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C’è un vecchio modo di dire che piace agli allenatori: “Come si dice quando un uomo va nel bosco e altri lo seguono? Leadership. E se quello stesso uomo va nel bosco da solo? Passeggiata”.

Peter entra in casa. Sistema il latte in frigo, appoggia il pane sul piano della cucina, mette le chiavi della macchina in una ciotola. Solo in quel momento si ricorda di aver lasciato l’auto al palazzetto. Si domanda tranquillo se domani la troverà bruciata, piena di rami carbonizzati. Prende le chiavi, stacca il portachiavi, lo butta nella spazzatura, rimette le chiavi nella ciotola.

Mira arriva in cucina. Si posiziona sui piedi di lui, che ballando lentamente sussurra all’orecchio della moglie:

«Possiamo trasferirci. Puoi trovare lavoro dovunque.»

«Ma tu no, tesoro, tu non puoi trovare un lavoro nell’hockey dovunque.»

Lo sa. Lo sa bene. Eppure non è mai stato più convinto di una cosa quando ribatte:

«Tu sei venuta qui per me. Io posso andarmene da qui per lei.»

Mira gli prende il volto tra i palmi. Vede le chiavi nella ciotola. Da quando lo conosce, alle chiavi della sua macchina è sempre stato attaccato un portachiavi a forma di orso. Non c’è più.

Ana è seduta sul letto, la stanza non le sembra più la sua. Quando sua mamma era furiosa e ferita come non mai perché la figlia non era andata via con lei dopo il divorzio, disse che quello di Ana era un caso tipico di “codipendenza”. Che era rimasta per il padre, perché sapeva che senza di lei lui sarebbe andato a fondo. Forse era vero, Ana non lo sa. Ha sempre voluto stare vicino a lui, non perché lui la capisse ma perché capiva il bosco. Era la sua grande avventura e nessuno ne sapeva più di lui, non c’era cacciatore migliore di suo padre in tutta Björnstad. Da bambina, di notte restava sveglia a letto, vestita, sperando che squillasse il telefono. Quando qualcuno investiva un animale con l’auto, cosa che d’inverno capitava spesso, e allertava la polizia perché l’animale ferito si era dileguato nel bosco, chiamavano il papà di Ana.

La sua testardaggine, ostinazione e silenziosità erano qualità pessime nella vita, ma perfette nel bosco. «Allora statevene qui insieme con la bocca chiusa per tutta la vita!» gridò la mamma andandosene, e così fecero. Non avevano niente in contrario.

Ana ricorda bene che da bambina insisteva sempre per poter accompagnare il padre di notte, ma non vinceva mai. Era sempre troppo pericoloso, troppo tardi, troppo freddo. E sapeva che era perché lui aveva bevuto. Il padre si fidava sempre della figlia nel bosco, però non si fidava di se stesso.

Adri dà il cibo ai cani nell’allevamento. Vede Benji nella palestra allestita nel capanno, le stampelle a terra e lui sotto il bilanciere. Stasera ha sollevato un’enormità di pesi, perfino per uno come lui, il suo stupido fratellino. Lei sa che oggi la squadra ha l’allenamento facoltativo, ha sentito dire in città che erano a correre nel bosco. Che c’era anche Kevin.

Però non chiede a Benji perché preferisce stare qui da solo. Non vuole essere la sorella asfissiante. Non sarà nata qui, ma è comunque una ragazza di Björnstad. Dura come il bosco, testarda come il ghiaccio. Lavora sodo e tiene la bocca chiusa.

Nuda davanti allo specchio in camera, Ana conta. È sempre stata brava in questo. Ha sempre avuto ottimi voti in matematica. Da piccola contava tutto, i sassi, i fili d’erba, gli alberi nel bosco, le orme sul terreno, le bottiglie vuote nell’armadietto sotto il lavello dopo il fine settimana, le lentiggini sulla pelle di Maya, perfino i respiri. A volte, quando stava malissimo, contava le cicatrici. Ma soprattutto contava i difetti. Si metteva davanti allo specchio e li indicava: tutto ciò che la rendeva sbagliata. A volte le sembrava più sopportabile dirselo ad alta voce prima che lo facesse qualcun altro a scuola.

Il papà bussa alla porta. Non lo fa da anni. Da quando la mamma se n’è andata, padre e figlia hanno un piano della casa ciascuno, a ciascuno il proprio mondo. Ana si riveste e apre, stupita, lui è in corridoio con aria depressa. Non la depressione da sbronza, non l’uomo triste e solitario che stava in piedi la notte. È sobrio, ora. Allunga la mano senza toccarla, come se non sapesse dirle che è preoccupato. Pronuncia le parole lentamente:

«Ho parlato con quelli della squadra di caccia. Il club di hockey ha convocato una riunione dei soci. C’è un’associazione di genitori e sponsor che ha chiesto di votare su Peter.»

«Su… Peter?» ripete Ana, perché non coglie il senso.

«Vogliono che il club lo cacci via.»

«Eh? Per cosa

«La denuncia è arrivata una settimana dopo la festa. Alcuni sostengono che… quello che è successo… lo è…»

Non riesce a dire la parola “stupro” davanti alla figlia, non vuole che veda quanto è sollevato e felice che non sia successo a lei. Ha paura che lo odi per questo. I pugni di Ana sbattono sul bordo del letto.

«Una bugia? Dicono che è una bugia? E adesso credono che Peter abbia aspettato una settimana a rivolgersi alla polizia perché voleva danneggiare Kevin? COME SE FOSSE KEVIN LA VITTIMA?!»

Il padre annuisce. Rimane sulla porta così a lungo senza sapere che cosa dire che alla fine gli esce soltanto:

«Ho fatto gli hamburger di alce. Sono in cucina.»

Si chiude la porta alle spalle, scompare giù per le scale.

La sera Ana telefona a Maya cento volte. Capisce perché lei non risponde. Sa che Maya la odia. Che cosa aveva previsto che succedesse, infatti, Maya? Proprio questo. Se non avesse detto la verità, Kevin avrebbe ferito solo lei. Invece così ha ferito anche tutti quelli a cui Maya vuole bene.

Suonano alla porta. Peter apre. È il presidente. Sembra dispiaciuto, così raggrinzito, sudato e sporco, così sfinito e stressato che Peter non riesce nemmeno a detestarlo.

«Ci sarà una riunione e una votazione. Il club è composto dai soci, se pretendono che il consiglio di amministrazione ti licenzi… be’… io non posso fare nulla, Peter. Però puoi venire a perorare la tua causa. È un tuo diritto.»

La ragazza si presenta nell’ingresso, dietro il padre. All’inizio Peter allunga il braccio, come per proteggerla, ma lei lo scosta tranquilla di lato. Si mette sulla porta a guardare il presidente negli occhi. Lui ricambia lo sguardo.

Almeno questo lo fa.

È tardi quando la stampella di Benji bussa alla porta della camera di Adri. Gli tremano le braccia per il dolore muscolare. Adri conosce solo tre fasi di allenamento per le persone normali: sopportare il dolore, quando s’impara imparare a goderne, e cominciare a sentirne la mancanza. Suo fratello è ben oltre. Ha bisogno del dolore. Ne è dipendente. Non sopravvive senza.

«Mi dai un passaggio?» chiede.

Le piacerebbe fare molte domande, ma non dice niente. Non è quel genere di sorella. Se vuole qualcuno che gli sta addosso può chiamare Katia o Gaby.

Peter chiude la porta. Lui e Maya rimangono da soli nell’ingresso. La figlia alza lo sguardo:

«È il consiglio o sono i genitori che vogliono cacciarti?»

Peter tende malinconico gli angoli della bocca.

«Entrambi. Per il consiglio però è più facile se a richiederlo sono i soci. È sempre più facile far prendere a qualcun altro le proprie penalità.»

Lei appoggia le mani su quelle del papà.

«Ho rovinato tutto, ho rovinato tutto a tutti, ho rovinato tutto… a te…» singhiozza.

Lui le scosta i capelli dalla faccia, risponde con calma:

«Non dire così. Non pensarlo nemmeno. Mai più. Cosa mi devono quei bastardi? Una stupida macchina da espresso? Possono infilarsela su per il culo!»

Lei comincia a ridacchiare, come quando la mamma racconta le barzellette sporche e il papà si imbarazza.

«A te non piace nemmeno l’espresso. L’hai chiamato “expresso” fino a tipo un anno fa…»

Lui appoggia la fronte contro quella di lei.

«Tu e io sappiamo la verità. Tu, la tua famiglia e tutte le persone di buon senso sanno la verità. E avremo giustizia, in qualche modo, te lo prometto. Voglio… voglio solo… non devi…»

«È tutto a posto, papà. È tutto a posto.»

«No, non lo è! Non lo sarà mai! Non devi mai, mai credere che sia tutto a posto, che quello che ha fatto… non voglio… Ho paura, Maya, ho tanta paura che tu creda che io non voglia ucciderlo… che non voglia ucciderlo ogni minuto di ogni giorno… perché è quello che voglio…»

Le lacrime del padre gocciolano sulle guance della figlia.

«Anch’io ho paura, papà. Di tutto. Del buio e di… tutto.»

«Che cosa posso fare?»

«Volermi bene.»

«Sempre, Torsolo.»

Lei annuisce.

«Posso chiederti una cosa?»

«Qualunque cosa.»

«Stasera possiamo andare in garage a suonare i Nirvana?»

«E cos’altro, se no?»

«Come fanno a non piacerti i Nirvana?»

«Ero troppo vecchio quando hanno sfondato.»

«Come si fa a essere “troppo vecchi” per i Nirvana?! Ma quanti anni hai?»

Ridono. È un grande potere riuscire ancora a far ridere l’altro.

Sola in cucina, Mira sente il marito e la figlia suonare nel garage. Maya è molto più brava, lui va fuori tempo di continuo e lei gli va dietro per non farlo sentire stupido. Mira sente la mancanza di alcol e sigarette. Non fa in tempo a cercarli perché qualcuno mette un mazzo di carte sul tavolo. Non quelle normali, ma è quel gioco da bambini che facevano sul camper che noleggiavano quando i ragazzi erano piccoli. Ovviamente sono stati i ragazzi a smettere di giocarci perché i genitori non erano mai d’accordo sulle regole.

«Giochiamo. Magari ti lascio anche vincere» dice Leo sedendosi.

Appoggia due bibite sul tavolo. Ha dodici anni ma si lascia lo stesso abbracciare piuttosto forte dalla mamma.

In una sala prove in un seminterrato alla periferia di Hed, c’è una luce solitaria accesa sopra la testa di un ragazzo vestito di nero, seduto su una sedia, che suona il violino. Ha ancora lo strumento in mano quando bussano alla porta. Benji è lì chino sulle stampelle con una bottiglia in mano. Il bassista cerca di essere adeguatamente silenzioso e misterioso, ma il suo sorriso non ubbidisce a certe leggi.

«Che cosa ci fai qui?»

«Una passeggiata» risponde Benji.

«Non dirmi che è fatta in casa» sorride il bassista verso la bottiglia.

«Se vuoi vivere da queste parti devi imparare a berla, prima o poi» risponde Benji.

Il bassista immagina che da queste parti significhi “scusa”. Sono tipi che comunicano molto con le bevande, ha notato.

«Non ho nessuna intenzione di stabilirmi qui» promette.

«Nessuno ce l’ha. Ci si rimane e basta» dice Benji entrando nella stanza con un saltello.

Non chiede del violino. Il bassista lo apprezza per questo. Perché Benji è quel tipo di persona che non si stupisce che qualcuno possa essere più di una cosa.

«Se io suono tu puoi ballare» propone il bassista muovendo delicatamente l’archetto sulle corde.

«Non sono capace» risponde Benji senza capire che era una battuta sulle sue stampelle.

«È facile. Basta stare fermi e poi smettere di stare fermi» sussurra il bassista.

I pettorali di Benji tremano ancora per lo sforzo. La cosa lo aiuta. In confronto, dentro gli sembra di essere immobile.

Ana viene svegliata dal telefono, lo raccoglie da terra ma non è il suo a suonare. È quello del padre. Sente la sua voce, lo sente parlare mentre si veste, lo sente prendere i cani e la chiave dell’armadio delle armi. I rumori rappresentano una melodia nota per lei, una ninnananna dell’infanzia. Aspetta il finale. La porta d’ingresso che si chiude. La chiave che gira. Il vecchio pick-up arrugginito che parte. Non arriva. Invece: un colpetto alla porta. La voce discreta del padre che la chiama, la domanda attraverso la porta:

«Ana. Sei sveglia?»

È già vestita prima che abbia finito la frase. Apre la porta. Lui ha un fucile per mano.

«Devo andare a cercare un animale, sulla strada a nord, potrei chiamare qualche incapace in città ma… visto che ho in casa il secondo miglior cacciatore di Björnstad…»

Ana vuole abbracciarlo. Non lo fa.

I ragazzi sono sdraiati per terra in sala prove. La bottiglia è vuota. Cantano a turno le peggiori canzoni da bar che conoscono. Ridono forte per ore.

«Che cos’ha l’hockey?» chiede il bassista.

«Che cos’ha il violino?» ribatte Benji.

«Bisogna spegnere il cervello per poterlo suonare. La musica è una pausa da se stessi» risponde il bassista.

La risposta è troppo rapida, troppo ovvia, troppo sincera perché Benji possa controbattere con qualcosa di sarcastico. Quindi dice le cose come stanno.

«I rumori.»

«I rumori?»

«Quella roba dell’hockey. Quando entri nel palazzetto. Tutti quei rumori che riconosci solo se giochi. E poi… quella sensazione quando vai dallo spogliatoio alla pista, l’ultimo centimetro in cui il pavimento diventa ghiaccio. Il primo passo, quando entri… hai le ali.»

Restano a lungo in silenzio. Non osano muoversi, come se si trovassero su un tetto di vetro.

«Se t’insegno a ballare m’insegni a pattinare?» sorride il bassista alla fine.

«Non sai pattinare? Che cazzo di problema hai?» esclama Benji, come se il bassista gli avesse appena detto che non sa imburrare il pane.

«Non ne ho mai capito il senso. Ho sempre pensato che il ghiaccio è il modo che ha la natura per dire agli uomini di evitare l’acqua.»

Benji ride.

«E allora perché adesso vuoi imparare?»

«Perché tu ami tanto farlo. Vorrei capire… una cosa che tu ami.»

Il bassista sfiora la mano di Benji, Benji non la ritrae, però si alza, e l’incantesimo si spezza.

«Devo andare» dice Benji.

«No» lo implora il bassista.

Benji va via lo stesso. Esce dalla porta senza dire altro. La neve cade con le lacrime, il buio lo afferra, lui si arrende senza lottare.

Quando una finestra si rompe, una stanza può riempirsi di una quantità così inconcepibile di schegge di vetro che sembra assurdo che fosse davvero soltanto un vetro. Proprio come un bambino piccolo può allagare un’intera cucina rovesciando solo un cartone di latte, quasi che il liquido si espandesse all’infinito appena uscito dalla confezione.

Chi ha lanciato il sasso si è avvicinato al muro della casa, un passo prima del limite, e l’ha scagliato con tutte le sue forze per farlo arrivare il più lontano possibile nella stanza. Il sasso colpisce l’armadio, rimbalza, e atterra nel letto di Maya. Segue una pioggia di vetri, lenti e leggeri come una farfalla, avrebbero potuto essere cristalli di ghiaccio o piccole schegge brillanti di diamante.

Peter e Maya sentono il fragore sopra la chitarra e la batteria. Schizzano in casa dal garage, in camera di Maya entra un’aria gelida, Leo al centro della stanza sta fissando il sasso, a bocca aperta. Sopra c’è scritto TROIA a lettere rosse.

È Maya a percepire per prima il vero rischio, Peter ci impiega qualche secondo in più a capire chi si trova davvero in pericolo di vita, si precipitano uno via l’altro verso la porta d’ingresso ma è troppo tardi. È aperta. La Volvo è già accesa nel vialetto.

Sono in quattro, due scappano a piedi e due in bici, quelli in bici non hanno speranze. Sui marciapiedi la neve arriva ancora alla caviglia, quindi possono passare solo nei solchi spalati in strada. Mira preme l’acceleratore così a fondo che la Volvo si lancia sbandando e ruggendo dietro di loro, in venti metri li raggiunge, il suo piede non si avvicina nemmeno al freno. Sono solo bambini, tredici o quattordici anni al massimo, ma lo sguardo della mamma di Maya è vuoto. Uno dei ragazzini si volta, resta abbagliato dai fari, si getta terrorizzato giù dalla bici in corsa e finisce di testa dentro uno steccato. L’altro riesce a fare lo stesso un attimo prima che il paraurti della Volvo si schianti a tutta forza contro la sua ruota posteriore e la bici venga sbalzata lungo la strada.

Ha i pantaloni strappati e il mento coperto di sangue quando Mira ferma la macchina, apre la portiera e scende. Prende dal bagagliaio uno dei bastoni da golf di Peter. Lo afferra con entrambe le mani e si avvia verso il ragazzo a terra. Lui piange e grida, lei non se ne preoccupa, non prova niente.

Maya esce di corsa in strada solo con le calze, sente il papà gridare il suo nome ma non si volta. Sente il botto dell’auto che investe la bici, vede il corpo schizzare in aria senza peso, gli stop rossi della Volvo le fanno bruciare gli occhi, la sagoma della mamma che scende. Il bagagliaio che si apre, un bastone da golf tra le mani della mamma, Maya scivola sulle pozzanghere ghiacciate con le calze fradicie, i piedi sanguinano, grida finché la voce è solo un rantolo roco.

Mira non ha mai visto una persona così spaventata. Delle mani piccole afferrano il bastone da dietro e la buttano a terra. Quando Mira alza lo sguardo Maya la tiene forte gridando, ma all’inizio Mira non capisce che cosa. Non ha mai visto un terrore del genere.

I ragazzini in strada si tirano su e scappano scivolando. Mamma e figlia rimangono sedute per terra, piangendo in modo isterico, la mamma ha ancora stretto in mano il bastone da golf, mentre la figlia le sussurra più e più volte cullandola tra le braccia:

«Va tutto bene, mamma, va tutto bene.»

Nelle case intorno le luci sono ancora spente, sanno però che nella via sono tutti svegli. Mira vuole alzarsi e urlargli contro, tirare sassi contro le loro maledette finestre, ma la figlia la stringe forte, e rimangono lì, con il respiro tremante l’una nella pelle dell’altra. Maya sussurra:

«Sai che quando ero piccola gli altri genitori all’asilo ti chiamavano “mamma lupo” perché tutti avevano paura di te? E tutti i miei compagni volevano una mamma come te.»

Mira singhiozza nell’orecchio della figlia:

«Non ti meriti questo schifo, tesoro, non te lo meriti…»

Maya stringe le guance della mamma e le bacia dolcemente la fronte.

«So che avresti ucciso per me, mamma. So che avresti dato la vita per me. Ma ce la faremo, io e te. Perché sono tua figlia. Ho il sangue del lupo.»

Peter le carica sulla Volvo. Prima la figlia, poi la mamma. Fa retromarcia piano lungo la strada. Fino a casa.

Le biciclette rimangono nella neve, il giorno dopo sono sparite. Nessuno dei residenti ne parlerà.