V.

Jena, 13 novembre

Nessuna tua lettera oggi. Temo tu sia preoccupato, e per causa mia. Io me ne sto qua, tranquilla e felice, senza nessuno che mi disturbi e con l’immagine di te nel cuore che scalda ogni istante della mia giornata mentre tu, lontano, sei costretto a meditare e a trovare soluzioni, a pianificare il futuro, a decidere quali azioni intraprendere, oltre a dover superare esami ed eludere un genitore che credo si possa definire quantomeno refrattario. Come mi sento fortunata per avere il mio caro papà! Se avessi avuto l’opportunità di scegliere, avrei scelto senz’altro lui. Non è mai stato causa di problemi. Non è mai noioso. Non mi dà mai motivo per criticarlo. Sa che non ho una mente di prim’ordine e mi perdona. Io so che non è particolarmente dotato di senso pratico e lo perdono. Trascorriamo il nostro tempo viziandoci, coccolandoci e amandoci reciprocamente... ricordi come a volte ridevi per questo motivo?

Vorrei però che tu non ti preoccupassi. È tutta colpa della mia inadeguatezza a diventare tua moglie. Se potessi venire da te recando uno scrigno colmo di monete in ciascuna mano, trasformata da un benevolo regnante nella Baronessa von Schmidt, con papà al seguito piegato sotto il peso di decorazioni e onorificenze e la strada dietro di me gremita di carri carichi di dote, tuo padre si mostrerebbe indulgente e ci concederebbe la sua benedizione. Invece credo tu stia già ricevendo la prima dose di punizione, stia già iniziando a espiare quella breve ora di felicità; espiazione che, temo, ricadrà sulle nostre spalle per sempre, fino a che vivremo. Tu che sei sempre immerso in pensieri, non hai mai riflettuto nel modo quasi indecente in cui il castigo si affretta a intralciare il cammino della felicità? Davvero sembra che quei due ruzzolino uno addosso all’altro nella loro smania di arrivare per primi. Tu mi hai stretta al cuore, mi hai detto di amarmi e mi hai chiesta in moglie. Cos’è accaduto di tanto riprovevole? Cos’è accaduto di così biasimevole nei fugaci istanti in cui ci siamo lasciati andare alla felicità per meritare una penitenza tanto immediata? Mio padre non mi permetterà di credere a nulla. Lui dice – ma solo se la mia matrigna non lo sta ascoltando – che credere alle proprie convinzioni non equivale ad avere fede, e che di certo non si può credere se non si conosce. Tuttavia non riuscirà a distogliermi dalla muta convinzione che il Potere nella cui morsa siamo prigionieri sia un inflessibile cerbero, un implacabile predatore di gioia. E che gioia modesta e dimessa è, dopotutto. Patetici tentativi da parte di anime condannate alla solitudine eterna di sondare il terreno lungo il cammino buio, di avvicinarsi, di stabilire un contatto, di donarsi calore. Ma ora sto diventando lugubre, proprio io, che pensavo non lo sarei stata mai più. E alle dieci del mattino di una bella giornata di novembre, per giunta.

Oggi papà ritorna da Weimar. Le eminenze locali hanno dibattuto a lungo sullo sfregio perpetrato da un vandalo alla statua di Shakespeare nel parco. E sebbene papà non sia un’autorità, ha fatto sentire tutto il suo peso e mostrato tutta la sua indignazione, tenendo discorsi veementi e suggerendo punizioni esemplari per il colpevole quando mai sarà acciuffato. Credo che lo raggiungerò col treno delle due e lo riporterò a casa, così avrò l’occasione per fermarmi un attimo a guardare la spugna di Goethe. Di certo ricordi come quel piccolo oggetto scuro se ne stia lì, nella sua camera, accanto a un catino poco più grande di una scodella. Con quella spugna lui si lavava ed era soddisfatto. E ogni volta che sono depressa o senza più fiducia in me o nella vita, vado a darle un’occhiata e, una volta tornata a casa, non manco mai di sentirmi rincuorata e fortificata. Mi chiedo se tu riesca a comprenderne la ragione. Che Dio ti protegga, mio caro.

R.-M.

Una donna indipendente
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