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Mira e Peter sono seduti sui gradini davanti a casa. Non si toccano. Peter ricorda nitidamente questa distanza. Ci sono stati giorni in cui credeva che il dolore li tenesse uniti, che Mira gli rimanesse accanto nonostante lui non lo meritasse perché lei non aveva nessun altro con cui condividere Isak. Subito dopo la morte del bambino, però, era successo il contrario. Il dolore li aveva separati, diventando un campo di forze invisibile tra le punte delle loro dita. Ora è tornato.

«È… colpa mia» sussurra Peter.

Mira scuote forte la testa.

«Non dire così. Non è colpa tua. Non è colpa dell’hockey. Non dare a quel bast… non dare… non trovargli delle scuse!»

«È stato il club a educarlo in questi anni, Mira. Il mio club.»

Mira non ribatte. Ha tenuto i pugni stretti così a lungo che i segni delle unghie le rimarranno per diversi giorni dopo che avrà mollato la presa. Ha vissuto tutta la sua vita professionale per la giurisprudenza e la legge, ha creduto nella giustizia e nell’umanità, si è opposta alla violenza e alle vendette di sangue. Ora tenta con una forza interiore indicibile di scacciare la sensazione che la sta invadendo, ma non la può fermare, le scorre dentro con una potenza immane, distruggendo tutto ciò in cui crede.

Vuole ucciderlo. Vuole uccidere Kevin.

Nel parcheggio Ann-Katrin e Cinghiale stanno aspettando il rientro del pullman dalla finale. Ann-Katrin ripenserà sempre ai suoni di stanotte, il silenzio della città che sembrava un compatto ronzio di voci, le case buie in cui si sapeva che erano tutti svegli, i telefoni e i computer che spedivano gli uni agli altri parole sempre più arrabbiate, sempre più terribili. La gente non parla molto a Björnstad. Eppure a volte sembra sia l’unica cosa che fa. Cinghiale la prende delicatamente per un braccio:

«Dobbiamo aspettare, Ann-Katrin. Non possiamo intrometterci se… non siamo sicuri.»

«Peter è uno dei tuoi migliori amici.»

«Non sappiamo che cos’è successo, tesoro. Nessuno sa che cos’è successo. Non possiamo intrometterci.»

Ann-Katrin annuisce. Ovviamente non possono intromettersi. Ogni storia ha due facce. Bisogna sentire la versione di Kevin. Prova a convincersene. Tutti gli dèi e i cieli e le sante madri dell’eternità sanno che ci sta provando.

Ana è in piedi, le mani davanti alla faccia, imbarazzata, Maya è seduta sul letto sconvolta, i resti del computer sparsi per la stanza. Mira entra e prende entrambe per mano.

«Ana, tu sai quanto ti voglio bene. Come se fossi mia figlia.»

Ana si asciuga il volto e le grosse gocce che cadono per terra dal naso. Mira le dà un bacio sui capelli.

«Però devi andare un po’ a casa, Ana. Abbiamo bisogno di stare… in famiglia.»

Maya vuole protestare per Ana, ma è troppo stanca. Quando la porta d’ingresso si chiude, Maya si sdraia e si riaddormenta. Dorme e dorme e dorme.

Peter accompagna a casa la migliore amica della figlia. Le case sono buie, ma sente lo stesso le occhiate dalle finestre. Quando Ana scende dalla macchina vorrebbe dirle qualcosa, essere un genitore saggio che conforta, incoraggia, educa. Ma non ha parole. Tutto ciò che esce è:

«Andrà tutto a posto, Ana.»

Ana stringe forte il giubbotto e si cala il berretto sulla fronte cercando di far vedere che ci crede, per lui. Non ci riesce. Peter vede la ragazza tremare di collera silenziosa e ripensa a una volta, molti anni fa, in cui Mira e Maya avevano litigato, la figlia aveva fatto una delle prime vere scenate adolescenziali e la madre se ne stava in cucina, distrutta, a singhiozzare: «Mi odia. Mia figlia mi odia». Peter strinse forte la moglie e le sussurrò: «Tua figlia ti ammira e ha bisogno di te. E se per caso ti viene un dubbio ti basta guardare Ana. Fra tutte le persone che tua figlia poteva scegliere come migliore amica ne ha trovata una uguale a te. Che vive con tutti i sentimenti sulla pelle». Peter vuole scendere dalla macchina e abbracciare Ana, dirle di non avere paura, ma non è una persona del genere. E lui stesso ha troppa paura per riuscire a mentire.

Quando l’auto riparte, Ana entra in casa di nascosto e sveglia i cani, li porta nel bosco, più lontano che può. Si siede con la faccia sepolta nel loro pelo e scoppia a piangere disperata.

Le respirano sul collo, le leccano l’orecchio, le sbuffano addosso dal naso. Non capirà mai come possa esistere gente che preferisce gli uomini agli animali.

La casa della famiglia Ovich non ha letti vuoti, stanotte. I figli di Gaby dormono in quello dello zio, Adri e Katia in quello della mamma, la mamma sul divano. Le figlie insistono per stare in sala ma lei s’impunta così tanto che lasciano perdere. Al mattino presto, quando Gaby torna dall’ospedale con Benji, le due sorelle e la mamma guardano le stampelle e il piede ingessato e lo riempiono di scappellotti gridandogli che sarà la loro morte e che è la loro vita e che gli vogliono bene e che è un somaro.

Lui dorme per terra accanto al letto, sotto i nipotini. Quando si sveglia, entrambi sono strisciati giù e gli si sono accoccolati vicino. Dormono nelle loro maglie da hockey. Sulla schiena il numero 16.

Mira è seduta sul bordo del letto della figlia. Quando Maya e Ana erano bambine, Peter scherzava su quanto fossero diverse, soprattutto mentre dormivano. “Se Maya dorme in un letto non bisogna nemmeno rifarlo. Se ci dorme Ana bisogna prima rimetterlo dal lato giusto della stanza.” Maya si svegliava con il linguaggio del corpo di un vitello assonnato, Ana con quello di un uomo di mezza età ubriaco e arrabbiato in cerca della sua pistola. Pensando a che cosa potesse accomunare quelle due bambine veniva in mente soltanto il senso di protezione per i propri nomi: entrambe odiavano che venissero pronunciati “Maja” e “Anna”, perché il mondo era pieno di altre Maja e Anna. Maya non si è mai arrabbiata tanto come quando si è resa conto per la prima volta che esistevano altre bambine con il suo nome, ed è significativo, se si pensa che all’epoca si trovava nell’età in cui era perfettamente normale pretendere che il colore del manico di plastica delle posate si abbinasse sempre a quello del cibo e fare scenate da pazzi al momento di andare a letto con la motivazione che “papà, i miei piedi sono grandi uguali e IO NON VOGLIO!!!”. Niente la faceva arrabbiare di più che non essere l’unica con quel nome. Sia per lei sia per Ana il nome era una proprietà personale, una caratteristica fisica allo stesso modo di polmoni e pupille, secondo la loro concezione del mondo le Maje e le Anne erano tutte ladre. A volte Mira crede che l’unico motivo per cui entrambe hanno imparato a leggere a cinque anni era che avevano saputo che i loro nomi si scrivevano in modo diverso. Volevano essere tutt’altro che banali. Sembra passata un’eternità oppure neanche un momento.

Le persone diventano grandi a una velocità inesorabile.

Peter chiude la porta senza un rumore. Appende le chiavi della Volvo al gancio nell’ingresso. Lui e Mira rimangono seduti in cucina per ore senza proferire parola. Alla fine Mira sussurra:

«Adesso non si tratta più di noi. È lei che deve superarla.»

Peter incolla lo sguardo al tavolo.

«È così… forte. Non so cosa dirle, è già… più forte di me.»

Le unghie di Mira riprendono a scavare graffi profondi nella pelle.

«Voglio ucciderlo, Peter. Voglio… voglio vederlo morire.»

«Lo so.»

Mira trema mentre lui attraversa il campo di forze e abbraccia il suo corpo, condividono respiri affannosi e singhiozzi, trattenuti con violenza per non svegliare i figli. Non smetteranno mai di sentirsi responsabili. L’avvocatessa e il direttore sportivo.

«Non puoi prendertela con te stesso, Peter. Non è stata colpa dell’hockey. Com’è che si dice… “ci vuole un villaggio per educare un bambino”?» sussurra lei.

«Forse è questo il problema. Forse era il villaggio sbagliato.»

I genitori vanno a prendere i figli al palazzetto. Tornano in macchine silenziose fino a case silenziose, dove sono accesi solo gli schermi. Prima dell’alba Lyt si presenta da Bobo, non parlano molto, condividono solo il sentimento di dover fare qualcosa. Agire. Girano la città di casa in casa per radunare altri juniores. Si muovono come uno sciame nero tra i giardini, pugni chiusi sotto il cielo scuro, sguardi selvaggi lungo strade vuote. Ora dopo ora, fino al sorgere del sole. Si sentono attaccati, percepiscono di essere sotto assedio. Vogliono gridare l’uno all’altro che cosa significa per loro questa squadra, la lealtà e l’amore, quanto bene vogliono al loro capitano. Ma non hanno le parole, quindi cercano un modo per dimostrarlo. Camminano uno di fianco all’altro come un esercito funesto. Vorrebbero davvero proteggere qualcosa. Ferire qualcuno. Uccidere. Sono a caccia di un nemico, uno qualunque.

Amat arriva a casa e va dritto a letto. Fatima rimane in silenzio nell’altra stanza. Il giorno dopo vanno al palazzetto in autobus. Anche lì nessuno dice una parola. Amat si allaccia i pattini, prende in mano il bastone, entra in pista furioso, si scaglia contro la balaustra più lontana. Non si concede di piangere finché non è così sudato che nessuno può accorgersene.

In una villa una madre e un padre sono seduti al tavolo di una cucina.

«Dico solo che… pensa se…» dice la madre.

«Credi questo di NOSTRO FIGLIO? Che razza di madre sei SE CREDI QUESTO DI NOSTRO FIGLIO?!» grida il padre.

Lei scuote la testa distrutta guardando per terra. Ha ragione lui, certo. Che madre è? Sussurra che no, non crede questo del loro figlio, ovviamente. Prova a spiegare che è solo tutto capovolto, nessuno sta pensando in maniera razionale, dobbiamo solo cercare di dormire un po’.

«Non ho intenzione di dormire finché Kevin è in commissariato, sia ben chiaro!» dichiara il padre.

Lei annuisce. Non sa se riuscirà più a dormire.

«Lo so, tesoro. Lo so.»

In un’altra villa, un’altra madre e un altro padre sono seduti al tavolo di un’altra cucina. Dieci anni fa hanno lasciato il Canada per trasferirsi a Björnstad, perché era il posto più tranquillo e sicuro che potevano immaginare. Perché avevano il disperato bisogno di un luogo in cui avere la sensazione che non potesse accadere nulla di male.

Non parlano. Non dicono una parola per tutta la notte. Però sanno entrambi che cosa pensa l’altro. “Non possiamo proteggere i nostri figli.”

Non possiamo proteggere i nostri figli non possiamo proteggere i nostri figli non possiamo proteggere i nostri figli.