XLII.

Galgenberg, 31 agosto

Caro Mr Anstruther,

sì, certo che lo fa. Suona tutte le sere. E tutte le sere vado ad ascoltarlo, nel frutteto sotto la finestra aperta oppure, più cerimoniosamente, nel suo salotto con o senza papà. Mi piace molto. Vivo immersa nella musica. Spero non vi aspetterete che concordi con la vostra critica secondo cui la musica è capace di suscitare solo emozioni, tutto sommato, di second’ordine. Quali sono le emozioni di second’ordine? Quelle che provate voi? Ed era per provarle ancora che vi sobbarcavate tutta quella strada per andare così spesso a Monaco e da Mottl? Certo che mi sento rimescolata. Lo ammetto, non nel modo in cui mi sento rimescolata da una poesia di Milton, né commossa nel modo in cui mi commuove la smisurata grandiosità della sua ode sul Tempo, ma anche se meno nobilmente pur tuttavia molto efficacemente. Ecco: a quanto pare incomincio a trovare un punto di accordo con voi. In effetti, se mi soffermo a pensarci, mi par di capire che l’emozione suscitata risulta meno nobile. Capisco che nell’ascoltare la musica provo soprattutto Wehmuth, un sentimento di cui non ho una grande opinione. Non esiste un equivalente nella vostra lingua. Forse in Inghilterra non esiste quella precisa forma di sentimento. È una sorta di desolazione, composta per lo più da ingredienti vaghi: un vago struggimento, un vago rimpianto, una vaga insoddisfazione. Quando vi colpisce, vi vengono in mente tutte le persone che non ci sono, e vi rattristate; tutte le persone che sono morte, e sospirate; tutte le volte che siete stato cattivo, e gemete. Capisco che un sentimento che induca tutto questo non è tra i più elevati. È infruttuoso, sterile. Non ti spedisce gioioso a provvedere ai tuoi compiti, ma ti spinge a indugiare tra la polvere delle chiese, in quei luoghi desolati del passato in cui una mente sana non dovrebbe mai addentrarsi. E se adesso sembro convenire con quanto dite, non è così. Voi ponete la questione in termini estremi. È orribile pensare che le mie emozioni possano essere di second’ordine. Da tempo ormai sono consapevole che i miei modi lo siano, ma mi è sempre piaciuto pensare che non vi sia nulla di second’ordine riguardo alla mia anima. Beh, cosa bisogna fare? Non essere mai deboli? Mai tristi? Mai dispiaciuti? Non scendere mai sotto al livello di On Time di Milton, o di At a Solemn Musick, restare per sempre aggrappati alla più acuta nota di magnificenza e nobiltà? È ciò che mi prefiggo di fare. È ciò che più ambirei a fare. Ma poi arriva il nostro amico con la cravatta rossa e, quando la giornata si fa fresca e il mondo fioco e profumato, estrae del suo violino una piccola fuga di Bach, una piccola fuga briosa, furtiva e giocherellona a dispetto della sua chiave minore, una manciata di fili lucenti tra loro annodati, intessuti sopra e sotto, come se fossero intenti a giocare a nascondino, come se fingessero di aggrovigliarsi pur riuscendo sempre a sciogliersi dai loro nodi, ognuno libero e stabile sulla propria luminosa traiettoria fino all’incontro finale, all’abbraccio conclusivo, quando il gioco è finito ed essi si riallacciano lieti per comporre un agile accordo maggiore. È questo che suona il nostro amico, qualcosa di manifestamente lieto, e la mia anima ascolta, sorride, sospira, brama e finisce sopraffatta dalla Wehmuth. Scelgo di proposito quale esempio la piccola fuga di Bach perché di tutta la musica specificamente destinata all’intelletto è quella che prende le maggiori distanze dalla Wehmuth; e se già questa ha un certo effetto su di me, non vi metterò a disagio descrivendo ciò che riesce a fare la musica ancor più mediocre, la musica della passione, delle esaltazioni e delle disperazioni furiose. Ma il mio vago desiderio per non so bene cosa, pacato, e piuttosto rassegnato quando l’accompagnamento è di Bach, quando ascolto quell’altra si gonfia all’improvviso in una terrificante bramosia che mi lacera e strazia l’anima.

Quali cose personali vi sto raccontando. Non lo farei se vi stessi parlando. La vostra presenza mi inibirebbe. Scrivere, invece, è così strano e diverso, al contempo tanto più e tanto meno intimo. Il corpo è al sicuro... lontano, inattaccabile, e lo spirito ne fuoriesce per andare a incontro a uno spirito affine con la franchezza che non potrebbe mai ostentare se ci andasse anche il corpo, quell’opprimente avversatore della comunione dei santi, quell’invadente traditore che riesce a rovinare la più serena relazione con un semplice rossore.

Johanna è appena entrata. Era tutta sorrisi, e voleva salutarmi, dato che tornerà domani. È la sua sera libera, e ha un aspetto davvero strepitoso per chi sia abituato a osservarla nella sua veste di cuoca. La pelle, ripulita dalla patina dei giorni lavorativi, era sorprendentemente chiara; i capelli, ondulati come io non li avrò mai, erano raccolti sulla sommità della testa in un’imponente acconciatura; il vestito bianco era inamidato e ornato con nastri rosa; indossava guanti di cotone e teneva in mano con affettazione, prendendolo per il centro esatto, il fazzoletto che le impresto in queste occasioni. A domeniche alterne, al tramonto, scende dalla collina con la chiave in tasca e balla per tutta la notte in un qualche conviviale Gasthof della città, risalendo poi all’alba o più tardi, secondo il grado di divertimento conseguito. Il lunedì faccio quasi tutto da sola, perché lei dorme per metà giornata e per l’altra non gradisce che le si parli. È una bravissima domestica, e se ne andrebbe di certo se pretendessimo di farla tornare prima di mezzanotte. Ogni due domeniche permettiamo che riceva il suo giovanotto dal pomeriggio fino a sera. È un trombettiere del reggimento di stanza a Jena, e porta con sé la tromba per riempire i momenti di silenzio. I due fidanzati non si dimostrano capaci di lunghe conversazioni, perciò la tromba è un grande aiuto. Ogniqualvolta la conversazione langue, lui la imbraccia e ne estrae un frastuono assordante, dando a Johanna il tempo di pensare all’argomento successivo. Ho dovuto chiedergli di suonarla in giardino, perché la prima volta ha fatto quasi volar via il tetto, che non sembra fissato troppo saldamente. Ora i due siedono accanto su una panca appena fuori dalla porta, e temo che il genio che abita più in basso, quello con le orecchie selettive, sia in preda a lancinanti sofferenze. Io e papà ci allontaniamo il più possibile, addentrandoci tra i monti.

È orribile quando litigano. Dopo, come tutte le ragazze, Johanna mette il muso e i musi sono cose silenziose, perciò la tromba deve colmare il vuoto e non smettere mai di squillare. Domenica scorsa ha squillato per tutto il tempo che siamo stati assenti e così, nel tornare a casa, mi aspettavo di trovare il fidanzamento rotto. Siamo stati fuori il più a lungo possibile, salendo sempre più in alto, spingendoci sempre più lontani e consumando di malavoglia una cena a base di insalata di cetriolo e aringa fredda nel ristorantino in cima allo Schweizerhöe perché la tromba non accennava a tacere e non noi ce la sentivamo di rincasare fino quando non si fosse ristabilito il silenzio. Quello strepito ci ha inseguiti persino nei recessi della tetra sala in legno dove abbiamo cercato rifugio per le nostre orecchie. Sembrava un litigio di quelli seri. Il pasto è stato deprimente. Entrambi stimiamo Johanna con la stima codarda che si prova per una persona che può dare il preavviso da un momento all’altro e che svolge tutti i compiti più ingrati, compiti che dovrei altrimenti svolgere io. I suoi stati d’animo condizionano pesantemente la nostra pace familiare. Vedete, la casa è piccola, e se il suo trombettiere è stato insoddisfacente, lei sbatacchia le pentole per la cucina o picchia forte la scopa contro tutti gli elementi in legno, come porte e salvamuri, facendo un baccano insopportabile e decretando la fine del lavoro di papà e dei miei non meno seri tentavi di svago. Se, avendo lei i nervi già scossi, dovessi suggerirle con ampi sorrisi di essere più silenziosa, darebbe subito il preavviso – so che lo farebbe – e avrebbe così inizio l’orribile ricerca di quel tesoro introvabile che voi in Inghilterra definite un modello esemplare e che noi a Jena definiamo una perla. Dove potrei trovare un’altra perla così pulita, onesta, forte, capace di cucinare e disposta a vivere in un luogo altrettanto recluso e inaccessibile di una valva d’ostrica, e a condurre un’esistenza così solitaria per otto sterline all’anno? È facile per voi persone auguste, che non vedete mai i vostri domestici, avendone così tanti che per una questione meramente numerica finiscono per passare inosservati, ridere di noi che ne abbiamo uno solo, finendo per essere alla loro mercé. So che riderete di noi. Già mi figuro la vostra lettera: «Cara Fräulein Schmidt, non pensate che il vostro atteggiamento nei confronti della domestica Johanna sia riprovevole?» Non è riprovevole perché è naturale. Confesso provocatoriamente che è anche servile. Beh, è naturale diventare servili, in determinate circostanze. Lo fareste anche voi. Presumo che se il vostro cameriere personale è efficiente, e il vostro benessere dipende in larga misura da lui, anche voi sareste propenso a esserlo. E a Jena ci sono pochissime ragazze disposte ad allontanarsi per otto sterline all’anno e ad abitare in una casa arroccata sul fianco di un precipizio. Se commisurato agli svantaggi, lo stipendio è davvero basso. E gli stipendi stanno salendo. Giù a Jena una brava domestica può prendere fino a dieci sterline all’anno senza troppa fatica. Ecco cosa ci tocca per non poter gratificare Johanna con un più alto salario. Verso le nove la tromba si è ammutolita all’improvviso. Io e papà, dopo avere aspettato alcuni minuti, ci siamo avviati verso casa, congetturando lungo il percorso in quali condizioni avremmo trovato Johanna. Quel silenzio significava rottura o riappacificazione? Io propendevo più per la rottura, perché come può una ragazza, ho chiesto a papà, mormorare dolci parole di riconciliazione a un fidanzato impegnato a soffiare dentro a una tromba? Papà mi ha risposto che non lo sapeva e così, attanagliati dalla paura, siamo rincasati in silenzio.

Dentro non si vedeva nessuno. La casa era buia e vuota. Tutto taceva, tranne i grilli. Il trombettiere se n’era andato, ma a quanto pareva anche Johanna. Si era dimenticata di chiudere a chiave la porta, così – come avrebbe potuto fare chiunque altro si fosse trovato a passare di lì – siamo entrati. Del resto nessuno, e per nessuno intendo dire nessuno animato da intenzioni criminali, in breve i ladri, entrerebbe mai in una casa appollaiata così in alto come la nostra. Una volta raggiunto il cancello del giardino non resterebbe loro nemmeno un filo di fiato, e noi sentiremmo il loro respiro ansimante in tempo utile per chiudere la porta; in tutta probabilità papà, sempre compassionevole e garbato, la riaprirebbe subito per precipitarsi fuori a offrir loro sedie e limonata. Non è stato, pertanto, con presentimenti di quel tipo che siamo entrati nella casa deserta e abbiamo cercato i fiammiferi; però mi sono stupita al pensiero che Johanna, che avrebbe potuto sedersi comodamente in piano sul sedile presso la porta, fosse invece andata a passeggiare in giardino. Passeggiarvi è impossibile. Sono poche le attività che è possibile svolgere nel mio giardino, e di certo passeggiare non è tra queste. Non è luogo per innamorati, filosofi, o persone che dispongono di tempo libero da trascorrervi. È un luogo faticoso, dove per forza di cose bisogna essere energici, badare a dove si mettono i piedi, cercare di mantenersi in equilibrio, stare continuamente all’erta. Ho acceso una lanterna, e sono uscita per cercare Johanna. Mi sono fermata sui gradini della porta sul retro e ho guardato a destra e a sinistra. Di Johanna nessuna traccia. Nemmeno un rumore. Solo i grilli, e il debole sfrecciare di un pipistrello. Ho disceso i gradini – sei lastre di pietra irregolari fissate nell’argilla una sotto l’altra, che conducono alla pompa dove con l’ausilio di secchi ci approvvigioniamo d’acqua – e di nuovo ho sentito solo i grilli. Sono andata all’aiuola di resede che ho preparato – resede e nasturzi – le resede per il profumo, i nasturzi per la bellezza, spero vi piacciano i nasturzi, ma anche lì solo i grilli. La notte era oscura, carezzevole e sconfinata. Il vicino frinire dei grilli rendeva il silenzio ancora più intenso. Un gatto procedeva quatto quatto su zampe di velluto, silenzioso come la notte, una chiazza grigia ed evanescente, terribile e determinata, totalmente concentrata sulla sua preda. Ho proseguito sull’erba, le scarpe bagnate di rugiada, la lanterna dalla luce guizzante che illuminava le mie proprietà: i tre meli, il cespuglio di ribes, il pallido ciuffo di stellaria, figlio di qualche seme disperso dal vento tempo addietro. Vicino alla stellaria mi sono fermata di nuovo ad ascoltare. Ancora solo i grilli; e subito dopo, in lontananza, il fischio dell’espresso Monaco-Berlino che superava la stazioncina nella valle Paradies. Tutto era silenzioso. Una volta mi è sembrato che i battiti del mio cuore fossero i passi di qualcuno che si attardasse in strada. Ho proseguito ancora, fino in fondo, nel punto in cui la mia bella, instancabile rosa perenne apre le sue corolle mese dopo mese contro la staccionata che ci separa dal regno del nostro vicino, e ancora mi sono messa in ascolto. All’inizio solo grilli, e l’ansioso ciangottio di un uccello al cui nido la grigia chiazza furtiva e ferale si stava avvicinando. Ha iniziato a piovere: gocce calde e morbide provenienti dalle nuvole immote che incombevano basse. Mi sono dimenticata di Johanna, e mi sono lasciata totalmente catturare dallo spirito meditativo della notte, dalla sensazione d’immutabilità, di comunione con l’oscurità, il silenzio, la fragranza. Avevo i piedi bagnati di rugiada, e i capelli della pioggia calda e leggera. Ho sollevato il viso e ho lasciato che le gocce vi cadessero attraverso le foglie dei meli, calde e gentili come una carezza. Poi lo squillo improvviso della tromba mi ha fatto trasalire. Tremavo così tanto che la lanterna mi è caduta di mano e si è spenta. È stato lo strepito più assordante che io abbia mai sentito, e ha squarciato il silenzio come un coltello affilato. Le colline, sbigottite, incapaci a riprendersi, hanno continuato a echeggiare e riecheggiare, gettando quel suono avanti e indietro in un moto di infinita sorpresa; e proprio quando stavano per tornare tranquille, una nuova strombettata le ha fatte ripiombare nella frenesia. Dopo sono giunti altri squilli in rapida successione. L’uomo si fermava solo per prendere fiato. Erano i più intensi ed esuberanti mai suonati. E provenivano dalla casa del vicino, proprio dall’abitazione di colui che ha orecchie tanto delicate, di colui per cui Wagner non è sufficientemente bravo. Bene, sapete cosa era successo? Sono corsa giù per indagare, per vedere di trovare Johanna e spiegare la presenza del trombettiere, e ho trovato il povero genio col viso pallido e imperlato di sudore, la cravatta scompigliata al di sopra del colletto, con il nodo sotto l’orecchio sinistro. Quando, ansante, sono arrivata sulla soglia, l’ho incrociato mentre correva fuori nella notte.

«Si può sapere che cosa sta...» ho esordito; ma uno squillo assordante ha sovrastato ogni altro suono.

Lui ha alzato le braccia al cielo, e l’oscurità l’ha avvolto.

«Piove» ho gridato in direzione della figura senza cappello.

Mi è parso abbia mormorato qualcosa tipo «Tutta colpa della Pilsner», ma il rumore proveniente dalla cucina era troppo violento perché fossi certa delle sue parole.

Trovai suo padre in corridoio, camminava avanti e indietro, le mani in tasca, la testa affondata tra le spalle come se volesse sottrarsi a delle percosse. Mi ha raccontato l’accaduto. Incapace di sopportare oltre il frastuono della tromba proveniente da casa nostra malgrado fosse attutito, moderato, soffocato dalla distanza e dai muri, il suo sventurato figliolo aveva chiesto alla madre di salire da noi e di invitare il suonatore nella loro cucina, dove lo si sarebbe indotto a mangiare e bere, poiché, come il figlio supponeva, gongolando della sua sagacia, un uomo impegnato a mangiare e bere non può suonare la tromba.

«Sperava così» mi spiegava il padre approfittando delle pause in cui il trombettiere prendeva fiato, «di avere un po’ di pace».

«Però non l’ha avuta» ho arguito.

«Per un certo periodo c’è stato un silenzio estremo, meraviglioso. Mamma...» è così che chiama sempre sua moglie, «ha sacrificato la sua migliore salsiccia, pur di evitare tale tortura a nostro figlio. E spalmato sul pane almeno tre centimetri di burro. Il trombettiere e la sua Schatz erano tranquillamente seduti in cucina a mangiare. Noi eravamo tranquillamente seduti in veranda a discutere argomenti importanti. Poi, quella buona birra che mio figlio così spesso elogia, quell’eccellente Pilsner conservata in botte e depositata in cantina, lucente come ambra, chiara come ghiaccio, fresca come... fresca come...»

«Un cetriolo» mi sono offerta.

«Giusto. Giustissimo. Come un cetriolo... come un’insalata di cetrioli».

«No, no... nell’insalata di cetrioli c’è il pepe. Meglio solo il cetriolo» l’ho interrotto, sempre molto volonterosa in fatto d’immagini.

«Fresca, allora, come un cetriolo... beh, questa bevanda solitamente ammirevole, invece che spedirlo gradualmente e piacevolmente nel mondo dei sogni come ci saremmo aspettati, invece che renderlo gradualmente e piacevolmente più sonnolento a ogni bicchiere, sì da indurlo a pensare con sempre maggiore brama al suo letto e ad alzarsi per fare ritorno ai quartieri militari, ebbene questa bevanda l’ha svegliato del tutto. E, mia cara Fräulein, avete sentito voi stessa, e ancora sentite, quanto l’abbia svegliato».

«Ma allora è...?» ho domandato nervosamente.

Il vicino ha annuito. «Già» ha confermato. «Ne ha bevuti quattordici bicchieri».

E difatti lo era; e si capiva da quel clamore informe, dissonante, esuberante, che lo era a un punto estremo.

«Temo che mio figlio ci lascerà prima della fine delle vacanze per cercare un posto più tranquillo» ha confidato il vicino con aria afflitta.

Forse, riguardo al valore della nostra Johanna, più di tutto vi convincerà sapere che, spronata a far promesse affrettate dal tutto quel baccano e dal viso abbattuto del vicino, ho dichiarato che avrei licenziato la ragazza se si fosse rifiutata di rompere il fidanzamento, al che lui mi ha guardato allibito per un attimo e poi, con aria rassegnata, ha scosso il capo e ha detto con la cupa convinzione di chi fa andare avanti una casa da trent’anni, «Das geht doch nicht».

Cordiali saluti,
Rose-Marie Schmidt

Una donna indipendente
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