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Quando Ana e Maya erano bambine, sembra un attimo fa, sognavano sempre di andare a New York. Avrebbero abitato lì, una volta diventate ricche e famose. Era Maya che voleva diventare ricca, Ana voleva essere famosa, una cosa inconcepibile per tutti quelli che avevano trascorso un po’ di tempo con loro: una, infatti, voleva soltanto suonare la chitarra e l’altra voleva intagliare spade di legno. La differenza tra le ragazze divenne chiarissima per il modo in cui Maya diceva “fuori nel bosco” e Ana diceva “dentro nel bosco”, perché per Maya la normalità era la città, per Ana il contrario. I loro sogni erano opposti: Maya sognava uno studio di registrazione silenzioso, Ana folle oceaniche. Ana voleva diventare famosa per ricevere conferme, Maya voleva essere ricca per potersene sbattere di quello che pensavano gli altri. Sono inconcepibilmente complicate, tutte e due, per questo si capiscono.

Da piccola Ana ambiva a diventare una giocatrice di hockey professionista; per una stagione giocò nella squadra femminile di Hed, ma era troppo irrequieta per fare quello che dicevano gli allenatori e finiva sempre per fare a botte. Alla fine il padre promise che se avesse smesso di costringerlo a portarla agli allenamenti le avrebbe insegnato a sparare con la carabina; lei vide che lui si vergognava che fosse così diversa e la proposta di sparare era troppo allettante da rifiutare.

Crescendo passò a voler fare la telecronista sportiva, poi cominciò le superiori e dovette imparare che alle ragazze di Björnstad poteva piacere sì lo sport, ma non in quel modo. Non così tanto. Non al punto di strigliare i ragazzi sulle regole e sulla tattica. Le adolescenti dovevano interessarsi prima di tutto ai giocatori, non all’hockey.

Quindi piegò la testa e si dedicò agli sport nazionali di Björnstad: vergogna e silenzio. Fu quello che mandò fuori di testa sua madre. Quando se ne andò, Ana fu sul punto di seguirla, ma cambiò idea e si fermò. Per Maya, per suo papà, forse perché a volte amava gli alberi ma li odiava altrettanto.

Ha sempre pensato che fosse il bosco a insegnare alla gente di Björnstad a tenere la bocca chiusa, quando si caccia e si pesca bisogna stare zitti per non spaventare gli animali, se lo s’impara fin dalla nascita questo influenzerà l’intero modo di comunicare. Quindi Ana è sempre stata tesa tra l’impulso di gridare a squarciagola e quello di non aprire bocca.

Sono sul letto di Maya, una accanto all’altra. Ana sussurra:

«Devi dirlo.»

«A chi?» respira Maya.

«A tutti.»

«Perché?»

«Perché altrimenti lo rifarà. A qualcun’altra.»

Ripetono più e più volte la stessa discussione silenziosa, tra sé e tra loro, perché Ana sa che è una condizione irragionevole da imporre a una persona: che fra tutti sia Maya a sentirsi addosso la responsabilità di qualcun altro. Che tra tutti si alzi e gridi nella città più silenziosa del mondo. Che spaventi gli animali. Ana nasconde la faccia tra i palmi perché i genitori di Maya non sentano nessuno piangere.

«Merda, è colpa mia, Maya, non avrei dovuto abbandonarti alla festa. Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto cercarti. Sono stata una stronza. È colpa mia, è colpa mi…»

Maya prende teneramente il viso dell’amica tra le mani.

«Non è colpa tua, Ana. Non è colpa nostra.»

«Devi dirlo» singhiozza Ana disperata, ma Maya scuote la testa decisa.

«Sai tenere un segreto?»

Ana annuisce e promette tirando su col naso:

«Giuro sulla mia vita.»

«Non basta. Giuralo sulla techno!»

Ana scoppia a ridere. È inconcepibile il bene che si può volere a una persona che riesce a dire una cosa del genere qui e ora.

«Giuro su tutte le forme di musica elettronica. Tranne tipo quella merda di eurodance degli anni Novanta.»

Maya sorride e le asciuga le lacrime, la guarda negli occhi e sussurra:

«Kevin mi ha fatto male. Ma se lo racconto gli permetterò di fare male a tutti quelli a cui voglio bene. Non posso sopportarlo.»

Si tengono per mano. Sedute sul letto, una accanto all’altra, contano i sonniferi, si chiedono quante pastiglie ci vorrebbero per farla finita. Da bambine era diverso. Sembra un attimo fa, perché lo era.

Benji lo vede da lontano, il puntino nero sulla lapide. È lì da un paio d’ore, Benji si scuote di dosso la neve e legge cosa c’è scritto. Una sola parola.

Quando Kevin, Bobo, Lyt, Benji e gli altri erano piccoli, prima delle partite David gli dava dei puck con dei brevi messaggi su cui voleva che riflettessero: “più back-check ” oppure “pattina di più” oppure “abbi pazienza”. A volte scriveva qualcosa solo per farli ridere. Poteva consegnare un puck al giocatore più nervoso sul pullman, mantenendo un’aria seriosa, finché il giocatore abbassava lo sguardo e leggeva: “patta aperta – spunta il pisello”. Aveva un umorismo che solo i giocatori potevano apprezzare, e che li faceva sentire speciali. Le battute sono incredibili in questo senso, possono sia includere che escludere. Creare sia un noi che un loro.

Più di tutto David sapeva dare ai giocatori la sensazione di vederli uno per uno. Invitò tutta la squadra a cena e presentò loro la sua fidanzata, ma quando il club organizzò una partita “padri contro figli” per tutti i ragazzi delle giovanili David fu l’unico allenatore a non partecipare. Andò a prendere Kevin e Benji, uno nel giardino di casa e l’altro al cimitero, li portò a giocare giù al lago e li riaccompagnò a casa.

Si batteva per loro, letteralmente. A nove o dieci anni Benji aveva già uno stile di gioco che faceva infuriare i genitori avversari. In una trasferta contro i pulcini di Hed, dopo uno scontro con Benji un giocatore gridò che avrebbe chiamato suo padre. Benji non ci fece granché caso, ma dopo la partita nel corridoio buio degli spogliatoi comparve un signore che lo sollevò da terra, afferrandolo per i capelli e la collottola, e lo sbatté violentemente contro una parete gridando: «Allora, piccolo zingaro bastardo, non fai più il duro adesso?». Benji non si spaventò, ma era freddamente convinto che in quel momento sarebbe stato massacrato. C’erano parecchi altri adulti che guardarono senza intervenire, Benji non seppe mai se perché avevano paura o perché pensavano che se lo meritasse. Ricorda solo il pugno di David che spedì quel padre a terra all’istante.

«Se vedo di nuovo un adulto toccare un bambino in questo palazzetto lo ammazzo» disse David, non al padre ma a tutti quelli che se ne stavano lì muti.

Poi si chinò verso Benji e gli sussurrò all’orecchio:

«Sai come si salva uno di Hed che sta annegando?»

Benji fece segno di no con la testa. David sorrise.

«Bravo.»

Nello spogliatoio David scrisse una sola parola su un puck e lo infilò nella borsa di Benji. “Fiero.” Benji lo conserva ancora. Quella sera, sul pullman di ritorno a casa, tutti scherzavano. Le risate si fecero sempre più forti, i colpi sempre più bassi. Benji si ricorda solo una battuta, detta da Bengt:

«Ragazzi, sapete come si fa a far sedere quattro gay su una sedia? Basta ribaltarla!»

Risero tutti. Benji si ricorda che guardò di nascosto David e vide che anche lui rideva. È incredibilmente facile tanto includere quanto escludere, creare un noi come un loro. Benji non ha mai avuto paura di essere picchiato o odiato se qualcuno dovesse venire a sapere la verità su di lui, è stato odiato da ogni squadra avversaria fin da bambino. L’unica cosa che lo spaventa è che un giorno ci saranno battute che compagni e allenatori non vorranno fare in sua presenza. L’isolamento della risata.

Soppesa il puck in una mano accanto alla tomba del padre. David ha scritto una sola parola.

“Vinci.”

Il giorno dopo Benji non va a scuola, però si presenta agli allenamenti. Ha la maglia più sudata di tutti. Perché quando non sa più quali cose hanno importanza al mondo, quella singola cosa è l’unica che nessuno può portargli via. Essere un vincitore. David gli dà due pacche sul casco senza bisogno di dire niente.

Nello spogliatoio Lyt è seduto al posto di Benji, accanto a Kevin. Benji non usa le parole, si mette davanti a Lyt finché quello non raccatta le sue cose e si ritira abbattuto sulla panca di fronte. Il volto di Kevin è impassibile, ma gli occhi lasciano intravedere i sentimenti. Non hanno mai potuto mentirsi.

David non ha mai visto i suoi due migliori giocatori fare un allenamento più bello.

Arriva il sabato. Il giorno della finale juniores. Ovunque uomini e donne si svegliano e si mettono maglie e sciarpe verdi, nel parcheggio del palazzetto c’è un pullman con striscioni che trasudano orgoglio, pronto a trasportare una squadra fino alla capitale, con un sedile lasciato libero per il trofeo che tornerà con loro.

La mattina presto tre bambine delle elementari giocano in una via nel centro della città. Si rincorrono, combattono usando dei rami come spade, si tirano le ultime palle di neve di questo lungo inverno. Maya le guarda dalla finestra della sua camera. Qualche anno fa lei e Ana sono state le baby-sitter di quelle bambine, a volte Ana va ancora a fare la guerra di palle di neve con loro quando Maya la annoia a morte con la sua chitarra, e le fa sbellicare dalle risate. Maya stringe forte le braccia intorno al corpo. È stata sveglia tutta la notte e a ogni minuto che passava era sicura che non avrebbe mai raccontato ciò che è successo. Ci vogliono tre bambine che giocano fuori dalla sua finestra per farle cambiare idea.

Ana dorme stremata nel letto di Maya, infinitamente piccola e vulnerabile, con gli occhi chiusi sotto il piumone. La storia di questa città e di questa giornata sarà terribile da raccontare: alla fine Maya si è decisa a dire la verità su Kevin, non perché volesse proteggere se stessa, ma perché voleva proteggere altre persone. E già mentre era alla finestra quel mattino sapeva che cosa le avrebbe fatto la città.