiva ogni complimento come fosse destinato a lui. Il padre faceva tutto con uno scopo, non aveva mai dubbi, né sullo sport né sulle proprie convinzioni. “Puoi fare quello che vuoi, basta che non diventi frocio” diceva sempre ridendo. A volte però, al tavolo della cucina, poteva farsi serio: “L’omosessualità è un’arma di distruzione di massa, David, ricordatelo. È contro natura. Se tutti diventano gay l’umanità si estingue in una generazione”. Passati gli anni, da buon anziano guardava il telegiornale e commentava le notizie: “Non è un orientamento sessuale, è una moda! E quelli sarebbero una minoranza repressa? Ma se ha hanno una PARATA tutta per loro! Come fanno a sentirsi repressi?”. Quando beveva faceva un cerchio con le dita di una mano e ci infilava dentro l’indice dell’altra. “Così funziona, David!” Poi puntava gli indici l’uno contro l’altro: “Ma così no!”.

Se una cosa, una qualunque, era davvero brutta allora era “da froci”. Se una cosa non funzionava era “gay”. Era più di un concetto, era un avverbio, un aggettivo, erano armi grammaticali.

David torna a Björnstad. In macchina piange di rabbia. Si vergogna. È schifato. Di se stesso. Per un’intera vita di hockey ha allenato un ragazzo, gli ha voluto bene come a un figlio, è stato ricambiato come un padre. Non c’è giocatore più leale di Benji. Né cuore più grande del suo. Quante volte David ha abbracciato il numero 16 dopo una partita dicendoglielo? «Sei la bestia più coraggiosa che conosco, Benji. La bestia più coraggiosa che conosco.»

E dopo tutte le ore nello spogliatoio, tutte le notti in pullman, tutte le chiacchierate e tutte le battute, il sangue, il sudore e le lacrime, il ragazzo non ha avuto il coraggio di raccontare all’allenatore il proprio segreto più grande.

È un tradimento, David sa che è un tradimento infinito. Non c’è altro modo per spiegare quanto deve avere fallito un adulto con se stesso perché un ragazzo così combattivo creda che l’allenatore sarebbe meno orgoglioso di lui sapendo che è omosessuale.

David si odia per non essere stato migliore di suo padre. È il compito dei figli.

Adri e Sune vanno di casa in casa, e ogni volta che qualcuno apre e lancia al cielo un’occhiata significativa come per rimarcare che forse è un po’ tardi per bussare alla porta della gente perbene, Sune chiede: «Ci sono delle bambine in casa?». Adri racconterà questa storia come una leggenda, dicendo che è stato come quando il faraone ha girato l’Egitto in lungo e in largo alla ricerca di Mosè. Adri non è ferratissima sulla Bibbia, va detto, però è brava in altre cose.

A ogni porta le viene chiesto: “Non c’è una squadra femminile a Hed?”, e lei risponde a tutti la stessa cosa. Finché non suona un campanello e la maniglia dall’interno viene abbassata da qualcuno che ci arriva appena.

La bambina ha quattro anni e si trova in un ingresso senza luci, in una casa piena di lividi. Le sue mani mostrano terrore, sta in punta di piedi come se fosse sempre pronta a scappare, le orecchie origliano incessantemente, attente ai passi sulle scale. Gli occhi però sono spalancati, guardano dritto Adri senza sbattere.

Il petto di Adri fa in tempo a frantumarsi molte volte mentre lei si accovaccia. China, le ginocchia piegate, guarda la bambina. Adri ha visto la guerra, ha visto la sofferenza, ma non ci si abitua mai. Non si sa mai che cosa dire a una bambina di quattro anni che crede che il dolore che prova sia normale, perché la vita non le ha mai mostrato altro.

«Sai che cos’è l’hockey?» sussurra Adri.

La bambina annuisce.

«Sai giocare?» chiede Adri.

La piccola scuote la testa. Il cuore di Adri vacilla, la voce si spezza.

«È il gioco più bello del mondo. Il più bello del mondo. Ti va di imparare?»

La bambina fa sì con la testa.

David vorrebbe fin nel midollo poter tornare a Hed, prendere il ragazzo tra le braccia e dirgli che sa. Ma non può indursi a smascherare una persona che evidentemente non vuole parlare. Grandi segreti ci rendono uomini piccoli, soprattutto quando siamo noi gli uomini con cui gli altri devono avere dei segreti.

Allora torna a casa, appoggia la mano sulla pancia della fidanzata e finge che le lacrime siano per il bambino che deve nascere. Nella vita avrà successo, otterrà tutto quello che sogna, la carriera, le vittorie e i trofei, allenerà squadre imbattibili di club leggendari di molti Paesi, ma non permetterà mai a nessun giocatore di indossare il numero 16. Spererà sempre che un giorno Benji spunti fuori chiedendo di riavere la sua maglia.

A Björnstad c’è un puck appoggiato su una lapide. Il testo è breve, per farci stare tutte le parole. “Sei ancora la bestia più coraggiosa che conosco.” Accanto al puck c’è un orologio.