XLVII.

Galgenberg, 30 settembre

Caro Mr Anstruther,

siete stato molto gentile a scrivermi parole di consolazione e ad avere avuto la pazienza di spiegarmi gli errori insiti nel mio modo di pensare. Ho bruciato il libro nella stufa della cucina, e liberare la casa dalla sua presenza mi ha dato grande soddisfazione. Avete ragione. Ciò che un poeta fa con il suo corpo non è affar mio; io devo preoccuparmi unicamente della sua anima, e le due cose devono rimanere nettamente separate.

Sono lieta che conveniate con me nell’affermare che i poeti dovrebbero rimanere anonimi, ma voi sembrate nutrire ancora meno speranze di me riguardo a tale eventualità. Io prego affinché accada, mentre voi sembrate non intraprendere alcuna azione propiziatoria. Dite che l’esperienza insegna a non aspettarsi troppo dagli dèi; che gli eventuali tormenti dei posteri li lasciano spesso indifferenti; che sono ciechi ai meriti della modestia e che non vedono in questa virtù alcun onore o profitto; voi temete che essi non cambieranno, e mi esortate a star bene attenta affinché questa loro debolezza non sia per me occasione di rovinose inciampate. Si tratta di un consiglio molto assennato. Prima che la vostra lettera mi arrivasse, tuttavia, alcune fresche mattine d’autunno avevano già provveduto a sgombrare buona parte del mio sconforto iniziale. Se gli dèi non intendono nascondersi, dopo tutto posso sempre essere io a chiudere gli occhi. E se non riesco a gioire del divino che c’è in loro con indisturbata attenzione, cercherò perlomeno di ricavarne tutto il calore possibile. Oppure posso imitare le mie api delicate e diligenti, e assorbirmi totalmente nella produzione di miele. Ora mi fate vergognare della mia follia, se pensate che non leggerò mai più Burns adesso che sono venuta a conoscenza dei suoi peccati. Ma segretamente lo pensavo. Ne ero convinta. Vederlo cadere dall’altare e finire nel fango mi ha disgustato. La vostra lettera mi dimostra ancora una volta che mi sono comportata da sciocca. Diciamo pure che ho rasentato l’idiozia. Io stessa ho riso di quelle persone di Jena, persone rigorosamente pie, che si rifiutano di leggere Goethe, che nutrono nei suoi confronti sentimenti di vendetta personale per via delle sue relazioni amorose, e sono stata testimone stupefatta della veemente opposizione alla proposta di alcuni individui illuminati di tributare una statua a Heine, e del tono carico di odio con cui un uomo arrivava a esclamare Schmutzfink ogni volta che ne sentiva pronunciare il nome. Riguardo ai nostri poeti sono stata ragionevole fin dall’inizio. I vostri, però, erano per me molto più sacri; sacri, suppongo, perché più misteriosi, più distanti – angeli celestiali attraverso cui Dio inviava i suoi messaggi. Io, che temo di avere la tendenza a ridere e criticare, ero così felice che qualcosa almeno non mi solleticasse il riso, un tratto di bellezza in cui camminare contegnosa, con gli occhi bassi, e ho temuto di non poter mai più avere l’occasione di essere seria. È stata una crisi passeggera, una reazione profonda. Se a me piace separare in modo netto il corpo dall’anima, perché non dovrei fare lo stesso con quelli degli altri peccatori? Mi è sempre apparso piuttosto curioso il modo in cui ammettiamo, la buona volontà con cui ribadiamo, di essere tutti miseri peccatori. Lo facciamo con immensa compiacenza. Quando qualcuno afferma che siamo tutti peccatori, ci dichiariamo vigorosamente d’accordo e ci produciamo in opportuni e desolati sospiri, ma alle prese con un unico, sventurato peccatore ricorriamo a tutta la nostra sollecitudine. Con lui, in effetti, dimostriamo una sollecitudine davvero infinita. Lo so, l’ho sempre saputo e non voglio, a un’età in cui mi prefiggo di migliorare un po’ ogni anno, dimenticarmene e diventare offensivamente intollerante come l’uomo che freme al pensiero di Heine, che si rifiuta di leggere i suoi versi e lo chiama Schmutzfink. I libri di quello scrittore di cui mi avete parlato, i libri che i virtuosi d’Inghilterra si rifiutano di leggere perché la sua vita privata era dissoluta, bei libri, voi dite, in cui compare il meglio di lui, dove il suo spirito appare in tutto il suo fulgore e in tutta la sua purezza, me li procurerò e li leggerò tutti. Nessun peccatore, maledetto da un corpo difforme allo spirito e ciò malgrado capace di ascoltare musica celestiale e a darle squisita espressione, verrà mai più da me identificato con ciò che egli ha tenuto candido a prezzo di grandi sforzi. Conosco almeno tre scrittori tedeschi a cui è accaduta la stessa cosa, uomini che vivono indegnamente e scrivono nobilmente. Il mio cuore è proteso verso di loro. Li vedo, zoppi e barcollanti, condurre per mano la propria musa con ansiosa attenzione, così che i suoi piedi lucenti, quando si posano tra l’erba e le margherite lungo il ciglio della strada, non si offuschino per la sporcizia in cui egli stesso sguazza. I poeti si macchiano di impurità, ma tengono la dea pulita con infinita cura. Lei è il loro dono al mondo, il dono del meglio di sé, del loro angelo, della loro quota di divinità. E i rispettabili, preoccupati per la loro rispettabilità, voltano le spalle inorriditi e con passo risoluto vanno a leggere i libri brutti scritti da altri rispettabili. Insomma, nessun prete presso l’altare, per quanto indegno, può impedire al devoto di portar via con sé tutto il carico di benedizione che gli riesce di trasportare. Una rosa non è meno bella perché le sue radici affondano nel letame. E Dio stesso lo si è trovato in una mangiatoia, una volta. Grazie e a presto.

Rose-Marie Schmidt

Una donna indipendente
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