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Il lunedì mattina presto, quando scatta l’allarme della scuola, l’istituto di vigilanza non chiama la polizia, perché ci metterebbero ore ad arrivare. Chiama invece un’insegnante. Non a caso viene scelta, com’è logico, quella il cui fratello lavora all’istituto di vigilanza, in modo che lui non debba darsi la pena di andare a prendere le chiavi. La professoressa scende dalla macchina nel parcheggio deserto, solleva il colletto del cappotto e lo fissa stanca:

«A volte sei così pigro che comincio a credere che i tuoi figli siano stati adottati.»

Il fratello si mette a ridere.

«Dài, smetti di lamentarti, sei tu che dici sempre che non ti chiamo abbastanza!»

Lei sbuffa, gli ruba la torcia e apre la scuola.

«Sarà di nuovo caduta la neve dal tetto su un sensore sul retro.»

Entrano nel corridoio senza bisogno di accendere la luce: se qualcuno si intrufola in questa ala dell’edificio le lampade si accendono automaticamente. Ma che razza d’idiota s’introdurrebbe in una scuola di lunedì mattina?

Benji viene svegliato da una luce accecante, nonostante le lampade sul soffitto siano già accese. La schiena scricchiola. La bocca sa di liquore distillato in casa e di pessime arachidi piccanti, cosa che lo preoccupa parecchio perché non ha alcun ricordo di averne mangiate. Strizza gli occhi assonnato, solleva la mano e cerca di individuare la persona che gli sta puntando una torcia negli occhi. Ovviamente non ce n’era bisogno, ma il ragazzo puzzava troppo per essere svegliato con una scossa.

«Mi prendi in giro» sospira la professoressa.

Benji si tira su dai due banchi su cui stava dormendo. Allarga le braccia come lo stregone più stanco del mondo:

«Ma il preside ha detto che devo cominciare ad arrivare in orario al mattino. E allora… ta-da! Anzi… che ore sono?»

Si tocca le tasche. Non trova l’orologio. I ricordi sparpagliati della nottata suggeriscono che una spiegazione plausibile è che si sia bevuto anche quello. A posteriori anche l’esatta successione logica che l’ha portato a concludere la sua piccola odissea di sostanze introducendosi nella scuola è piuttosto vaga, ma è sicuro che quando è successo gli sembrava un’idea grandiosa.

La professoressa se ne va senza una parola, lui la vede parlare con una guardia in corridoio. La guardia lo rapporterà come un falso allarme, perché i fratelli fanno come dicono le sorelle maggiori, indipendentemente da quanti anni hanno. La prof rientra in classe e apre due finestre per cambiare l’aria. Annusa il giubbotto di Benji, fa una smorfia.

«Ti prego, dimmi che non hai portato droghe a scuola.»

Benji non riesce a indicarla.

«Non mi verrebbe… verrebbe… verrebbe MAI in mente! Le droghe a scuola non servono a niente. Le mie droghe ce le ho in corpo. Vuole ballare?»

Si ribalta dal banco e cade per terra di schiena ridacchiando. La professoressa si accovaccia accanto a lui, lo guarda desolata finché lui tace. A quel punto dice:

«Se lo racconto al preside dovrà sospenderti. Forse addirittura espellerti. E ti dirò una cosa, Benji. A volte credo sia quello che vuoi. È come se cercassi di dimostrare a tutto il mondo che nella tua vita non c’è nulla che il tuo essere distruttivo non riuscirebbe a devastare.»

Benji non risponde. Lei gli porge il giubbotto.

«Ora disattivo l’allarme, poi ti apro la palestra così ti fai una doccia. Sinceramente puzzi così tanto che sto pensando di chiamare anche la disinfestazione. Hai dei vestiti puliti nell’armadietto?»

Benji prova a sorridere quando lei lo aiuta ad alzarsi.

«Per essere presentabile davanti al preside?»

La prof sospira.

«Non dirò niente. Non ho intenzione di aiutarti a distruggerti la vita: puoi farlo da solo.»

Benji incrocia il suo sguardo e annuisce grato. Poi la voce si fa di colpo adulta, gli occhi diventano quelli di un uomo anziché di un ragazzo:

«Mi scusi se l’ho chiamata “chiappette dolci”. Le ho mancato di rispetto. Non lo farò più. Neanche gli altri della squadra.»

Si strofina la nuca e Jeanette quasi si pente di essere stata sincera quando al pub di Hed ha incontrato Adri, che le ha chiesto come se la cavava Benji a scuola. Però sa che se lui le dice che nessuno della squadra la chiamerà più così è la verità, e si domanda come sia avere tanta autorità sugli altri. Con una sola parola di Benji ogni giocatore di hockey della scuola può iniziare o smettere di fare qualunque cosa. Questo le fa quasi sentire nostalgia del gioco. Da bambine lei e Adri erano amiche, giocavano insieme a Hed. A volte teme che entrambe abbiano smesso troppo presto, si domanda cosa sarebbe successo se ci fosse stata una squadra femminile a Björnstad.

«Va’ a lavarti» dice accarezzando la mano di Benji.

«Sì, maestra» sorride lui, ora di nuovo con lo sguardo da ragazzo.

«Non mi entusiasma nemmeno essere chiamata “maestra”» grugnisce lei.

«E come vuole essere chiamata?»

«Jeanette. Jeanette va benissimo.»

Jeanette recupera un asciugamano dal borsone che ha in macchina, lui la segue fino alla palestra e, dopo che lei ha disattivato l’allarme e aperto la porta, si ferma sulla soglia e dice:

«Lei è una brava prof, Jeanette. Solo che è capitata da noi nel momento sbagliato, durante i nostri anni migliori.»

In quel momento lei capisce perché la squadra gli dà retta. È lo stesso motivo per cui le ragazze si innamorano. Quando ti guarda dritto negli occhi e dice qualcosa, indipendentemente dalla cazzata che ha appena fatto, gli credi.

Il padre di Kevin fa il nodo alla cravatta, si aggiusta i gemelli e prende la valigetta. All’inizio pensa di salutare dalla porta il figlio che è in giardino, ad alta voce, come al solito, ma cambia idea ed esce in veranda. Appoggia la valigetta e prende un bastone. Rimangono uno accanto all’altro a tirare a turno. Saranno passati dieci anni dall’ultima volta.

«Scommetto che non riesci a colpire il palo» dice il padre.

Kevin alza le sopracciglia come fosse una battuta. Quando capisce che non lo è, sposta indietro il puck di qualche centimetro, piega dolcemente i polsi e lo piazza con un colpo sul metallo. Il padre picchietta soddisfatto la base del suo bastone.

«Fortuna?»

«I giocatori bravi meritano un po’ di fortuna» risponde Kevin.

L’ha imparato da piccolo. Il padre non l’ha mai lasciato vincere nemmeno una partita a ping-pong in garage.

«Hai visto le statistiche della partita?» chiede il figlio speranzoso.

Il padre annuisce e guarda l’orologio. Si avvia verso la valigetta.

«Spero tu non creda che la finale sia una scusa per non dare il cento per cento a scuola questa settimana.»

Kevin scuote la testa. Il padre sta per toccargli la guancia. Sta per chiedergli dei segni rossi sul collo. Invece si schiarisce la voce e dice:

«Adesso la gente di questa città cercherà di attaccarsi a te più di prima, Kevin, quindi devi ricordare che i virus ti fanno ammalare. Devi esserne immune. E la finale non è solo una questione di hockey. È questione di che tipo di uomo vuoi essere. Uno che va a prendersi ciò che si merita, oppure uno che sta in un angolo ad aspettare che qualcuno glielo dia.»

Il padre va via senza aspettare una replica, e il figlio rimane con i graffi sulla mano e un battito in gola che non smette di pulsare isterico.

La madre lo sta aspettando in cucina. Kevin la fissa incerto. Sul tavolo c’è la colazione appena preparata. Profumo di pane.

«Io… be’, è sciocco, forse… ma mi sono presa la mattinata libera» dice.

«Come mai?» chiede Kevin.

«Ho pensato che potevamo… stare insieme. Solo tu e io. Ho pensato che potevamo… parlare.»

Kevin evita il suo sguardo. Lei ha un’aria un po’ troppo implorante perché lui possa sopportare il contatto visivo.

«Devo andare a scuola, mamma.»

Lei annuisce con i segni dei denti sul labbro inferiore.

«Sì. Sì. Certo… è stato sciocco. Sono una sciocca.»

Vuole seguirlo e fargli un milione di domande. Stanotte ha trovato le lenzuola nell’asciugatrice, e in questa casa lui non si è mai lavato da solo nemmeno un calzino. C’era anche una maglietta, con delle macchie di sangue che non sono andate via del tutto. Stamattina, mentre lui era in giardino a tirare i puck, è entrata in camera sua. Ha trovato il bottone di una camicetta sul pavimento.

Vuole seguirlo, ma non sa come si parla con gli uomini quasi adulti attraverso la porta chiusa di un bagno. Prepara la valigetta, sale in macchina e guida per mezz’ora nel bosco prima di fermarsi. Rimane lì tutta la mattina, in modo che nessuno al lavoro le chieda come mai è arrivata così presto. Aveva detto che sarebbe stata con suo figlio.

Mira ha una mano sulla porta della camera di Maya, ma non bussa un’altra volta. La figlia ha già detto di non stare bene e Mira non vuole essere quel tipo di mamma. Asfissiante, noiosa, ansiosa, coccolona. Non vuole bussare un’altra volta solo per chiedere se in realtà c’è qualcos’altro che non va. Non si può, niente fa tacere un’adolescente più delle parole “vuoi parlare?”. Non può aprire la porta e chiederle perché di punto in bianco ha cominciato a farsi il bucato di sua volontà. Cioè, cos’è lei? Una dei servizi segreti?

Quindi Mira fa la mamma non asfissiante, non noiosa, non ansiosa e non coccolona. Sale in macchina e parte. Dopo quarantacinque minuti nel bosco si ferma. Rimane lì da sola al buio ad aspettare che la pressione sul petto si allenti.

Lyt apre la porta con la faccia di chi ha visto una torta.

«Kevin! Bella! Cioè… cosa…?»

Kevin gli fa un cenno impaziente.

«Sei pronto?»

«Per… cosa? La scuola? Adesso? Con te? Cioè… se voglio andare a scuola? Con te?»

«Sei pronto o no?»

«Dov’è Benji?»

«Lascia perdere Benji» sbuffa Kevin.

Lyt rimane a bocca aperta, sconvolto, senza sapere cosa dire. Kevin alza gli occhi al cielo impaziente.

«Che cosa aspetti, la comunione? Chiudi la bocca, cazzo. Andiamo.»

Eccitato, Lyt s’incasina per poter uscire con le scarpe al piede giusto e il giubbotto almeno ragionevolmente vicino alla parte giusta del corpo. Kevin non spiccica una parola per tutto il tragitto, finché il grosso compagno di squadra s’illumina e tira fuori una banconota da cento corone.

«Sono in debito, giusto?»

Quando Kevin la prende, Lyt comincia a ridacchiare in maniera incontrollata. Poi Kevin, cercando di apparire indifferente, gli chiede:

«Però tieni la bocca chiusa, okay? Sai come sono le tipe.»

Niente ha mai fatto sentire Lyt così euforico come la possibilità di condividere un segreto con il suo capitano.

Il telefono squilla e Maya spera con tutta l’anima che sia Ana, ma è di nuovo Amat. Nasconde il telefono sotto il cuscino, come se cercasse di soffocarlo. Non sa cosa dirgli e sa che Amat, più di tutto, vorrebbe non aver visto nulla. Se non risponde al telefono forse entrambi possono imparare a fingere che non sia mai successo. Che sia stato solo un equivoco.

Toglie le batterie dagli allarmi antincendio e apre tutte le finestre, poi butta la camicetta nella doccia e le dà fuoco. Subito dopo incendia un vasetto di yogurt, lascia bruciare la parte superiore, lo spegne e appoggia i residui sul piano della cucina. Quando sua mamma, la donna dall’olfatto di un grizzly affamato, tornerà a casa e chiederà di quell’odore di fumo, Maya spiegherà che le è caduto uno yogurt su una piastra calda.

Raccoglie con cura i residui della camicetta dal pavimento del bagno e solo allora si accorge che i bottoni si sono fusi e incastrati nello scarico, il materiale sintetico non si è trasformato in cenere come sperava. Se ci fosse Ana le direbbe: “Cazzo, Maya, se una volta devo uccidere qualcuno ricordami di non chiedere una mano A TE!”. Le manca. Dio, quanto le manca. Per diversi minuti la ragazza rimane seduta per terra in lacrime tentando di convincersi a chiamare la migliore amica, ma non può farle questo. Non può coinvolgerla in questa storia. Non può costringerla a portare questo segreto.

Ci mette più di un’ora a pulire il bagno e a eliminare i residui della camicetta bruciata. Li infila in un sacchetto, rimane tremante sulla porta a fissare il bidone dieci metri più in là. Fuori c’è luce, ma non fa differenza. Ha paura del buio, in pieno giorno.