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Perché ci si interessa allo sport?

Forse dipende da chi si è. E da dove ci si trova.

Nessuno sa bene quanti anni abbia Sune, è quel genere di uomo che sembra averne settanta da almeno venti e nemmeno lui si ricorda di preciso da quanti anni è allenatore della prima squadra. L’età l’ha reso più basso, lo stress e le abitudini alimentari lo hanno reso più largo, ormai ha la sagoma di un pupazzo di neve. Oggi è arrivato al lavoro molto prima del solito, ma quando il gruppo di uomini esce dal palazzetto rimane nascosto lì fuori, al margine del bosco, aspetta che si siedano in macchina e partano. Non perché si vergogna, ma perché vuole evitare che loro si vergognino di fronte a lui. Li conosce quasi tutti da sempre, molti li ha perfino allenati. Il fatto che vogliano cacciarlo e sostituirlo con l’allenatore della squadra juniores è il segreto meno segreto della città. Non serve dire a Sune di non scatenare un conflitto aperto, lui non farebbe mai una cosa del genere contro il club. Sa che c’è di mezzo molto più dell’hockey.

Björnstad è la parte povera di un grande bosco, ma ci sono ancora uomini ricchi. Hanno salvato il club dal fallimento e adesso vogliono la loro ricompensa: gli juniores li condurranno al top. Domani vinceranno la semifinale del campionato giovanile, il prossimo fine settimana la finale. Quando il Consiglio regionale dovrà istituire il nuovo liceo di hockey non potrà che farlo nella città dei campioni nazionali juniores. Il club diventerà il cuore dei progetti futuri della zona, con il nuovo liceo arriverà un nuovo palazzetto, poi un centro congressi e un centro commerciale. L’hockey diventerà più che hockey, diventerà turismo, marchio di fabbrica e capitale per investimenti. Sopravvivenza.

Quindi il club è più di un club, è un regno per il cui potere si battono gli uomini più forti del bosco, in cui non c’è posto per Sune. Il vecchio allenatore guarda il palazzetto. Gli ha dato tutta la sua vita. Non ha famiglia, non ha hobby, nemmeno un cane. Presto sarà disoccupato, non sa di che cosa vivrà, né per che cosa. Comunque non può prendersela con nessuno, né con il presidente né con l’allenatore juniores né, soprattutto, con Peter. Il povero Peter probabilmente non ne sa ancora nulla, ma lo costringeranno a mettere in atto il licenziamento, a fare la parte di quello con l’ascia in mano che deve giustificare tutto ai media. Perché dovranno essere sicuri che il club rimanga unito e le pareti restino spesse.

Prima o poi tutte le associazioni sportive devono decidere dove vogliono arrivare davvero, e il Björnstad non vuole più solo giocare. Sostituiranno Sune con l’allenatore juniores per un semplice motivo: quando Sune parla con i suoi giocatori prima delle partite fa dei lunghi discorsi dicendogli di giocare con il cuore. L’allenatore juniores pronuncia soltanto una parola nello spogliatoio: “Vincete!”. E gli juniores vincono. Non fanno altro da dieci anni.

Solo che Sune non è più così certo che questo sia davvero tutto ciò di cui un club dovrebbe essere fatto: ragazzi che non perdono mai.

L’utilitaria viaggia sulle strade appena spalate. Maya appoggia depressa la fronte contro il finestrino come solo una quindicenne può fare. Molto più a sud è primavera, ma Björnstad sembra avere due stagioni, l’inverno qui è così scontato che l’estate pare cogliere sempre tutti di sorpresa. Nessuno fa in tempo ad abituarsi alla luce del sole nei due o tre mesi in cui viene concessa prima che scompaia di nuovo, e nel resto dell’anno a volte ci si sente come se si vivesse sottoterra.

Ana le pizzica forte l’orecchio con i polpastrelli.

«Che cavolo fai?» esclama Maya strofinandosi tutto il lato della faccia.

«Mi sto annoiando! Facciamo un gioco!» propone Ana eccitata.

Maya sospira, ma senza protestare. Perché adora quella scema ingurgitafrullati e perché hanno quindici anni e sua mamma le ricorda in continuazione che “nella vita non si hanno più degli amici come quelli che si hanno da ragazzini, Maya. Nemmeno se ce li si tiene per tutta la vita. Non sarà mai più lo stesso”.

«Okay, senti questa: preferiresti essere cieca e un fenomeno a picchiare o essere sorda e un fenomeno a…» comincia Anna.

«Cieca» risponde Maya senza esitazione.

È il gioco preferito di Ana, lo fanno da quando erano piccole. In fin dei conti, il fatto che crescendo certe cose non si abbandonino rappresenta una sicurezza.

«Non hai nemmeno sentito l’alternativa!» protesta Ana.

«Chi se ne frega dell’alternativa. Non posso vivere senza poter ascoltare la musica, ma posso vivere senza vedere la tua faccia insopportabile tutti i giorni.»

«Scema» sospira Ana.

«Stordita» ridacchia Maya.

«Okay, allora questa: avere sempre le caccole nel naso o stare con un ragazzo che ha sempre le caccole nel naso.»

«Avere sempre le caccole nel naso.»

«Be’, se rispondi così si capiscono un casino di cose di te.»

«Se fai questa domanda si capiscono un casino di cose di te.»

Ana tenta di picchiare Maya sulla coscia ma Maya la schiva agilmente e tira all’amica un pugno potentissimo sul braccio. Ana grida, poi scoppiano entrambe a ridere.

A quindici anni si hanno amici che non si avranno mai più.

Sul sedile anteriore, con una tecnica ben affinata nel tempo per ignorare le frequenze audio della sorella e della sua migliore amica, Leo si volta verso il padre e domanda:

«Vieni a vedermi agli allenamenti oggi?»

«Sì… ci provo… ma viene la mamma!» risponde Peter.

«La mamma viene sempre» dice Leo.

In un dodicenne è solo una constatazione, non un’accusa. Peter però la percepisce così. Guarda l’orologio della macchina tanto spesso che deve picchiarci sopra per assicurarsi che non si sia fermato.

«Sei stressato?» chiede Ana dal sedile posteriore proprio con quel tono che, se per caso sei stressato, può farti venire voglia di lanciare cose dappertutto.

«Ho solo una riunione, Ana. Grazie per averlo chiesto.»

«Con chi?» domanda Ana.

«Con il presidente del club. Dobbiamo parlare della partita degli juniores di domani…»

«Che palle, parlano tutti degli juniores, sapete che è solo uno stupido gioco, vero? In realtà non frega a nessuno!»

Ana scherza, adora l’hockey, ma Maya sibila subito:

«Non dirgli così oggi!»

«Va fuori di testa!» concorda Leo.

«Fuori di testa? Chi va fuori di testa?» chiede Peter.

Maya si china in avanti rapida.

«Non c’è bisogno che arrivi fino a scuola, papà. Puoi fermarti qui!»

«Non c’è problema» insiste Peter.

«Non c’è problema per… te, no» geme Maya.

«Che cosa vuoi dire? Ti vergogni di me?»

Ana le viene in aiuto: «Sì!».

Interviene Leo: «E in più non vuole che ti vedano perché se no tutti quelli della sua classe vanno da lei a parlare di hockey».

«E che cosa c’è di male? È una città di hockey!» commenta Peter stupefatto.

«Ma magari non per questo tutta la vita deve girare intorno all’hockey» si lascia sfuggire Maya valutando di aprire la portiera in corsa e buttarsi giù. La neve è ancora alta, non dovrebbe farsi male, sembra valerne la pena.

«Perché dici così? Perché dice così, Leo?» sproloquia il papà sul sedile anteriore.

«Puoi fermarti e basta? O almeno rallentare, basta che rallenti» lo implora Maya.

Nel frattempo Ana picchietta eccitata sulla spalla di Leo.

«Okay, senti questa, Leo: non giocare mai più a hockey o non giocare mai più ai videogiochi?»

Leo guarda il papà con la coda dell’occhio. Tossisce un po’ imbarazzato. Comincia a togliersi la cintura e a cercare a tastoni la maniglia. Peter scuote la testa sconsolato.

«Non azzardarti a rispondere, Leo. Non azzardarti.»

Mira sta uscendo da Björnstad con la Volvo. Stamattina ha sentito Peter vomitare in bagno. Se è l’effetto che ha lo sport sugli uomini adulti di questa città, cosa non farà allora ai diciassettenni juniores che devono giocare domani? Tra le mogli di Björnstad gira una vecchia battuta: “Vorrei solo che mio marito mi guardasse come guarda l’hockey”. Mira non ha mai riso sentendola, perché ne capisce fin troppo bene il motivo.

Sa cosa dicono di lei gli uomini della città, sa di essere ben lontana dal prototipo della leale moglie del direttore sportivo che si aspettavano quando hanno assunto Peter. Loro non considerano il club come un datore di lavoro ma come un esercito, i soldati devono farsi trovare pronti quando vengono convocati, le famiglie devono rimanere sulla porta a salutare, fiere. La prima volta che Mira incontrò il presidente fu a un torneo di golf organizzato dagli sponsor, e all’aperitivo prima della cena lui le mise un bicchiere vuoto in mano. C’erano così poche donne nel suo mondo di hockey che vedendone una che non conosceva aveva dato per scontato che fosse una cameriera.

Una volta accortosi dell’errore si mise a ridere, come se anche Mira dovesse trovare la situazione spassosa. Visto che lei non la pensava così, lui sospirò: «Su, non prenda le cose così seriamente!». Quando seppe che lei intendeva portare avanti la propria carriera parallelamente a quella di Peter, esclamò stupito: «E chi si occuperà dei bambini? Chi li allatterà?». Lei provò davvero a stare zitta. Forse non proprio davvero, ma a posteriori le sembra almeno di averci provato. Alla fine si voltò verso il presidente e, con un gesto significativo verso le sue dita grasse come salami a cui sfuggiva la presa su una tartina con i gamberi e poi verso la pancia che tirava sotto i bottoni disperati della camicia, disse: «Pensavo che se ne sarebbe occupata lei. Del resto ha più seno di me».

Al successivo torneo di golf le parole “insieme al coniuge” scomparvero dagli inviti. Il mondo di hockey degli uomini diventava più grande, quello delle donne più piccolo, e niente ha mai dimostrato l’amore di Mira verso Peter più del fatto che quel giorno lei non sia andata al palazzetto a spaccare la faccia a qualcuno. Ha imparato che a Björnstad bisogna avere la pelle dura, perché aiuta sia contro il freddo sia contro le offese.

Ormai sono passati dieci anni e con il tempo Mira ha scoperto che avere un’ottima autoradio aiuta parecchio. Quindi alza il volume. Ascolta la playlist “alza-alza” di Maya e Leo, non perché le piaccia la musica ma perché la fa sentire vicina a loro. Quando i figli sono piccoli si crede che passerà quella morsa allo stomaco provocata dal senso di colpa che viene ogni mattina uscendo di casa. Ma non passa mai, peggiora. Quindi la mamma ha le playlist musicali dei figli sul telefono, elenchi di canzoni in cui ognuna è stata selezionata perché quando la passano alla radio uno dei due grida «ALZA! ALZA!». Le tiene a un volume così forte che la lamiera della portiera vibra per i bassi, perché a volte il silenzio del bosco la fa impazzire. Da queste parti il cielo cala sugli alberi nel primo pomeriggio per quasi tutto l’anno, ed è difficile abituarsi per una persona che è cresciuta in una città, dove la natura si usava più che altro come salvaschermo o come carta da parati.

A Björnstad tutti odiano la grande città, nutrono una rabbia costante perché le risorse naturali sono nel bosco ma i soldi finiscono da qualche altra parte. A volte sembra che qui le persone adorino il clima così inospitale proprio perché non tutti lo reggono, e questo ricorda loro la forza e la testardaggine che hanno. Il primo proverbio che Peter ha insegnato a Mira è stato: “Gli orsi cagano nel bosco, ma nessuno caga Björnstad, quindi la gente del bosco ha imparato a cavarsela da sola!”.

Vivendo qui si è abituata a certe cose, altre non le capirà mai. Per esempio, come mai un posto dove tutti pescano abbia zero ristoranti di sushi, o perché gente così dura da vivere in un clima che quasi neanche gli animali selvatici sopportano non riesca mai a dire le cose chiare in faccia. A Björnstad il silenzio va sempre a braccetto con la vergogna. Mira si ricorda come rispose Peter quando lei gli chiese perché qui tutti sembrano odiare così tanto la gente delle grandi città: «La gente delle grandi città si vergogna troppo poco». Lui aveva sempre paura di quello che pensavano gli altri, quando venivano invitati a cena da qualcuno si faceva mille problemi se Mira portava una bottiglia di vino troppo costoso. Per questo si rifiutò di trasferirsi in una delle ville più care dell’Altura, nonostante lo stipendio di Mira glielo consentisse. Continuarono ad abitare nella villetta al centro della città per pura educazione, e Peter non si arrese nemmeno quando Mira cercò di persuaderlo dicendogli che ci sarebbe stato “più posto per i tuoi dischi”.

Dieci anni e Mira non ha ancora imparato a convivere con Björnstad, solo a coesisterci. E il silenzio le fa ancora venire voglia di comprare un tamburo e organizzare sfilate di carnevale per le strade. Alza il volume della radio. Tamburella sul volante. Canta tutte le canzoni così selvaggiamente che quasi esce di strada quando i capelli le si incastrano nello specchietto retrovisore.

Perché ci si interessa allo sport? Lei non lo fa. Lei si occupa solo di una persona che si interessa di sport. Perché sogna un’estate, una sola, in cui suo marito possa guardare la propria città negli occhi senza abbassare lo sguardo.

Quando Sune si avvia verso l’ingresso del palazzetto, il petto si alza e si abbassa sotto le spalle pesanti. Per la prima volta nella vita sente la sua vera età, il corpo si muove floscio, come se qualcuno avesse rivestito con una tuta un sacchetto di meduse. Ma appena apre la porta un gran senso di calma lo avvolge ancora, come ogni giorno. È l’unico luogo al mondo in cui si sente a suo agio. Cerca di ricordare che cosa gli ha dato questo posto, piuttosto che soffermarsi su che cosa vogliono togliergli. Una vita al servizio dello sport è più di quanto quasi tutti possano vantare. Ha avuto la benedizione di vivere alcuni momenti magici e ha visto nascere due talenti infiniti.

Gli spacconi delle grandi città non capiranno mai cosa significhi far crescere un vero grande talento in un piccolissimo club di hockey. È come vedere un ciliegio in fiore dentro un giardino ghiacciato. Puoi aspettare anni, una vita intera, magari più vite, e sarebbe ancora un miracolo poterlo vedere una sola volta. Due, impossibile. Ovunque, tranne qui.

Il primo fu Peter Andersson. Sono passati più di quarant’anni. Sune, che era appena diventato allenatore della prima squadra, lo notò alla scuola di pattinaggio. Un pargoletto mingherlino con i guanti di seconda mano, un padre ubriacone e dei lividi a cui tutti facevano caso ma di cui nessuno chiedeva. L’hockey lo notò quando nessun altro lo notava e cambiò la sua vita con una forza dirompente. Un giorno quel pargoletto divenne un adulto e risollevò un club sull’orlo del fallimento portandolo a diventare il secondo migliore del Paese, poi approdò alla NHL, percorrendo la strada impossibile dal bosco alle stelle. Prima che per tragiche vie il destino gli portasse via tutto.

Fu Sune a chiamare lui e Mira in Canada, dopo il funerale, dicendo che il Björnstad aveva bisogno di un direttore sportivo. Che c’erano un club e una città da salvare. E Peter aveva bisogno di salvare qualcosa. Fu così che la famiglia Andersson tornò a casa.

La seconda volta fu poco più di dieci anni fa. Furono Sune e Peter a staccarsi dalle ricerche nel bosco perché Sune aveva capito che stavano cercando un giocatore di hockey, mentre tutti gli altri credevano di cercare un bambino qualsiasi. Trovarono Kevin sul lago, all’alba, con le guance congelate e l’orso negli occhi. Fu Peter a portare a casa quel bambino di sette anni. Sune camminava in silenzio accanto a lui respirando profondamente dal naso. Nel cuore dell’inverno la città profumava di nuovo di ciliegio.

Lo stesso anno, quando un taciturno ventiduenne della prima squadra si arrese nella battaglia contro ostinati infortuni e mancanza di talento, fu Sune a fermarlo nel parcheggio. Fu lui a vedere il talento di un brillante allenatore dove tutti gli altri vedevano soltanto un giocatore mancato. Il ventiduenne si chiamava David e mormorò incerto davanti a Sune: «Non sono un bravo allenatore». Sune gli diede un fischietto e disse: «Quelli che credono di essere dei bravi allenatori non lo diventano mai». La prima squadra che David allenò fu un gruppetto di bambini di sette anni, uno dei quali era Kevin. David disse loro di vincere. E vinsero. Non smisero più.

Ora Kevin ha diciassette anni, David è l’allenatore juniores e nella prossima stagione saranno entrambi in prima squadra. Insieme a Peter costituiscono la trinità del successo: le mani sul ghiaccio, il cuore in panchina, il cervello in ufficio. E ora i pupilli di Sune saranno la sua rovina. Peter lo licenzierà, David prenderà il suo posto e Kevin dimostrerà a tutti che è stata la decisione giusta.

Un vecchio ha visto il futuro. Ora il futuro lo ha superato. Apre la porta del palazzetto e lascia che tutti i rumori gli vengano incontro.

Perché si interessa allo sport? Perché la sua vita sarebbe silenziosa, senza.

Ad Amat non hanno mai chiesto perché. L’hockey fa male, impone sacrifici disumani, fisici, mentali ed emotivi. Rompe piedi, strappa legamenti e lo costringe ad alzarsi dal letto prima dell’alba. Ti porta via il tempo, divora tutte le tue energie. E allora perché? Perché una volta, da piccolo, sentì dire che “non esistono ex giocatori di hockey” e capì benissimo cosa significava. Fu alla scuola di pattinaggio, Amat aveva cinque anni e l’allenatore della prima squadra scese sul ghiaccio per fare un discorso ai bambini. Sune era vecchio e grasso già allora, ma guardò Amat dritto negli occhi e gli disse: «Alcuni di voi sono nati con un talento, altri no. Alcuni di voi hanno avuto tutto gratis, altri niente. Ma ricordatevi che appena scendete in pista siete uguali. E qui imparerete una cosa: la volontà batte sempre la classe».

Per un bambino è facile innamorarsi di qualcosa se sente dire che con la sola forza di volontà può diventare il migliore, e nessuno aveva più volontà di Amat. Per lui e sua mamma l’hockey è diventato una strada per entrare nella comunità. Lui vuole farlo diventare più di questo, vuole farlo diventare la via d’uscita.

Ogni parte del suo corpo è dolorante, ogni cellula lo supplica di sdraiarsi. Ma lui torna indietro, strizza via il sudore dagli occhi, stringe più forte il bastone e mette i pattini sul ghiaccio. Più veloce che può, più forte che può. Ancora. Ancora. Ancora.

Arriva per tutti un’età in cui non ci si può più sorprendere. Vale per le persone, ma ancora di più per l’hockey. Cervelli brillanti hanno dedicato la propria vita a questo gioco, tutte le teorie sono state sezionate in molecole racchiuse in manuali uno più spesso dell’altro. Ogni giorno chiunque può rendersi conto che non esistono più idee rivoluzionarie, che tutto è già stato pensato, detto e scritto da allenatori uno più altezzoso dell’altro. Le altre giornate capitano di rado, quei casi eccezionali in cui il ghiaccio rivela ancora cose che non si possono descrivere. Ciò che sorprende. Ciò che stravolge tutto. Non puoi prepararti a questo, se vuoi dedicarti a questo sport devi solo fidarti del fatto che quando lo vedi lo riconosci.

Il custode si dirige verso gli spalti per mettere delle viti nuove a una vecchia ringhiera. Vede Sune aprire la porta e rimane stupito, perché non arriva mai così presto.

«Ti sei alzato con le galline oggi» ride il custode.

«Il momento in cui bisogna lavorare di più è prima della sirena finale» sorride Sune stanco.

Il custode annuisce triste. Come detto, il licenziamento di Sune è il segreto meno segreto della città. L’anziano si blocca mentre sta andando verso gli spalti per salire nel suo ufficio. Il custode alza un sopracciglio, Sune indica con un cenno il ragazzo in pista. Socchiude gli occhi, la vista non è più quella di una volta.

«Chi è?»

«Amat. Uno della squadra giovanile, quindici anni.»

«Cosa ci fa qui a quest’ora?»

«Viene tutte le mattine.»

Il ragazzo ha appoggiato per terra i guanti, il berretto e il giubbotto come segni tra le linee. Pattina più veloce che può fino a raggiungerli, cambia direzione senza però perdere velocità, si ferma di colpo e riparte. Il puck non lascia mai il bastone. Avanti e indietro. Cinque volte. Dieci volte. Senza calare d’intensità. Poi il tiro. Il puck nello stesso identico punto della rete a ogni azione. Ancora. Ancora.

«Tutte le mattine? È una punizione per qualcosa?» mormora Sune.

Il custode ride.

«Semplicemente gli piace l’hockey. Ti ricordi com’era, vecchio mio?»

Sune non risponde, grugnisce qualcosa guardando l’orologio e comincia a salire sugli spalti. Giunto quasi all’ultima fila si ferma di nuovo. Cerca di proseguire, ma il cuore lo ostacola.

Ha visto Amat alla scuola di pattinaggio, come vede ogni singolo bambino che passa di lì, ma all’epoca non era così lampante. L’hockey è uno sport che ricompensa la ripetizione. Lo stesso esercizio, gli stessi movimenti, finché la reazione diventa un istinto marchiato nel midollo. Il puck non scivola soltanto, rimbalza anche, quindi l’accelerazione è più importante della velocità massima, la coordinazione occhio-mano è più importante della potenza. Il ghiaccio ti giudica dalla capacità di cambiare direzione e pensiero più velocemente di tutti gli altri, distingue i grandi dal resto.

Sono spaventosamente pochi i giorni in cui questo gioco ci sorprende ancora. Quando capita non veniamo avvisati, dobbiamo solo fidarci del fatto che ce ne accorgeremo. Appena l’eco delle lame dei pattini rimbomba sugli spalti Sune si blocca, indugia per un respiro e dà un’occhiata alle spalle. Vede il quindicenne voltarsi con il bastone morbido in mano, prendere la rincorsa e raggiungere subito una velocità fulminea, e Sune lo ricorderà come una delle vere benedizioni della sua vita: vedere succedere l’impossibile a Björnstad per la terza volta.

Il custode solleva la testa dalle viti della ringhiera e nota che il vecchio allenatore sprofonda in un seggiolino nella fila più alta degli spalti. All’inizio gli sembra che stia malissimo. Poi si accorge che dipende solo dal fatto che non ha mai visto il vecchio ridere prima d’ora.

Sune respira dal naso con le lacrime agli occhi, e tutto il palazzetto profuma di ciliegio.

Perché ci si interessa allo sport?

Perché racconta storie.