XLIII.

Galgenberg, 9 settembre

Caro Mr Anstruther,

ma è vero. I nostri domestici percepiscono in media una somma che va dai cento ai duecentocinquanta marchi all’anno; credo sia una cifra notevole, e non riesco a capire perché il fatto che spendete una cifra analoga ogni mese solo per comprarvi guanti e cravatte (lo dite voi, perciò deve essere vero) debba spingervi a odiarvi. Non odiatevi. L’odio verso voi stesso non servirebbe ad aumentare lo stipendio dei nostri domestici. Beh, come pensate potremmo procurarci tutto il necessario con le nostre cento sterline l’anno – traduco i nostri marchi in sterline per vostra comodità – se dovessimo darne a un domestico più di otto e pagare un affitto che supera le quindici? Io e papà non amiamo lesinare in fatto di libri, e probabilmente finiremo per spendere fino all’ultimo penny del nostro reddito; conosco tuttavia un mucchio di famiglie con bambini che vivono decorosamente, che di tanto in tanto fanno inviti per il caffè e che con quella somma riescono anche a preparare un corredo per le figlie. E per quanto riguarda i domestici stessi, non vi ho forse descritto l’aspetto splendido di Johanna la domenica, il vestito e i guanti bianchi, i nastri rosa in vita? Il suo stipendio le permette di acquistare tutte queste cose e di avanzare quanto basta da depositare in banca. Lei ne è soddisfatta. Solo che non so se rimarrebbe tale qualora voi veniste qui a deprecare il suo stipendio e a dirle quando poco duri nelle vostre mani la stessa identica somma. Vedete, probabilmente non afferrerebbe il vero significato delle vostre affermazioni, che non è, credo, che lei è pagata troppo poco, ma che voi spendete troppo. Eppure come potrei, qui sul mio monte, giudicare il fabbisogno di guanti e cravatte di un giovanotto ricercato come voi? La somma mi sembra terrificante. Devono esserci pile di guanti e cravatte in costante aumento lungo il vostro cammino. Voi solo, allora, spendete per questi due accessori quasi la stessa somma che noi, in tre, spendiamo in un anno per tutto quanto. Ma il mio stupore è solo la misura della mia ignoranza. Non odiatevi. Spendete quel denaro senza rimorso, oppure non spendetelo. Penso che un peccatore debba peccare con allegria, oppure non peccare affatto. Con questo non intendo dire che vi ritengo un peccatore, ma solo illustrare il principio generale che un peccatore fiacco è spregevole. È un ben misero essere chi pecca dispiacendosene. Se peccare deve, che lo faccia almeno con tutto il cuore, dopodiché non perda tempo a piagnucolare, ma cerchi di voltare la schiena al peccato e di istradarsi verso il bene. Non odiatevi, per favore. Sono sicura che quelle cose vi sono necessarie. La vostra lettera è stata più deprimente del solito. Non odiatevi, per favore. Non vi fa bene, e riduce la vostra vitalità. Odiarsi non è meno dannoso dell’essere tristi, che è una delle cose più negative. Credo che non si ricavi nulla di buono a perdere il proprio tempo rimestando tra gli errori; ma se vi capitasse d’incontrare il pastore che mi ha preparato alla cresima, non riferitegli le mie parole. Non so se in Inghilterra è lo stesso con i vostri, ma qui i pastori sembrano del tutto incapaci di ascoltare la descrizione di un semplice fatto. Quando vengono a visitarmi l’anima, perché non ne posso elencar loro i sintomi con lo stesso candore con cui riporto al medico quelli del corpo? Questi non si turba né si arrabbia quando gli mostro i miei punti dolenti; prescrive un rimedio o una medicina, incoraggia e se ne va. Il medico spirituale, invece, prende i punti dolenti come una sorta di affronto personale, e comunque i suoi modi dimostrano un’indignazione pari alla franchezza dell’esposizione. Invece di essere paziente, ti lascia a malapena aprir bocca; invece di prescrivere, denuncia; invece di aiutare, rimprovera con veemenza. Finisce così che da lui non ci vai più, e ti risolvi da sola le successive tribolazioni. Quando mi stavo preparando alla cresima, mia madre morì. Il mio cuore, svuotato dal dolore, era particolarmente atto a ricevere somministrazioni e consolazioni religiose. La preparazione durò due anni, duranti i quali frequentavo il catechismo tre volte la settimana. Per due anni non mi fu permesso di ballare o di partecipare nemmeno ai ricevimenti più innocenti. Per due anni, dai sedici ai diciotto, mi comportai con giudizio, pregai, cercai con umiltà la strada verso la virtù. Poi, un giorno, quando affiorarono in me degli interrogativi che la mia coscienza non poteva approvare, mi recai dal pastore che mi aveva preparato con la stessa fiducia con cui sarei andata dal dentista se avessi avuto mal di denti, e di fronte a lui misi a nudo la coscienza afflitta, pregandolo di acquietare la mia mente e di sciogliere i dubbi e gli interrogativi. Con mia grande sorpresa e timore, lo vidi turbarsi e arrabbiarsi, e tollerare con difficoltà l’ascolto del mio sfogo. La cosa mi parve molto strana. Alla fine restai lì seduta con gli occhi posati a terra, silenziosa, vergognosa, il cuore ripiombato nell’usuale riserbo e distacco. Non stavo ricevendo alcun aiuto, bensì soltanto rimproveri, duri rimproveri. Una volta giunta alla porta, istigata da una parola di biasimo particolarmente spietata, reagii gemendo, «Herr Pastor, quando la mia lingua è in disordine e la faccio vedere a un dottore, lui mi dà una pastiglia. Allora voi non siete il dottore del mio spirito? Se vengo da voi per guarire, perché invece che darmi una medicina mi giudicate con crudeltà?».

Allora lui, dopo avermi fissato con aria sbigottita per un attimo, batté le mani al di sopra della testa. «Tuo padre!» tuonò, «Tuo padre! È lui che parla... è lui che parla per tuo tramite. Parole come queste non nascono spontanee dalla bocca di una diciottenne, dalla bocca di colei che è stata cresimata da queste mani. Ach, miserabile fanciulla, non è di anime come la tua che il paradiso è pieno. La contaminazione della tua stirpe preme pesante sul tuo capo. Tu non sei, tu non puoi essere, tu non sei mai stata figlia di Dio».

Ecco il conforto ricevuto per le mie pene spirituali.

Ditemi, in che stato d’animo eravate quando mi avete scritto? Non vi sentivate forse, oltre che avvilito, alquanto irritato? Mi chiedete, per esempio, perché mi prenda la briga di scrivervi tutte quelle cose riguardo un trombettiere alticcio quando so che siete ansioso di leggere tutte le altre cose che non vi racconto mai. Non riesco proprio a immaginare quali siano. Dovete accettare che vi scriva nel modo e degli argomenti che più mi piacciono, e pazientare mentre vi parlo di aiuole di rose e di nasturzi, di pioggia e di sole, di nuvole e di vento, di gatti, uccelli, domestici e persino trombettieri. La mia vita è fatta di queste cose. Se volete sapere di me dovete per forza sapere di quelle. E perché avete preso in antipatia il nostro dotato vicino che abita più in basso sulla collina, e lo definite con disprezzo il violinista? È certamente un violinista, se suonare il violino nelle ore libere significa esserlo, e forse, se aveste anche solo la metà della sua meravigliosa abilità nel suonare, sareste doppiamente felice. Comunque, se n’è andato. La sua vacanza è giunta al termine, oppure ne ha decretato la fine il fidanzato di Johanna. In questi primi giorni di settembre, in questa stagione di brume e matura fruttuosità, di mattine velate, pomeriggi dorati e calme serate, egli ha voltato la schiena alle colline e ai boschi, ai rampicanti che rosseggiano e all’uva che si addolcisce, agli spruzzi d’acqua tra le felci e le pietre, a tutte le cose fresche e tranquille che rendono la vita degna di essere vissuta, per sedere alla sua scrivania, da qualche parte a Berlino, assolutamente determinato a diventare, con il dovuto esborso di giorni e anni, Landrath, Regierungsrath, Geheimrath, e Wirklicher Geheimrat mit dem Prädikat Excellenz. Quando sarà diventato tutto questo se ne andrà in pensione per godersi finalmente la vita, ma con sua sorpresa scoprirà che non è più davanti a lui, bensì alle sue spalle – mucchi di giorni polverosi ammassati negli angoli dell’ufficio –, che mentre va in giro per cercarla gli tremano le ginocchia, e che, senza l’aiuto del valletto, non riesce nemmeno più ad accordare il suo violino.

Non è forse ciò che capita a tutti voi grandi uomini, così assennatamente determinati a farvi strada nel mondo? Dovete essere davvero certi di quell’altra vita, altrimenti come potreste sopportare di sprecare questa? Le cose che vi perdete – oh, le cose che vi perdete! – mentre accumulate un piccolo progresso dopo l’altro, o, come invece lo chiamo io, una piccola perdita dopo l’altra. Non capisco per quale motivo si debba sgobbare giorno e notte durante gli anni migliori. Supponete di giungere alla fine senza avere un valletto che vi apra le porte – il valletto è solo un simbolo, comodo per esprimere l’incredibile quantità di cose superflue che riempiono gli anni di declino della persona facoltosa, cose comprate con il sacrificio della vita, nessuna delle quali può restituire la possibilità, ormai persa, di goderne – supponete, dunque, di giungere alla fine senza un valletto, a cosa sarà servito tutto? Devo essere cieca, poiché non riesco in alcun modo a vedere la desiderabilità di queste trappole. Eppure tutti, davvero tutti, sono disposti a dare moltissimo in cambio. Il nostro più anziano amico che abita qua sotto ha tributato loro i propri occhi e la propria schiena: guarda la vita attraverso gli occhiali e va in giro come il raccoglitore di sanguisughe di Wordsworth, piegato in due dopo un’esistenza passata a rovistare in quelle pozze fangose che sono gli esercizi scritti con malgarbo dai ragazzini; eccolo qui, a cinquant’anni, ancora insoddisfatto di ciò che ha portato a casa, ancora che sgobba tutto l’anno a eccezione di sei brevi settimane estive. Sua moglie è parsimoniosa; hanno un unico figlio; conducono una vita frugale, e già da parecchio tempo avrebbero dovuto accantonare denaro sufficiente a tenerli caldi, nutriti e coperti senza ulteriori periodi di lavoro.

Sono stata interrotta proprio da un messaggio del vicino, che mi ha mandato chiamare giù al frutteto per aiutarlo a raccogliere i frutti che il vento ha fatto cadere dagli alberi, essendo sua moglie occupata a mettere i fagioli in salamoia. L’ho raggiunto, la testa piena di ciò che vi avevo appena scritto, e così, assieme alle mele, ho raccolto una piccola lezione sulla stoltezza delle critiche zelanti e precipitose. Ecco com’è andata.

Quando i cesti erano pieni e le schiene riposate, lui ha detto in tono lamentoso che tra una settimana gli toccherà di partire per Weimar.

«Ma a voi piace il vostro lavoro» ho detto.

«Lo detesto» ha replicato con stizza. «Detesto insegnare. Detesto i ragazzini».

«Allora perché...» ho iniziato, poi mi sono fermata.

«Perché? Beh, il fatto che lo detesti non significa che possa esimermi dal farlo».

«E invece sì».

«Cosa? E cercarmi un nuovo lavoro alla mia età?»

«No, no».

«Non vorrete che me ne stia con le mani in mano?»

«Sì».

Mi ha lanciato un’occhiata torva attraverso gli occhiali.

«Ma questa è mancanza di principi morali».

Io mi sono messa e ridere. È da anni che sento persone dotate di fermi principi morali lamentarsi e prodursi in commenti astiosi sull’esistenza, e non credo m’interessi diventare una di loro.

«Sì che lo è» ha ribadito, vedendo che io non smettevo di ridere.

«Davvero?» ho replicato.

«È il destino dell’uomo lavorare» ha risposto.

«Davvero?»

«Certo» ha ribadito.

«Tutto il giorno?»

«Se non riesce a farlo in meno tempo sì, tutto il giorno».

«Ogni giorno?»

«Certamente».

«Per tutti gli anni della sua vita?»

«Di certo per tutti gli anni in cui conserva le proprie forze».

«Per quale motivo?»

«Mia cara ragazza, avete ripreso a mangiare solo verdura?»

«Perché?»

«Le vostre parole danno l’impressione che i vostri pensieri siano annacquati».

Sono piombata in un silenzio infastidito, e mentre escogitavo il modo per convincerlo della loro sostanziosità, lui già scuoteva il capo commentando la stranezza che vuole le donne più intelligenti incapaci di ragionare come si deve. «L’acqua» ha proseguito, «è indispensabile al posto giusto e utile in molti altri. Non ho niente in contrario alle emozioni annacquate, ai sentimenti annacquati, persino agli affetti annacquati, specie nelle signore, che sono tanto meno affascinanti quanto più sono rigide. Alti e bassi, incertezza, instabilità, inaffidabilità, inesplicabilità... prerogative che ben si addicono al vostro sesso. Ma nella terra del pensiero, dell’intelletto, della ragion pura, tutto deve stare all’asciutto. L’unico posto dove non ammetto la presenza dell’acqua, mia cara ragazza, è il cervello».

Io non avevo risposte pronte da offrirgli. Sembrava non mi rimanesse altro da fare che rientrare in casa. Così ho iniziato ad attraversare il frutteto, riflettendo sul modo in cui gli uomini ti accusano di essere incapace di pensare, o irrazionale, e sempre nei momenti in cui è più difficile ribattere – un’abitudine deplorevole che decreta la fine improvvisa di un’interessante conversazione – e poco dopo, quando avevo ormai raggiunto la mia staccionata, mi ha chiamato. «Fräulein Rose-Marie» ha esclamato in tono affabile.

«Sì?» ho risposto, voltandomi a guardarlo con l’aria contrariata.

«Tornate indietro».

«No».

«Tornate indietro e venite da noi a cena».

«No».

«Abbiamo del montone per cena, e come primo una minestra che è un concentrato di forza animale. So che lassù cenerete con carote e mele cotte, e così non riuscirò mai a persuadervi delle mie ragioni».

«Dio non voglia che ciò accada».

«Come, non desiderate essere ragionevole?»

«Desidero non litigare con voi».

«Ho fatto qualcosa di male?»

«Non siete abbastanza logico per me» ho replicato, desiderosa di prevenire l’inevitabile commento.

«Su, su» mi ha esortato, il viso che si apriva in un ampio sorriso.

«Dico davvero» ho risposto.

«Tornate indietro e provatelo».

«È inutile».

«Non ne siete capace».

«Non lo farò».

«Non è la stessa cosa».

Ho proseguito su per la collina.

«Fräulein Rose-Marie!»

«Ebbene?»

«Tornate indietro».

«No».

«Tornate indietro, e spiegatemi per quale motivo dovrei smettere di lavorare e trascorrere il resto dei miei giorni con le mani in mano».

Allora mi sono voltata e l’ho guardato. «Perché avete cinquant’anni» gli ho spiegato. «Non vi pare un’età in cui iniziare a ricavare qualcosa di buono dalla vita?»

Si è aggiustato gli occhiali sul naso e mi ha fissato con attenzione. «Continuate».

«Guardo la vostra vita, tutti e cinquanta gli anni, e la vedo insopportabilmente monotona».

«Continuate».

«Piatta».

«Continuate».

«Polverosa».

«Continuate».

«Triste».

«Continuate». A ogni nuovo aggettivo annuiva cortesemente col capo e ne teneva il conto con le dita.

«La vedo piena di calamai, di abbecedari con le orecchie e di ragazzini».

«Continuate».

«È un perenne rifare la stessa cosa, un processo esasperante. Non appena i ragazzi raggiungono una certa età e un certo livello di apprendimento, diventando un po’ più interessanti, li passate a un altro, e voi ricominciate da capo con una nuova nidiata. Insegnate in un’aula con le pareti spoglie e ampi finestroni abbaglianti, e lo scampanellio del tram che passa in strada punteggia i vostri discorsi. Fate la stessa vita da trent’anni. I primi ragazzini a cui avete insegnato oggi sono padri di famiglia. Gli alberi nel cortile della scuola, da arboscelli che erano, sono diventati grandi presenze ombrose. Tutto è andato avanti, e così avete fatto anche voi, però siete sempre più prosciugato e annoiato».

«Continuate» ha detto ancora sorridendo.

«La vostra intelligenza» ho proseguito avvicinandomi un poco, «all’inizio irrequieta e smaniosa di gettare giovani germogli verdi attraverso la dura scorza della routine...»

«Bene, molto bene. Continuate».

«...per spingersi verso spazi più ampi, verso una luce più generosa...»

«Poetico. Molo poetico. I miei complimenti».

«Grazie. La vostra, dunque, per sempre... per sempre... mi avete interrotto, e ora non so più dov’ero arrivata».

«Eravate arrivata al punto in cui la mia intelligenza stava buttando dei germogli».

«Ah, già. Beh, ora non sono più tanto verdi. Ecco dov’ero rimasta. A quest’ora lo sarebbero se vi foste preso più tempo per voi senza sprecare tanti anni a sfacchinare. Oggi non sarebbero solo germogli, bensì grandi alberi, sotto la cui gradita ombra staremmo seduti; voi vi godreste i vostri giorni liberi, memore della libertà già goduta e pieno di lieta speranza per quella ancora a venire. E durante tutto il tempo della vostra prigionia, il mondo all’esterno ha proseguito il proprio magnifico cammino, e le stagioni l’hanno colmato di una bellezza che voi non eravate là ad ammirare; il sole splendeva e riscaldava le altre persone, il vento soffiava e faceva fremere la loro pelle, danzare il loro cuore... questo, ovviamente, mentre voi eravate rinchiuso in un’aula, con i piedi gelati e la testa dolorante; gli uccelli cantavano per tutti gli altri celestiali melodie, ma nelle vostre orecchie risuonava soltanto il mugugno di ragazzini recalcitranti, e la pioggia deliziosa...»

«Ferma, ferma. Vi dimenticate che dovevo guadagnarmi di che vivere».

«Certo che dovevate. Ma sapete che avete guadagnato di che vivere tempo fa. Ciò che guadagnate ora, casomai, è di che morire... la morte, l’atrofia dell’anima. Cosa importa se vostra moglie ha un cappello nuovo in meno all’anno e nessun abito di seta...»

«Non fatevi sentire...» si è raccomandato guardandosi attorno.

«...o se non avete domestici, o se la domenica portate in tavola meno cibo dei vostri vicini, se non date ricevimenti e se non riempite la casa di conoscenti cui non importa niente di voi? Se rinunciaste a tutte queste cose potreste rinunciare a tutto quel lavoro ingrato. Siete troppo anziano per sfacchinare tanto. Lo siete già da vent’anni. Un uomo con la vostra intelligenza» al che lui ha finto di apparire lusingato, «che non ha saputo guadagnare abbastanza tra i venti e i trent’anni per affrancarsi dalla schiavitù del lavoro per il resto dei suoi giorni non... non...»

«Non merita di essere chiamato uomo?»

«Non so se sia davvero quel che più importa» ho replicato in tono dubbioso.

«Soprassediamo. È una conclusione accettabile per una frase iniziata come la vostra. Bene, mia giovane signora, mi avete fatto una bella ramanzina...»

«Non voleva essere una ramanzina».

«Permettetemi di chiamarla predica...»

«Non voleva essere una predica».

«Beh, insomma, una dissertazione sull’incurabile miopia della mia esistenza. Ora ditemi una cosa. Ammetto i calamai, i ragazzini, la monotonia, lo scampanellio del tram, la triste fila di anni: sono tutti lì, e la vostra vivida immaginazione è riuscita a ben figurarseli. Ma ditemi una cosa: non vi è mai venuto in mente che non siano altro che un guscio, un involucro e un contenitore, e che è possibile» e qui la sua voce si è fatta seria, «che la mia vita interiore sia molto ricca?»

E voi, amico mio, ditemi un’altra cosa. Non sono una persona disperatamente, incorreggibilmente orrenda? Poco lungimirante? Impertinente? Che salta subito alle conclusioni? Che critica gli altri con arroganza? Una ricca vita interiore, ma certo. Piena di grazia divina. Ecco di che cosa non mi sono mai accorta quando, con sufficienza, ho guardato quelle vite di duro lavoro dall’alto del mio ozio. E notate quanto è grande la mia stupidità, perché non apparirebbe forse anche la mia vita, se giudicata dall’esterno, questa vita vissuta da sola con papà, questa vita limitata, povera e solitaria, la prima giovinezza andata, il futuro senza prospettive, nessun divertimento, pochi amici, l’affetto di papà che si fa più distratto di anno in anno... non apparirebbe, dunque, se osservata allo stesso modo in cui io ho osservato quella del mio vicino, completamente vuota e desolata? Eppure mi sento di riecheggiare con sincerità ciò che lui ha detto: la mia vita interiore è molto ricca.

Cordiali saluti,
Rose-Marie Schmidt

Una donna indipendente
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