8.

 

 

 

Di questa impresa finale di Davide, né Useppe, né Ida e né Bella non ebbero mai notizia. Dopo il suo risveglio dall’accesso di lunedì notte, Useppe, come già soleva da sempre in certi casi, non fece più il nome di Davide (salvo forse una volta con Bella?) e Ida rispettò questo silenzio, pur senza conoscerne affatto i motivi. Essa non si avvide nemmeno che il famoso fiasco di vino, già tenuto in serbo per il grande Davide, era scomparso in quei giorni dal suo ripostiglio. Dopo la canicola dei giorni precedenti, il cielo si era coperto, e dal mercoledì fino alla domenica il tempo si tenne scuro e piovigginoso; ma Useppe, d’altra parte, non mostrò nessuna volontà di uscire. In seguito a quest’ultimo accesso, non sembrava più lo stesso di prima. Anche i suoi occhi s’erano velati, dietro una sorta di nebbia che pareva avvolgerlo tutto intorno confondendogli il tempo e lo spazio: così che chiamava il domani, ieri, e viceversa, e si aggirava nelle stanzette di casa come se andasse per una pianura grande senza pareti, o camminasse sull’acqua. Queste, forse, almeno in parte, erano le conseguenze del Gardenal che Ida, negli ultimi giorni, aveva ripreso a somministrargli di nascosto. Da qualche mese, infatti, Useppe, che in altri tempi si era mostrato così docile ai rimedii, aveva incominciato a respingerli con furore, così che Ida si era costretta a farglieli mandar giù proditoriamente, camuffati e mescolati con dolci e bevande buone. Però ogni volta le pareva, con questo inganno, di offendere il figlietto e di minorarlo, né più né meno di quando lo incarcerava dentro casa. E siccome Useppe, quasi sempre dopo le sue scorribande con Bella, a sera godeva di un bel sonno naturale e si svegliava pronto e vispo, lei, di nuovo illusa, gli aveva diradato e quasi interrotto la cura: così che attualmente accusava se stessa della sua ricaduta, per non aver seguìto le prescrizioni del Professore.

Tornare al policlinico da costui le faceva troppo spavento; anzi, al solo pensarci, la invadeva una ripugnanza superstiziosa. Ma quello stesso giovedì, appena Useppe le parve in condizione di muoversi, andarono a ripresentarsi insieme dalla dottoressa. Questa, com’era da aspettarsi, rimbrottò Ida per non avere ubbidito puntualmente alle istruzioni del Prof. Marchionni. Ma al notare che Useppe, le altre volte così vivace, oggi se ne stava immobile e rispondeva a sproposito alle domande, come sotto l’effetto di un filtro stuporoso, si aggrondò peggio di prima. E consigliò Ida di somministrargli sì, regolarmente, il Gardenal, però diminuendone le dosi, per evitargli i rischi di astenia e di depressione: in séguito, poi, sarebbe opportuno di sottoporlo nuovamente all’E.E.G… Questa sigla, pronunciata dalla dottoressa, fece trasalire contemporaneamente la madre e il bambino; e la signorina, guardandoli l’una e l’altro, scosse la testa con un’espressione quasi truce: «Del resto», osservò in tono scettico, «l’E.E.G., nel ‘periodo intercritico’, veramente spiega poco o nulla…» Essa in realtà pensava che forse nessuna scienza poteva servire al male di Useppe, e aveva quasi il sentimento di truffare la madre e il bambino, coi propri suggerimenti terapeutici. Quello che soprattutto la inquietava, nel bambino, era l’espressione degli occhi.

A questo punto, vedendolo, pure nel pallore, alquanto abbronzato, essa domandò alla madre se lo avesse mandato al mare; e allora Ida, arrossendo tutta, le confidò in segreto che gli preparava una sorpresa per quest’anno: già da vario tempo, cioè, andava mettendo da parte i soldi, per portarlo al mare o in campagna, nei prossimi mesi di luglio e agosto. La dottoressa le consigliò piuttosto la campagna, anzi la collina, perché il mare potrebbe rendere il bambino più nervoso, dato il suo stato. Poi d’un tratto lei pure, come la madre, chi sa perché si fece tutta rossa, e principiò a dire che forse le turbe attuali di Useppe si dovevano al probabile inizio della seconda dentizione… passato questo periodo, il bambino sarebbe tornato naturalmente normale… eccetera eccetera.

In conclusione, malgrado le solite manieracce bisbetiche della dottoressa, Ida uscì dalla visita col cuore aperto alla speranza. Già nel mentre che scendevano in ascensore, essa, animandosi, non seppe tenersi dallo svelare finalmente a Useppe la sorpresa che gli preparava per la piena estate; ma Useppe, che pure aveva sempre sognato le «villeggiature» come un mito fantastico riservato ad altri, la guardò coi suoi occhi smisurati senza dir niente, quasi nemmeno avesse capito il discorso. Ida credette, tuttavia, di sentire palpitare la sua manina nella propria: e questo bastò a darle fiducia.

Frattanto, la dottoressa, affacciandosi dalla finestra del suo studio, scorse la piccola coppia che spuntava dal portone. E la vista di quella donnetta tremante e quasi saltellante, che mostrava vent’anni di più della sua età; e di quel bambinello che, al contrario, a circa sei anni ne mostrava meno di quattro, la fece pensare all’improvviso, con una sorta di certezza cruda: «Ecco due creature, alle quali resta poco da vivere…» Ma su una delle due, in realtà, essa si sbagliava.

 

* * *

 

Il sabato, la nostra dottoressa ricevette ancora una telefonata di Ida. Con la sua vocina già di vecchia, timida, e che pareva sempre peritosa di disturbare, la madre la informava che, da ieri, la dose anche ridotta del solito medicinale, invece di calmare il bambino, stranamente sembrava inquietarlo. Poco dopo averlo preso, il bambino cominciava a innervosirsi, e anche la notte il suo sonno era stato piuttosto agitato, spesso interrotto, e sensibile a ogni minimo rumore. Parve a Ida che la voce della signorina, nel risponderle, suonasse turbata, e piuttosto incerta. Le consigliava di frazionare ancor più la dose quotidiana necessaria, riducendo anche questa al minimo; e di farle avere a ogni modo altre notizie entro lunedì. Anzi, qui la dottoressa propose bruscamente a Ida di consultare insieme il Professore, se il caso lo consigliasse: lei stessa li avrebbe accompagnati al policlinico, madre e bambino, appena il Professore fosse libero di riceverli… ma al più presto, sui primi della settimana… Tale proposta fu accolta da Ida con una gratitudine incredibile. Chi sa perché mai, le pareva che la presenza di quella vecchia ragazza bastasse a spogliare il Professore del gelo ufficiale e subdolo che lo vestiva ai suoi occhi come un’uniforme, e che a lei faceva tanta paura… Ma nel tempo stesso, mentre la signorina le proponeva questa visita urgente, di un tratto essa ebbe la sensazione proprio fisica di vederla, di là dal telefono: col suo camice bianco non tutto abbottonato, i suoi capelli lisci dalla crocchia sbandata in disordine, e i suoi occhioni cerchiati, franchi e impetuosi, che attualmente sembravano covare non si sa quale diagnosi oscura… Non osò chiederle nessuna spiegazione su questo punto, ma le sembrò tuttavia che la signorina, da parte sua, tacesse per pietà. E, ancora più curiosamente, qua le parve di riconoscere in lei, chi sa perché, una doppia parentela con sua madre Nora e, insieme, con Rossella la gatta. Avrebbe voluto abbracciarsi stretta a quella zitella come a una propria madre o nonna, e dirle: «aiuto! sono sola!» Invece balbettò: «grazie… grazie…» «Prego! prego! d’accordo, dunque!» la licenziò rabbiosamente la dottoressa. E la rapida comunicazione fu conclusa.

Ora la dottoressa, in realtà, non avrebbe saputo lei medesima spiegarsi che cosa avesse letto, quel giovedì, nello sguardo di Useppe. Era stata come la lettura di una parola esotica, e che tuttavia le significava qualcosa di irrimediabile e di già lontano. Il fatto è che quegli occhietti (consapevoli senza saperlo) dicevano a tutti quanti, semplicemente, addio.

 

* * *

 

E allora a qualcuno adesso parrà inutile raccontare la restante vita di Useppe, durata ancora poco più di due giorni, e già sapendone la fine. Ma a me non pare inutile. Tutte le vite, invero, hanno la medesima fine: e due giorni, nella piccola passione di un pischelluccio come Useppe non valgono meno di anni. Che mi si lasci, dunque, restare ancora un poco in compagnia del mio pischelluccio, prima di tornarmene sola al secolo degli altri.

L’anno scolastico era alla fine, però ai maestri restavano varie incombenze da svolgere anche dopo la chiusura delle classi. E Ida, sempre assillata dal sospetto di perdere il posto per inabilità, pure in quelle giornate si recava puntualmente a scuola ogni mattina, dopo aver fatto la spesa alla prima apertura delle botteghe. Per lo più la riduzione stagionale del lavoro la lasciava libera prima del solito (così che al suo ritorno Useppe s’era da poco svegliato); o altrimenti, essa correva al telefono in segreteria, per udire almeno la sua voce che diceva: «Pronto chi parla?»

In quelle mattine, essa era quasi grata al maltempo che unito alla svogliatezza di Useppe, le evitava l’atto odioso di chiudere l’uscio a doppio giro. Si capiva che, per Useppe, nel suo stato presente, le solite libere uscite non erano permesse; però lei non osava di formulargli a parole un tale divieto, che certo doveva suonargli come una condanna. Così che fra loro, in quei giorni, esisteva una intesa muta e del resto Useppe, per suo conto, sembrava addirittura impaurito di affacciarsi fuori della porta: tanto che, nel percorso non lungo fino allo studio della dottoressa, essa aveva dovuto tenerselo stretto stretto e lo aveva sentito tremare.

Circa tre volte al giorno, Bella usciva da sola, per deporre i suoi bisogni nella strada. E Useppe ansioso si metteva di guardia alla finestra di cucina per aspettarla. Ora, la sua attesa non durava molto, perché la pastora si sbrigava bravamente, resistendo alle varie tentazioni stradaiole; ma nell’attimo stesso che la vedeva rispuntare giù nel cortile, lui correva all’uscio d’ingresso, pallido per l’emozione, come se quella tornasse da chi sa quale spedizione immensa.

Già dal venerdì, dopo che Ida gli aveva ridotto le dosi del sedativo, il suo piccolo corpo aveva ripreso un poco di colore e di movimento, sciogliendosi dalla caligine che lo opprimeva fino a ieri. Anzi, nei suoi lineamenti e nella sua pelle adesso palpitava una sensibilità continua, tale che quasi la si vedeva, intorno a lui, come una minuscola zona d’aria mossa. I suoi tratti e i suoi colori ne venivano teneramente sfumati, e la sua voce ne suonava più fragile, ma più argentina. Ogni tanto faceva dei sorrisetti rallegrati e pieni di meraviglia, come un convalescente dopo una malattia molto lunga. E s’era fatto voglioso di carezze più assai del solito, tenendosi sempre vicino a Ida, con modi di un gattino o addirittura di un seduttore innamorato. Le prendeva una mano e poi se la passava sulla faccetta, oppure le baciava la veste, ripetendole: «Me vòi bene, a’ mà?». Ida ricominciò a parlargli della loro prossima partenza per la campagna. Aveva chiesto informazioni a una sua collega, e costei le aveva raccomandato il soggiorno di Vico, un paese non troppo lontano da Roma, fresco e ricco di bellissimi boschi. Ci si trovavano delle camere d’affitto a buon prezzo, e a poca distanza c’era un lago, e degli allevamenti di cavalli. «Ma Bella, pure lei ci viene, però!» disse Useppe preoccupato. «Certo», si affrettò a rassicurarlo Ida, «ci andiamo tutti e tre, sulla corriera dei cacciatori!» Lui s’illuminò. Poi, con la confusione dei tempi che gli sopravveniva in questi giorni, di lì a poco incominciò a parlare di Vico al passato, come di un soggiorno già trascorso: «Quando stavamo a Vico», disse con una certa animazione sentenziosa, «Bella giocava con le pecore, e correva appresso ai cavalli e al mare!» (non poteva convincersi che a Vico non ci fosse, fra l’altro, anche il mare: una tale «villeggiatura» senza il mare non gli pareva un caso possibile). «Là, mica ci stavano, i lupi!» precisò. E rise, contento; però nella sua contentezza c’era già un sapore di leggenda. Parve che d’un tratto nei suoi presagi confusi Vico fosse diventato un approdo irraggiungibile, di là dai sette oceani e dalle sette montagne.

Quale fosse in queste ore la veduta della sua memoria, è difficile dirlo. Forse, degli ultimi avvenimenti prima dell’accesso; e di Davide, e di Scimò, e delle loro sorti, gli si affacciava a malapena un sentimento impreciso, protetto dalla penombra. La domenica mattina (era l’ultima domenica di giugno) prese i suoi fogli e le sue matite e si mise a disegnare. Dichiarò che voleva disegnare la neve, e si stranì perché non gli bastavano i colori delle matite. «Te la ricordi, quando ci fu, la neve?» gli disse Ida, «che tutto era bianco…» Ma lui s’indignò addirittura per l’ignoranza di Ida: «La neve», disse, «tiene tanti colori! tanti tanti tanti tanti…», seguitò a ripetere più e più volte, in un tono di cantilena. Poi, lasciato il soggetto della neve, s’impegnò nel disegno di una scena che ai suoi occhi, evidentemente, si rappresentava assai mossa e variata, poiché la sua faccia accompagnava il lavoro con le espressioni più diverse: ora sorridendo, ora aggrondandosi e minacciando, ora mordendosi la lingua. Quel suo disegno è rimasto poi lì nella cucina, però, a uno sguardo profano, risulterebbe un intrico di sagome irriconoscibili.

A quel punto, lo scocco di mezzogiorno, seguìto dal solito, grande scampanio, turbò Useppe all’eccesso, e incomprensibilmente. Senza più curarsi del disegno, corse da sua madre, e aggrappandosi a lei fece, in tono incerto: «…oggi è domenica?» «Sì, è domenica», gli rispose Ida, contenta di sentire che di nuovo lui riconosceva i giorni, «lo vedi che io non sono andata a scuola, e per pranzo ti ho comperato anche i bignè…» «Però io nun escio, nun escio, a’ mà!» lui quasi gridò, in allarme. «No», lo rassicurò Ida, «ti tengo qui con me, non aver paura…»

Fu sùbito dopo pranzo, che il tempo, già coperto da vari giorni, si ruppe con una turbolenza gioiosa. Ida, secondo l’uso, era andata un poco a stendersi sul letto, e di là, nel suo primo assopimento, udì qualche rumore nell’entrata: «Chi è?» domandò quasi in sogno. «È Bella», rispose Useppe, «che vuole uscire». Difatti Bella, com’era solita più o meno a quest’orario, aveva dato il segnale della sua seconda sortita d’obbligo, raspando l’uscio d’ingresso con qualche guaito espressivo. La scena negli ultimi giorni era diventata abituale, e Useppe sembrava farsi un vanto di accompagnare Bella alla partenza e aspettarla al ritorno… Qui Ida, senza sospetto, piombò in un suo pesante sonno pomeridiano; mentre Useppe, là nell’ingresso, rimaneva incerto vicino all’uscio scostato, senza decidersi a richiuderlo dietro a Bella. Aveva la sensazione, difatti, di avere tralasciato qualcosa, o di aspettare qualcosa, non sapeva che. Trasognato allora uscì sul pianerottolo, e si richiuse l’uscio alle spalle. Portava con sé, fra le mani, il guinzaglio di Bella, che in un gesto inconscio, sul passaggio dell’ingresso, aveva staccato dall’attaccapanni, dove secondo la norma stava appeso.

Dalla finestruola della scala sul pianerottolo irrompeva il fresco vento celeste, che andava rincorrendo le nubi come fosse un cavalluccio che pazziava. Useppe fu preso da un subitaneo batticuore: non per l’infrazione (della quale lui non si rese affatto conto) ma per il piacere di vivere! Lì per lì la sua memoria addormentata riemerse a salutarlo nell’aria, però rigirata all’inverso, quasi una bandierina controvento. Senz’altro era domenica: però non precisamente questa domenica, un’altra antecedente, forse quella di otto giorni prima… Di pomeriggio, col sole, era proprio l’ora di andare assieme a Bella alla tenda d’alberi… Bella lo aveva preceduto di corsa, e lui, mormorando parolette confuse, s’avviò a sua volta giù per la scala. Così Useppe è partito per la sua penultima impresa (dell’ultima, seguìta il giorno dopo, io non oso immaginare la partenza, quale fu).

La vecchia portinaia faceva la siesta nel suo sgabuzzino, seduta col capo sulle braccia. Bella e Useppe s’incontrarono subito all’uscita del portone dove Useppe le agganciò il guinzaglio al collare, secondo la loro regola nota. Si sa che Bella spesso ritornava cucciola: e d’altra parte, se nella testa teneva un orologio, essa non ci teneva, invero, nessun calendario. Accolse Useppe con un ballo festoso e naturale: trovandosi immediatamente d’accordo con lui che questa era l’ora di andare alla tenda d’alberi; e che là in quei paraggi era inteso, forse da ieri o dall’altro ieri, un appuntamento col loro amico Scimò. Si direbbe che pure Bella, nella sua contentezza infervorata, contava senz’altro sulla presenza odierna di Scimò al solito posto! ma è noto d’altronde che in lei l’ignoranza burina si alternava spesso con una grande sapienza: e chi sa che oggi questa sapienza non le suggerisse di assecondare Useppe nei giochi difensivi della sua memoria?… Parve a ogni modo che per l’uno e per l’altra la tetra settimana appena conclusa si fosse provvisoriamente scancellata dai giorni.

Le nuvole rotte e inseguite correvano alla deriva nell’avanzata di un vento rinfrescante che sembrava spalancare le strade e i viali. Era come se al suo passaggio delle porte immense si aprissero sbattendo per tutto lo spazio e fino oltre il cielo. Non sempre le nuvole offuscano il cielo: a volte lo illuminano, dipende dal loro movimento e dal loro peso. La zona del sole era tutta libera, e il suo riverbero scavava nelle nuvole più vicine precipizi e grotte di luce, che poi si rompevano percosse da nuove ondate, delle quali Useppe udiva il fragore splendente. Allora i raggi si raddoppiavano, o si frantumavano in tante schegge; e agli incontri, nell’accendersi i massi erratici lasciavano apparire gallerie buie o pavesate di luminarie, camerette interne fiammeggianti di candeline, o finestre azzurre che si aprivano e si chiudevano. Come sempre a quest’ora, le strade erano mezze vuote, e lo scorrere dei pochi veicoli e i passi della gente sembravano dei soffi. Non è raro che certe creature indebolite e snervate risentano dai sedativi, specie in dosi ridotte, un effetto eccitante, simile a quello degli alcoolici. E il piccolo Useppe era in uno stato d’ubriachezza vivido e dissetante, come un rametto strappato che riceva un bagno d’acqua. La sua coscienza e i suoi ricordi lungo la strada si andavano riaccendendo, ma solo in parte. La natura sembrava disporgli l’orientamento nel tempo e nello spazio non a caso, ma secondo una intenzione. Così, l’ultima settimana gli rimaneva tuttora riparata da uno schermo d’ombra; e il ricordo di Davide, che fugacemente tornava a visitarlo, risaliva a un Davide di prima dell’ultimo lunedì. Tale ricordo, tuttavia, gli produceva un oscuro senso di lacerazione; ma immediatamente la natura provvedeva a rimarginargli questa ferita.

Chiacchierando con Bella, lungo la strada, almeno un paio di volte accennò malsicuro a un certo loro appuntamento già fissato con Vàvide… Ma pronta Bella, in accordo con la natura, gli disse: «No! no! non abbiamo appuntamento con quello là!» Sembra che una volta lui, corrugandosi e scrutandola insospettito, abbia insistito caparbio: «Sì e sì! non lo sai? teniamo appuntamento!» Ma allora Bella s’è messa a ballare cantandogli in tutti i toni: «adesso si va da Scimò! si va da Scimò!», all’uso delle balie, quando dicono ai pupi per distrarli: «Guarda! guarda il gatto che vola!» e intanto se ne approfittano per fargli inghiottire un’altra cucchiaiata nutriente.

Quando arrivarono sulla riva del fiume, le nubi si raccoglievano in fondo all’orizzonte, come una lunga catena di montagne attorno al cielo limpido e radioso. Il terreno ancora non aveva avuto il tempo di asciugarsi, dopo le piogge dei giorni scorsi, anche l’acqua del fiume ne rimaneva intorbidata, e tutta la riva era deserta. Alla vista dell’acqua, Useppe istintivamente si ritrasse in qua verso la collina; poi camminando riudì nella memoria la promessa di Scimò, d’insegnargli a nuotare, e, nel tempo stesso, l’avvertimento che di domenica il primo spettacolo del cinema cominciava alle tre. Forse per incontrare Scimò, s’era già fatto tardi: anche Bella gli confermò questa previsione, le tre senz’altro erano già suonate… Sul punto che s’avvicinavano alla capanna, Useppe aveva già perso la speranza di trovarci oggi l’amico.

Alla prima occhiata dentro la capanna, videro che qualcuno, in assenza di Scimò, doveva averla visitata, saccheggiandola, e lasciandola in disordine. «I pirati!» esclamò Useppe, con agitazione estrema. Il contenuto del materasso, compresa la tuta mimetica, era sparso in terra, vicino alla fodera sgonfia; e sia la sveglia, che la lanterna a pila, erano scomparse. Il mozzicone di candela, invece, stava sempre al suo posto sulla pietra; e inoltre si constatò che, per fortuna, anche i tesori principali, conservati nel materasso, erano salvi! Anzitutto, la famosa medaglia del Giro, in buono stato, benché senza il suo doppio involucro, che peraltro Useppe rinvenne sùbito là in mezzo alla stracceria. E poi la fibbia coi brillanti, e anche il pettinino colorato! Useppe serbava nella memoria un elenco preciso di questi beni. L’unico mancante, chi sa poi perché, era il (mezzo) tergicristallo. Mancavano pure le scatolette di Simmenthal eccetera, ma queste, verisimilmente, poteva essersele mangiate, nell’intervallo, lo stesso Scimò.

Annusando all’intorno, col suo bravissimo fiuto da detective, Bella escluse risolutamente l’ipotesi dei pirati. All’odore, qua si trattava d’un unico individuo, entrato forse a ripararsi dalla pioggia poiché, fra l’altro, puzzava di bagnato. Altre sue puzze riconoscibili: di pecora, e di vecchiaia. Doveva trattarsi, dunque, di un vecchio pecoraro: e di uno, chiaramente, pelato in testa, dato che aveva trascurato di pigliarsi il pettinino.

Per quanto ingrugnato, Useppe ebbe un futile sorriso di sollievo: un vecchiarello simile non risultava troppo pericoloso. E del resto, la famosa banda dei pirati certo non si contenterebbe di qualche furto, nelle sue scorrerie tremende! Useppe non aveva mai dimenticato la lista dei loro misfatti, come glieli aveva enumerati Scimò! Con cura si diede a riordinare le proprietà di costui, buttate alla rinfusa sul terreno: riavvolse nel doppio incarto la medaglia del Giro, dopo averla lustrata alla meglio con un lembo della propria maglietta, e la ripose insieme alla tuta mimetica e alle altre cose dentro la fodera del materasso. Fra l’altro, gli venne sotto le mani anche lo slip, male asciugato e indurito dall’umido. E qua d’improvviso, un sospetto (respinto finora dai suoi pensieri) lo attraversò come un sapore amaro: questa era una capanna ormai disabitata, Scimò non dormiva più qua… Ma in quell’istante, Bella, che affaccendata andava annusando il materasso, sentenziò col tono d’importanza di un Ispettore Capo:

«Odore di Scimò recentissimo! Risale a non più di tre ore fa! L’amico ci ha dormito sopra fino a mezzogiorno!!»

Qui la realtà, purtroppo, era diversa: dunque, o il fiuto di Bella stavolta la ingannava (come può capitare a ogni detective, per quanto esimio) oppure essa bluffava, o addirittura mentiva sballatamente, avendo indovinato i sospetti di Useppe. Anche stavolta, il caso non è impossibile: gli animali, come tutti i paria, sono talora ispirati da un genio quasi divino… A ogni modo, quella sua sentenza bastò a rassicurare Useppe, che sùbito rise consolato.

Fu deciso che oggi Bella si sarebbe tenuta all’erta, come una guardiana antifurto, contro ogni possibile attentato alla proprietà di Scimò. Frattanto, riordinata la capanna, i due se ne andarono insieme alla tenda d’alberi. La volta dell’aria s’era fatta, adesso, tutta radiosa e limpida, fino all’ultimo orizzonte; e Useppe, dopo essersi issato senza sforzo sul suo solito ramo, ebbe la sorpresa di udire molte piccole voci di uccelli che cantavano la ben nota canzonetta: «È uno scherzo uno scherzo tutto uno scherzo» eccetera… Lo strano è che il corpo dei cantanti non si vedeva; e anche le loro voci, sebbene in coro, suonavano quasi impercettibili, da sembrare che gli fischiettassero la canzone all’orecchio, intendendo farsi udire solo da lui. Confuso, Useppe esplorava con gli occhi in basso, sul prato, e lungo i tronchi; e poi fissava in alto. Ma in basso c’era solo Bella che annusava l’aria, e in alto si vedevano solo stormi di rondini, che fuggivano in silenzio. Alla fine, come succede alle volte quando si fissa a lungo un’immagine, il suo sguardo vide il cielo riflettere la terra: qualcosa di simile al suo sogno del sabato prima, però all’inverso. E siccome lui di quel sogno s’era attualmente dimenticato, lo spettacolo gli dava un doppio stupore: della presenza attuale, e della reminiscenza inconscia. Credo che dentro ci giocassero pure certi termini di scienza a lui misteriosi, che aveva udito da Davide la domenica avanti: «foreste pluviali, e… nebulose, no, nebulari, e semisommerse…», perché, riflessa nel cielo, la terra adesso gli appariva tutta una meravigliosa vegetazione acquatica, popolata di animali selvaggi che vi pazziavano dovunque, nuotando o saltellando fra i rami. Nella lontananza, quegli animali si mostravano così piccoli, da somigliare ai pesciolini e uccelli quasi microscopici che si vendono alle fiere dentro gabbiette o vasetti di vetro; ma via via che le sue pupille ci si abituavano, Useppe riconosceva nelle loro persone tante specie di Ninucce e nipoti di Scimò, più o meno come nel suo dimenticato sogno. E tutti costoro, invero, non emettevano voci, o almeno la distanza non permetteva di udirle; però, come certi mimi orientali, parlavano coi movimenti dei corpi, e il loro linguaggio non era difficile. Che dicessero proprio: «è uno scherzo, uno scherzo, tutto uno scherzo» non è sicuro. Ma senza dubbio il concetto era il medesimo.

Lo spettacolo esilarava Useppe come un solletico divino; e nel momento stesso che esso svaniva, Useppe inventò la seguente poesia:

 

«Il sole è come un albero grande

che dentro tiene i nidi.

E suona come una cicala maschio e come il mare

e con l’ombra ci scherza come una gatta piccola».

 

Alla parola gatta Bella drizzò gli orecchi e fece un abbaio umoristico, interrompendo la poesia. Questa, poi, che io sappia, è stata l’ultima poesia di Useppe.

Dopo una visione o miraggio, le dimensioni effettive dei fenomeni possono tardare a regolarsi. Succede, per un intervallo, che i sensi, e specie la vista e l’udito, dilatano gli effetti esterni a una misura abnorme. D’un tratto, un fragore terribile di voci rimbombò dalla riva del fiume agli orecchi di Useppe: e i suoi occhi videro una compagnia di giganti scendere da un barcone enorme sulla riva.

«I pirati!» esclamò, correndo giù velocemente dal suo ramo, mentre Bella in allarme già lo precedeva di volo fuori della tenda d’alberi in direzione della capanna. Qua giunti, i due si fermarono, appostandosi dietro il margine della valletta, come di sotto l’orlo di una trincea. Bella, smaniosa dell’assalto, emetteva già dei ringhi bassi e minacciosi; ma Useppe la fece tacere con un sibilo, rammentandosi che quei pirati fra l’altro «ammazzavano gli animali» a quanto aveva testimoniato Scimò.

Che poi si trattasse davvero della famosa banda del fiume, rimane piuttosto improbabile. Dalla barca (una sorta di vecchia zattera a due remi) attualmente all’attracco fra i canneti, erano scesi sette-otto maschi, tutti sotto ai quattordici anni, per lo meno all’aspetto; e un paio (anzi, i più infatuati) addirittura pischelletti da prima elementare. Nessuno di loro sembrava rispondere al tipo del terribile capobanda Agusto, né si udiva questo nome fra i tanti con cui l’uno e l’altro si chiamavano vociando. Se fra loro c’era un capo, lo si poteva riconoscere forse in un mezzo adolescente mingherlino, con la faccia ingrugnata, nominato Raf: il quale però sembrava farsi un vanto di tenerli tutti a bada, piuttosto che di aizzarli, trattandoli dall’alto come li stimasse una pipinara. Quella non pareva, insomma, una vera banda; ma piuttosto una barcata domenicale di bulletti a malapena principianti: capaci, i più di loro, di mettersi ancora a piangere se la madre li menava!

Ma per Useppe e Bella, la loro identificazione permaneva certa: essi erano i famosi Pirati, assassini e predoni, nemici di Scimò! In guardia con gli orecchi semidritti e la coda tesa sulla linea della schiena, Bella si sentiva tornata ai suoi primordi paterni: quando dal fondo della steppa verso il crepuscolo si aspettavano le orde dei lupi!

Il sole adesso scottava; e la prima azione di quei tali, appena sbarcati, fu di spogliarsi e prendere un bagno. Fino alla trincea, dal basso, perveniva il fragore dei loro scontri, tuffi e vociferazioni, che negli orecchi di Useppe crescevano smisuratamente. «Stà qua!» imponeva a Bella di continuo, tremando in tutto il corpo ma tenendosi tuttavia dritto in piedi, pronto al segnale dell’assedio, come un barricadiero. Dovevano essere circa le quattro e mezza, quando il segnale scoccò, e per lui fu come se un gran fumo nero invadesse i valloncelli e la boscaglia. Le voci dei pirati si andavano avvicinando: «A’ Piero! a’ Mariuccio!» si chiamavano su per la collina, «viè! viè li mortacci tua! Raf! Raaf!!» Quali fossero le loro intenzioni attuali, non è dato conoscere: magari era la prima volta che facevano il bagno in questo sito e volevano semplicemente esplorarne l’interno, scorrazzando qua e là… D’un tratto, Useppe vide le loro sagome GIGANTESCHE avanzare verso la trincea.

«Stà qua!» ripeté a Bella, fremendo. E nel tempo stesso, corse a un mucchio di sassi che Scimò teneva presso la capanna come fermaporta. «Non voio! non voio!» brontolava armandosi, congestionato in volto da un afflusso d’ira terribile. E montato di corsa in cima al valloncello, gridò agli avanzanti, con furore:

«Annate via! Annate via!» Quindi, a imitazione del loro linguaggio proprio (da lui già da tempo, del resto, acquisito nei suoi vari quartieri), rinforzò la propria minaccia aggiungendo con la stessa enfasi feroce:

«Morammazzàti! Fidemignotta! Vaffanculo!!»

In realtà, doveva essere piuttosto comico l’effetto di quel minimo pigmeo, rosso in faccia e furibondo, che con due selcetti in pugno pretendeva di cacciare via dal posto una masnada. E difatti quelli, invero, non lo presero sul serio; solo il minore di tutti (circa un suo coetaneo) gli disse, ridacchiando con aria superiore: «Ma te che vòi, regazzì!?», mentre l’altro piccolo, che faceva il paio con lui, lo appoggiava sghignazzando. Però in quello stesso punto Raf intervenne, arrestandoli a metà del prato:

«Ahò! attenzione ar cane!»

Girando, dal fondo della valletta, a rinforzo di Useppe era istantaneamente comparsa Bella; ma sarebbe stato difficile, in verità, riconoscerla nel mostro terrificante che attualmente fronteggiava la banda, facendola indietreggiare.

Con le mascelle aperte e i denti nudi da belva, gli occhioni somiglianti a due vetri vulcanici, gli orecchi tesi a triangolo che le allargavano la fronte, essa emetteva un ringhio basso, più tremendo di un ululato. E, issata a fianco di Useppe là sulla trincea, sembrava una mole colossale, tanta era la violenza che le ingrossava i muscoli dal petto alla groppa ai garretti pronti, nel febbrone dell’assalto. «Mò quello mòzzica, ahò, è rabbioso!!» si udirono voci esclamare nel branco dei bulletti; e uno di loro, a questo punto, raccolse da terra una pietra, così almeno parve a Useppe, avanzando minaccioso verso Bella. Useppe si stravolse in faccia: «Non voio! Non voio!» proruppe. E furiosamente scagliò i suoi sassi verso il mucchio dei nemici, senza riuscire, io credo, a colpirne nessuno.

E difficile descrivere la mischia che seguì subito dopo, tanto la sua durata fu breve: addirittura pochi secondi. Bisogna supporre che Bella si sia slanciata in avanti, e che Useppe l’abbia seguìta per difenderla; e che i pirati, preso in mezzo quel pischelletto temerario, per punirlo l’abbiano un po’ sbatacchiato, dandogli magari qualche botta. Però l’espressione strana, che intanto era apparsa sul suo viso, fece dire a uno di loro: «E lassàtelo pèrde! Nun vedete che è scemo?!» E qui d’un tratto, nel mezzo del tumulto, sopravvenne un incidente tale da sconvolgere la piccola banda, che non sapeva intenderne la natura. Sul punto che il pischelletto, sbattuto fra la calca, si stralunava e allentava le mascelle come un idiota, la cagna si rabboniva miracolosamente. Essa pareva raccomandarsi a tutti quanti; e accorreva verso il pischello, come una pecora all’agnellino, trasmutando il ringhio di prima in un uggiolio dolcissimo. Fra i presenti, lei sola, a quanto è dato capire, seppe riconoscere l’urlo che uscì dalla gola contratta del bambino, mentre il corpo di lui, cadendo all’indietro, si abbatteva lungo il declivio giù dalla trincea. Per gli altri, che non avevano esperienza pratica di certi insulti, l’evento oscuro prese l’apparenza di una catastrofe. Essi ristettero un poco a guardarsi istupiditi, senza il coraggio di affacciarsi sul valloncello, da cui si udiva una sorta di rantolo affannoso. Quando, di lì a qualche istante, Raf e un altro dei suoi ci si sporsero a vedere, il bambino, finita la fase delle convulsioni, giaceva disteso immobile, con la faccia di un morto. La cagna gli girava intorno, tentando di richiamarlo col suo piccolo lamento di bestia. Un filo di sangue schiumoso gli usciva di fra i denti.

Senz’altro, essi dovettero credere di averlo ucciso. «Annàmo!» disse Raf, voltandosi agli altri, tutto sbiancato in faccia, «qua bisogna squagliarsela di corsa. Presto, non fate i fessi. Via!» Si udì lo scalpiccio della loro fuga verso l’approdo, e il brusio delle loro confabulazioni (io, che j’ho fatto?! la botta, je l’hai data tu… scc… famo finta de gnente… Nun dìtene parola a nessuno…) mentre s’imbarcavano, col primo sciacquio dei remi. Stavolta, era presente solo Bella, nel punto che Useppe riaperse gli occhi senza memoria, col suo solito sorrisetto incantato. Via via, da piccoli mutamenti del suo volto, si poteva assistere ai suoi passaggi successivi attraverso le varie soglie della vigilanza, come dicono i dottori. D’un tratto si girò appena sul collo, guardandosi ai lati con sospetto.

«Non c’è più nessuno!», Bella gli annunciò senza indugio, «sono andati via…»

«Andati via…» ripeté Useppe, rasserenandosi. Ma nel tempo di un respiro una tutt’altra espressione gli spuntò sul viso. Fece un sorriso sforzato, che gli risultò piuttosto in una smorfia miserabile, e disse, torcendo gli occhi senza guardare Bella:

«Io… sono… cascato!… eh?»

In risposta, Bella cercò di distrarlo, con qualche leccatina frettolosa. Ma lui la respinse, ritraendosi in se stesso, e si nascose il volto dietro al braccio:

«E così, adesso», lamentò in un singulto, «m’hanno visto… pure loro… adesso, così… lo sanno…»

Si mosse, con disagio. Fra l’altro, si rendeva conto d’essersi bagnato di sotto (per il solito effetto comune in tali accessi convulsivi). E lo preoccupava l’idea vergognosa che i Pirati se ne fossero accorti.

Ma già i suoi occhietti andavano ammiccando, vinti dalla sonnolenza che sempre gli sopravveniva alle crisi. Nel valloncello soffiava un’aria ponentina, tenera come il battito di un ventaglietto, e il pomeriggio era così limpido che perfino l’ombra allungata della capanna specchiava il colore del cielo. Sul fiume, lo sciacquio dei remi pirateschi s’era allontanato verso il nulla; e fu qui che Bella si lasciò andare a uno sfogo esibizionista, celebrando in un grande abbaio l’impresa della trincea, secondo la sua propria versione personale. A Useppe, che intanto s’addormentava, quel solitario inno canino perveniva confuso, così come il turchino-violaceo dell’aria gli si confondeva fra i fili delle ciglia. E forse a lui pareva che uno strombettio leggendario corresse sul campo fra uno spiegamento di bandiere.

L’ignoranza dei cani, invero, è infatuata sovente fino alla mania; e la pastora, secondo la sua psicologia visionaria, dava, dei fatti odierni, l’interpretazione seguente:

I LUPI SCONFITTI SI SONO RITIRATI IN FUGA RINUNCIANDO ALL’ASSEDIO DELLA CAPANNA E LO SCONTRO È TERMINATO CON LA VITTORIA STREPITOSA DI USEPPE E BELLA.

Dopo avere abbaiato questa notizia ai quattro venti, Bella, sazia e stremata dalle emozioni, si addormentò a sua volta vicino a Useppe. Quando, avvertita dal suo solito orologio naturale, essa si riscosse, il sole s’era alquanto abbassato verso l’ovest. Useppe dormiva profondamente, come di piena notte, con la bocca semiaperta a un respiro regolare, e la pallida faccetta colorata di rosa verso gli zigomi. «Svégliati! è ora di andare!» lo chiamò Bella; ma Useppe levò appena le palpebre, mostrando l’occhio velato di sonnolenza e di ripulsa, e sùbito le richiuse.

Bella tornò a sollecitarlo, sebbene con un certo rimorso. E insisté, provandosi pure a scuoterlo con la zampa, e a tirargli la maglietta coi denti. Ma lui, dopo essersi voltolato due o tre volte con una espressione di ripugnanza, alla fine la respinse scalciando quasi frenetico. «Non voio! non voio!» esclamò. Quindi risprofondò nel sonno.

Bella rimase un poco là seduta, poi si rialzò sulle quattro zampe, agitata da un dilemma. Da una parte, una volontà perentoria le ordinava di rimanere qui vicino a Useppe mentre, dall’altra, una volontà non meno irremissibile la obbligava a tornare a casa da Ida in orario, come tutte le altre sere. Fu in questo medesimo intervallo che su a Via Bodoni Ida si svegliò finalmente dal suo sonno prolungato.

 

* * *

 

Era un caso anomalo e inusitato quello che oggi le succedeva: di fare una siesta pomeridiana così lunga. Forse, era stato il sonno accumulato nel corso delle ultime notti, a tradirla. Fu una dormita profondissima e sorprendente, placida, ininterrotta come quella di una bambina. Solo nell’ultima fase, ebbe un breve sogno.

Si trova in compagnia di un pischelluccio, davanti alla cancellata di un grande molo. È in partenza una grande nave solitaria, di là dalla quale si stende un oceano aperto, assolutamente calmo e fresco, del colore azzurro carico del mattino. A guardia della cancellata c’è un uomo in divisa molto autoritario, e coi tratti del carceriere. Il pischello potrebbe essere Useppe, e anche non essere lui: però di certo è qualcuno che somiglia a Useppe. Essa lo tiene per mano, incerta davanti alla cancellata. Sono due poveri, in abiti pezzenti, e il guardiano li respinge perché non hanno il biglietto. Ma allora il pischello con la sua manuccia sporca e impacciata si fruga in tasca, e ne cava un minuscolo oggetto d’oro, del quale essa non saprebbe dire che cosa sia: forse una piccola chiave, o un ciottolo, o una conchiglia. Dev’essere, a ogni modo, un lasciapassare autentico, perché il guardiano, adocchiatolo appena nella mano del pischelluccio, senz’altro, per quanto di malavoglia, apre il battente della cancellata. E allora il pischello e lei, contenti, salgono insieme sulla nave. Questa fu la fine del sogno e qua Ida si svegliò. Avvertì sùbito il silenzio anormale della casa; e al trovare le stanze deserte, presa da un pànico incoerente, si precipitò giù al portone così come si trovava. Secondo il solito, per il suo riposo pomeridiano s’era distesa sui letto vestita. Aveva addosso il suo abituccio da fatica liso e unto, macchiato alle ascelle dal sudore, e non s’era neppure ravviata i capelli. Ai piedi s’era infilata lì per lì le ciabatte da casa, che le facevano stentare il passo peggio ancora dell’ordinario, e in tasca aveva il borsellino con le chiavi.

La portiera le disse di non aver visto passare nessuno: è vero che, essendo domenica, non sempre era rimasta di guardia alla sua nicchia… Ma Ida non si fermò ad ascoltarla, buttandosi al caso in istrada, e chiamando Useppe a gran voce, per le vie circostanti, come una selvaggia. A chi la interrogava, rispondeva, con tono e sguardo febbrile, che cercava un bambino uscito assieme a un cane: però respingeva ogni consiglio o intervento, riprendendo da sola la sua ricerca. Aveva il sentimento sicuro che, in qualche parte di Roma, Useppe giaceva caduto in una nuova crisi: forse anche ferito, forse fra estranei… In realtà, ormai da tempo, tutte le paure di Ida si coagulavano in una, insediata al centro dei suoi nervi e della sua ragione: che Useppe cadesse. Ogni giorno, nel lasciargli aperta la gabbia, lei conduceva una lotta spossante contro il «Grande Male»: che gli stesse lontano, almeno, in queste sue felici fughe estive, e non lo umiliasse fra i suoi grandi onori di maschietto in libertà… E oggi, ecco, la paura estrema di Iduzza si avverava: il male s’era approfittato che lei dormiva, per insultare Useppe a tradimento.

Fuori dai paraggi di casa, il primo itinerario che le si presentò all’intùito fu quello verso la famosa foresta sul fiume, che Useppe le aveva già tanto vantato. Secondo la spiegazione infatuata del bambino, le risultava che, da Via Marmorata, esso seguiva per Viale Ostiense, fino al piazzale della Basilica… E lei s’incamminò per Via Marmorata con l’inerzia febbrile di chi corre a un inseguimento: così protesa alla sua direzione impulsiva che il movimento cittadino le fischiava intorno invisibile. Aveva percorso circa i due terzi di questa via, che dal fondo la salutò un abbaio irruente e infervorato.

Torturata nel proprio dilemma, Bella si era risolta subitaneamente a fare una corsa fino a casa per chiamare Ida ma nel galoppare verso Via Bodoni, essa si sentiva come tagliata in due: giacché frattanto aveva dovuto lasciare solo solo nel valloncello il piccolo Useppe addormentato. Ora, l’incontro con Ida lungo la strada le parve addirittura un evento magico.

Fra loro, non occorse nessuna spiegazione. Ida raccolse da terra il guinzaglio che Bella si era strascicata dietro e si lasciò portare da lei, nella certezza di andare a trovare Useppe. Naturalmente, col suo passo balordo e saltellante, e per di più impacciato dalle ciabatte, per Bella essa era uno strazio, e ogni tanto la cagna, nella sua foga naturale, spazientita le dava delle tirate, come se portasse un carretto. Finalmente, arrivate sul terreno irregolare lungo il fiume, Ida lasciò cadere il guinzaglio, e lei prese a trottarle avanti, fermandosi per aspettarla di tratto in tratto. Per quanto smaniosa di arrivare, essa non aveva l’aria triste, anzi briosa e incoraggiante, e questo calmava un poco le apprensioni di Ida sullo stato di Useppe. Troppo stordita per distinguere i luoghi all’intorno, Ida avvertiva lo stesso, percorrendoli come su una scia luminosa, dovunque le impronte del figlietto, che tanto glieli vantava. Le ore che lui ci aveva passato glieli animavano febbrilmente da ogni parte, come una corsa di miraggi colorati. E le sue risatelle e chiacchiere tornavano a salutarla, ringraziandola in coro per i bei giorni di libertà e di fiducia goduti laggiù…

La domanda: «che cosa troverò, fra poco?» le urgeva intanto sui centri nervosi, indebolendola al punto che quando la cagna la incitò a far presto con un abbaio che diceva chiaramente: «È qui!» lei stava quasi per cadere. La cagna, scomparsa per un istante alla sua vista, era risalita a chiamarla da sotto un valloncello, e il suo richiamo, invero, suonava trionfante. Nell’affacciarsi a sua volta sul valloncello, Ida sentì riaprirlesi il cuore, perché Useppe stava là in piedi sull’apertura di una capanna, e salutò la sua comparsa con un sorrisino.

Nell’assenza di Bella, difatti, si era svegliato, e al trovarsi solo laggiù s’era forse creduto abbandonato da tutti, perché nel suo sorriso s’indovinava ancora una certa trepidazione ansiosa. Inoltre, per difendersi eventualmente da invasori o da nemici, s’era armato d’una canna, che stringeva fortemente nel pugno, e di cui non volle più lasciare la presa a nessun costo. Appariva ancora piuttosto trasognato e immemore; ma di lì a poco (secondo i capricci attuali della sua memoria) l’assalto dei pirati gli tornò presente. Fece allora una piccola, titubante perlustrazione nella capanna, e rise di contentezza vedendo che tutto era salvo, non c’erano stati né incendi, né devastazioni. Rincasando, quella sera, dopo il cinema e la pizzeria, Scimò avrebbe ritrovato il suo lettuccio pronto che lo aspettava, secondo il solito (ai furti del vecchio ladruncolo pecoraro senza capelli, avrebbero potuto rimediare in séguito, con la loro munificenza, gli arcani Froci).

Con un chiacchierio confuso e ilare, Useppe manifestava a sua madre le proprie soddisfazioni. «Non dire niente a nessuno, eh, mà!» fu tutto quello che lei riuscì a capirci. Nelle luci del tramonto, il bambino aveva le guance colorite di rosa, e gli occhi beati e trasparenti. Ma sul punto di riavviarsi a casa, mostrò una repulsione subitanea. «Dormiamo qua, stanotte!» propose a sua madre, tentandola con quel suo nuovo, speciale sorriso da seduttore. E solo alle suppliche sgomente di Ida, cedette rassegnato. Però si vide che, per la spossatezza e il sonno, proprio non si reggeva in piedi. A camminare da solo, non ce la faceva, né Ida aveva muscoli da caricarselo in braccio. Nel borsellino delle chiavi che portava con sé, fortunatamente essa teneva alcuni soldi spiccioli, bastevoli per i biglietti del tram da San Paolo fino a casa; ma c’era intanto da arrivare fino a San Paolo. E qui Bella venne in aiuto, offrendo alla famiglia il sostegno della propria groppa.

Camminavano in tre, stretti uno all’altro: Useppe accomodato su Bella come su un cavalluccio, e appoggiato con la testa al fianco di Ida, che lo cingeva col braccio per sostenerlo. Fatti appena pochi passi, nel momento che costeggiarono dall’esterno la tenda d’alberi, già Useppe dondolava la testolina, mezzo addormentato; e solo qui, finalmente rallentò il pugno, lasciando cadere la canna. Era il tramonto, e una compagnia di uccelli s’era data convegno là sopra la tenda, nell’alto dei rami. Suppongo appartenessero alla classe degli storni, i quali usano, appunto, ritrovarsi fra padri di famiglia, verso sera, per tenere insieme dei concerti. Useppe non s’era mai trovato sul luogo in un’ora così tarda, e un simile, grande concerto era una novità per lui. Che cosa ne udisse, nel dormiveglia, non so; ma la sorpresa dovette piacergli, perché emise una fuggevole risata di divertimento. E il concerto di questa serata era, difatti, di un carattere buffo: uno dei coristi fischiettava, uno gorgheggiava, uno trillava, uno sbaciucchiava l’aria, e poi s’imitavano fra di loro, rifacendosi il verso, oppure canzonando altre classi varie di uccelli, fino alle voci dei galletti o dei pulcini. Tale è, appunto, il virtuosismo speciale degli storni. E il gruppo Bella-Ida-Useppe procedeva così adagio che quel concerto serale li segui per un bel tratto di strada, accompagnato dalle sordine (erbacee, fluviali) della prima sera.

A San Paolo, Ida e Useppe, con qualche aiuto estraneo, furono caricati sul tram, mentre Bella, in grande impegno, correva a piedi dietro il veicolo. Seduta fra la folla nel crepuscolo, Ida ebbe l’impressione che il corpo di Useppe, dormiente sulle sue ginocchia, si fosse fatto ancora più piccolo e minuto. E d’un tratto le si ripresentò alla mente il primo viaggio che aveva fatto con lui sul tram, portandoselo a casa appena nato dal quartiere di San Giovanni, dimora della levatrice Ezechiele.

In séguito, anche il quartiere di San Giovanni, come il quartiere di San Lorenzo e i Quartieri Alti intorno a Via Veneto, le era divenuto un luogo di paura. L’universo s’era andato sempre più restringendo, intorno a Iduzza Ramundo, dai giorni che suo padre le cantava Celeste Aida.

Da San Paolo al Testaccio, il percorso non era lungo. A ogni fermata del tram, da fuori Bella assicurava Ida della propria presenza facendo dei salti verso il finestrino, fin quasi a raggiungerlo col muso. Al vedere quel muso, i passeggeri della vettura, intorno, ridevano. Nella sua gara di corsa col tram, Bella vinse. Ida la trovò già in attesa, festante, alla fermata d’arrivo.

Il viaggio più faticoso fu quello delle scale, su per tanti piani fino all’uscio di casa. La portinaia doveva essere a cena, nel suo retro dabbasso. Con la solita timidezza forastica, Ida non cercò l’aiuto di nessuno. Procedettero nell’ascensione loro tre, stretti l’uno all’altro, come già lungo la riva del Tevere. Useppe addormentato, coi ciuffetti che gli cascavano sugli occhi, si lasciava portare inconsapevole, solo facendo udire, di quando in quando, un piccolo borbottio. L’ora del radiogiornale era già passata. Per le finestre aperte, sul cortile, dalle radio echeggiava un programma di canzonette.

Dopo il suo lunghissimo sonno pomeridiano, Ida rimase sveglia gran parte della notte. L’indomani mattina, e ancora il giorno dopo, essa era impegnata a recarsi a scuola; poi, finalmente, giungerebbe il termine della chiusura. Frattanto, però, fino da domani mattina, era necessario consultare di nuovo la dottoressa, secondo gli accordi, e affrontare forse una visita del Professore Marchionni.

Ida sapeva che una tale visita repugnava al piccolo Useppe non meno che a lei stessa, e se ne anticipava una paura doppia. Vedeva stessa e Useppe riattraversare i corridoi dell’ospedale, che adesso le diventavano una striscia livida e tortuosa, fra un vociare lunatico; poi, come a rovesciare un binocolo, mirava a distanza, piccola sulla misura di una pupilla, la veduta verdeggiante delle loro vacanze a Vico; e poi di nuovo Useppe e lei per mano, spaesati fra gli automi sotterranei dell’E.E.G…. Ma di lì a poco il domani incerto si staccò da lei, simile a una zavorra. Essa si trovò sospesa nel presente, come se questa notte tranquilla e piena di dolcezza non dovesse finire mai.

Useppe dormiva, apparentemente sereno e placido, e così la cagna, stesa a un passo da lui sul pavimento. Ma Ida senza sonno tardava a coricarsi. S’era come incantata nella posa già presa di prima sera, inginocchiata presso il sommier, dove s’appoggiava col capo sulle braccia. E là rimaneva, gli occhi aperti, a guardare Useppe che respirava nel sonno. Non c’era luna; però, in quella camera dell’ultimo piano, il chiarore dello stellato bastava a rendere visibile il dormiente, che riposava supino, coi pugni rilasciati sul guanciale e la bocca socchiusa. Il suo corpo, fra la penombra dorato-azzurrastra, si mostrava ancora rimpicciolito, fino alla misura di un bambolino che quasi non disegnava nessuna sagoma sotto il lenzuolo, come già all’epoca della fame a Via Mastro Giorgio. Ma stanotte, finché il bambolino era suo, qua al sicuro nella loro stanza, Ida credeva di udire nel suo respiro il battito di un tempo inconsumabile.

Taciute tutte le radio, e cessato anche il traffico tardivo della mezzanotte, si udiva solo, a intervalli, lo stridore degli ultimi tram diretti al deposito, o il soliloquio di qualche ubriaco di passaggio sul marciapiedi. A Ida sembrava, in una specie di vertigine all’inverso, che queste povere voci s’imbrogliassero nella rete silenziosa e fitta delle stelle. A un certo punto, la notte aveva lasciato andare la nostra cameretta lungo un volo cieco, senza strumenti di navigazione. E questa poteva essere una notte dell’estate avanti, quando ancora Useppe non «cadeva» e nello stanzino di là dormiva Ninnarieddu.

Il buio era ancora fondo, quando un galletto cittadino, da qualche terrazza dei dintorni, alzò il suo canto precoce. Di lì a poco, Bella nel sonno emise un brontolio: forse, sognava l’attacco dei pirati-lupi? Al primissimo chiarore dell’alba, essa d’un tratto si drizzò sulle zampe. E lasciando in fretta il suo posto nella camera, andò a stendersi nell’ingresso davanti alla porta, come intendesse fare la guardia alla casa contro qualche invasione ladra, o straniera. Ida s’era intanto assopita per poco sul letto. Si udirono i primi rintocchi dalla chiesa di Santa Maria Liberatrice.

La giornata era limpida e senza vento, e fu assai calda fino dal mattino. Quando Ida si preparò a uscire di casa, verso le otto, Useppe era ancora immerso nel sonno. Le sue guance accaldate, alla luce quieta delle persiane, sembrava avessero ripreso il colore roseo della salute; e il suo respiro era tranquillo, però gli occhi apparivano cerchiati da un piccolo alone scuro. Con riguardo Ida gli scostò un poco sulla fronte i ciuffetti bagnati di sudore, e bisbigliò a bassissima voce: «Useppe…» Il bambino sbatté appena le palpebre, in un tremolio, mostrando una minima striscia dei suoi occhi celesti, e rispose:

«a’ mà…»

«Io esco, ma torno presto presto… tu aspettami a casa eh, non ti muovere… io vado e torno».

«Tì…»

Useppe rinserrò le palpebre e tornò a dormire. Ida si allontanò in punta di piedi. Bella, che frattanto faceva la spola dalla camera, all’ingresso, alla cucina, la accompagnò silenziosa fino all’uscio. Ida esitò un istante se chiudere la serratura dall’esterno a doppia mandata, ma se ne trattenne, vergognandosi di offendere Useppe in presenza della pastora. Invece, fiduciosa di costei, le disse piano: «Aspettatemi a casa, eh. Non vi muovete. Io torno presto». Passando dabbasso, si raccomandò alla portinaia di salire, verso le undici, a dare un’occhiata al bambino, nel caso che lei stessa, a quell’ora, non fosse ancora rincasata.

Ma era passata poco più di un’ora (dovevano essere circa le nove e mezza) quando le sopravvenne una sorta di malessere insostenibile. Si trovava nella stanza della direttrice, in riunione con altri insegnanti, e dapprincipio, non essendo nuova a certi fenomeni nervosi, si sforzò di seguire tuttavia la discussione in corso (si trattava di Colonie estive, di certificati delle famiglie, di questioni di merito e di diritto degli alunni…) finché si persuase, con una certezza quasi accecante, che tutto questo non la riguardava più. Essa avvertiva il suono delle voci intorno, e ne udiva anche le parole, ma in una dimensione rovesciata, come se queste voci fossero un ricordo, che intanto le si mischiava alla rinfusa con altri ricordi. Le pareva che fuori, sotto il sole bruciante, la città fosse invasa dal panico, e la gente corresse verso i portoni, a un avviso insistente: «è l’ora del coprifuoco!» e non capiva più se fosse giorno o notte. D’un tratto ebbe la sensazione cruda che, dall’interno, delle dita graffianti le si aggrappassero alla laringe per soffocarla, e, in un enorme isolamento, ascoltò un piccolo urlo lontano. La stranezza fu che lei non riconobbe quell’urlo. Poi la grande nebbia si sciolse, e la scena presente le riapparve normale, con la direttrice al suo scrittoio e gli insegnanti seduti all’intorno in discussione. Costoro, frattanto, non s’erano accorti di nulla: Ida, infatti, era soltanto impallidita.

Di lì a pochi minuti, la medesima sensazione già provata le tornò uguale: di nuovo le unghiate che la soffocavano, l’assenza, e l’urlo. Le pareva che quest’urlo, in realtà, non appartenesse che a lei stessa: quasi un lamento sordo dei suoi bronchi. Passando, esso le lasciava un segno di offesa fisica, pari a una mutilazione. E alla sua coscienza annebbiata sventolavano, insieme, degli avanzi stracciati di memoria: il giovane soldato tedesco a Via dei Volsci steso su di lei, nell’orgasmo… Lei bambina, in campagna dai nonni, dietro al cortile dove si sgozzava una capretta, per la festa… Poi tutto si sperdeva in disordine, fra lo svanire della nebbia. Nel corso di forse un quarto d’ora, a intervalli più o meno uguali, la cosa si ripeté ancora due volte. D’un tratto Ida si alzò dalla sua sedia, e, balbettando qualche scusa incoerente, corse nel piccolo ufficio della segreteria, che oggi era deserto, per telefonare a casa. Questa non era la prima volta che, alla sua chiamata, per l’uno o l’altro motivo la nota vocina da Via Bodoni tardava a rispondere, o non dava risposta affatto. Ma oggi, gli squilli a vuoto di là dal filo le arrivarono come un segnale di sommovimento e d’invasione, che le comandava di correre a casa d’urgenza. Essa si lasciò cadere il ricevitore dalle mani trascurando di riagganciarlo. E, senza nemmeno riaffacciarsi sulla stanza della direzione, infilò la scala verso l’uscita dabbasso. Di nuovo, a metà della scala, fu sorpresa da quello strano spasmo ripetuto, ma il grido interno che glielo accompagnava stavolta era più simile a un’eco: e le portava una oscura indicazione della propria sorgente a cui ribatteva tardato e spoglio. Anche la nebbia, che l’aveva arrestata a metà scala, stavolta si dissolse immediatamente sgombrandole il passo.

Nell’androne, il portiere della scuola le gridò dietro qualcosa: difatti, secondo il solito, Ida gli aveva lasciato in consegna la sporta delle spese, già fatte prima dell’orario di lavoro. Essa lo vide spostarsi e muovere le labbra, ma non ne udì la voce. In risposta, gli fece con la mano un gesto incerto, che sembrava una sorta di saluto. Lo stesso gesto fece alla vecchia portinaia di Via Bodoni, che al suo passaggio le rideva accennandole col capo, soddisfatta di vederla così presto di ritorno.

Nel breve tratto da scuola fino a casa, Ida era stata esclusa, in realtà, dai suoni esterni, perché andava ascoltando un altro suono, del quale non aveva udito più il simile dopo l’ultima sua passeggiata al Ghetto. Era, di nuovo, una specie di nenia ritmata che chiamava dal basso, e riesumava, nella sua dolcezza tentante, qualcosa di sanguinoso e di terribile, come si diffondesse verso punti dispersi di miseria e di fatica, a raccogliere nel chiuso le mandrie per la sera. Poi, non appena si riaffacciò sul secondo cortile, le voci reali della mattina la riaggredirono, con suoni di radio dalle finestre. Essa evitò di guardare in su alla propria finestra di cucina, dove Useppe, nei giorni della sua prigionia domestica, usava aspettarla dietro il vetro. Difatti, e quasi assurdamente, essa sperava di scorgere pure oggi, guardando in su, quella piccola sagoma familiare. E cercava ancora di sfuggire alla certezza che invece la finestra oggi era vuota.

Mentre s’inoltrava su per la scala, le pervennero, dall’ultimo piano, gli squilli del suo telefono di casa, che tuttora seguitava a suonare, da quando lei stessa ne aveva chiamato il numero, senza richiudere, pochi minuti prima, dalla segreteria. Solo quand’essa pervenne all’ultimo pianerottolo, lo stupido segnale tacque.

Allora, di là dall’uscio d’ingresso, le giunse una piccola voce penosa, che le sembrò il pianto di una bambina. Era l’uggiolio di Bella, la quale, nel proprio lamento solitario, non reagì nemmeno all’udire il suo noto passo che avanzava sull’ultima rampa. Qua lei trasalì, vedendo una figura torva che la minacciava di fronte; ma non era altro, in realtà, che una macchia sul muro della scala, scrostato e umido per la prossimità delle fontane. Da quando loro abitavano il palazzo, quella macchia c’era sempre stata; ma Ida non aveva mai neppure notato, fino a oggi, una tale presenza terribile.

Nell’ingressetto buio, il corpo di Useppe giaceva disteso, con le braccia spalancate, come sempre nelle sue cadute. Era tutto vestito, salvo i sandaletti che, non affibbiati, gli erano cascati via dai piedi. Forse, vedendo la bella mattinata di sole, aveva preteso di andarsene pure oggi con Bella alla loro foresta? Era ancora tiepido, e cominciava appena a irrigidirsi; però Ida non volle assolutamente capire la verità. Contro i presagi ricevuti prima dai suoi sensi, adesso, davanti all’impossibile, la sua volontà si tirò indietro, col farglielo credere soltanto caduto (durante quest’ultima ora della propria lotta inaudita col Grande Male, in realtà Useppe, là nell’ingresso, era caduto e ricaduto da un attacco a un altro e a un altro, quasi senza sosta…) E dopo averlo trasportato in braccio sul letto, essa si tenne là china su di lui, come le altre volte, in attesa che lui rialzasse le palpebre in quel suo solito sorriso particolare. Solo in ritardo, incontrando gli occhi di Bella, essa capì. La cagna difatti era lì che stava a guardarla con una malinconia luttuosa, piena di compassione animalesca e anche di commiserazione sovrumana: la quale diceva alla donna: «Ma che aspetti, disgraziata? Non te ne accorgi che non abbiamo più niente, da aspettare?»

Ida provò lo stimolo di urlare; ma ammutolì a un ragionamento immediato: «Se grido, mi sentiranno, e verranno a portarmelo via…» Si protese minacciosa verso la cagna: «Sss…» le bisbigliò, «zitta, non facciamoci sentire da loro…» E dopo aver tirato il catenaccio nell’ingresso, in silenzio prese a correre le sue stanzucce, urtandosi nei mobili e nei muri con tale violenza da farsi dei lividi per il corpo. Si dice che in certi stati cruciali davanti agli uomini ripassino con velocità incredibile tutte le scene della loro vita. Ora nella mente stolida e malcresciuta di quella donnetta mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia umana (la Storia) che essa percepì come le spire multiple di un assassinio interminabile. E oggi l’ultimo assassinato era il suo bastarduccio Useppe. Tutta la Storia e le nazioni della terra s’erano concordate a questo fine: la strage del bambinello Useppe Ramundo. Essa riapprodò nella camera e si sedette sulla sedia vicino al sommier, in compagnia di Bella, a guardare il pischelletto. Ormai, sotto le palpebre schiacciate, gli occhi sembravano infossarglisi nella testa, sempre più a ogni momento che passava; ma pure, fra i suoi ciuffetti in disordine, si riconosceva ancora quel suo unico ciuffetto centrale, che non voleva mai ravviarsi con gli altri e stava lì nel mezzo, dritto… Ida prese a lagnarsi con una voce bassissima, bestiale: non voleva più appartenere alla specie umana. E intanto la sorprese una nuova allucinazione auditiva: tic tic tic si sentiva per tutto il pavimento della casa. Tit tic tic, il passo di Useppe, come lo scorso autunno, quando camminava di continuo su e giù per tutta casa, coi suoi stivalini dopo la morte di Ninnuzzu… Ida prese a dondolare in silenzio la propria testolina imbianchita; e qui le sopravvenne il miracolo. Il sorriso, che oggi aveva aspettato inutilmente sulla faccia di Useppe, spuntò a lei sulla sua propria faccia. Non era molto diverso, a vederlo, da quel sorriso di quiete, e di ingenuità meravigliosa, che le sopraggiungeva, nei giorni dell’infanzia, dopo i suoi attacchi isterici. Ma oggi, non si trattava d’isteria: la ragione, che già da sempre faticava tanto a resistere nel suo cervello incapace e pavido finalmente aveva lasciato dentro di lei la sua presa.

Il giorno dopo sui giornali apparve la notizia di cronaca: Pietoso dramma al quartiere Testaccio - Madre impazzita vegliando il corpo del figlioletto. E in conclusione vi si leggeva: Si è reso necessario abbattere la bestia. Quest’ultimo particolare - facile capirlo - si riferiva alla nostra pastora. Difatti, come si poteva prevedere, Bella sviluppò una ferocia decisa a tutto e sanguinaria, contro gli ignoti che, forzato l’uscio, s’erano introdotti nell’alloggetto di Via Bodoni per eseguire i loro compiti legali. Essa non permetteva assolutamente a costoro di portare via di casa Useppe e Ida. È tempo di notare, a questo punto, che gli animali resi sterili, a quanto si dice, perdono in genere la loro aggressività: però Bella evidentemente, almeno per ora, contraddiceva a questa legge fisiologica. La sua difesa di ieri contro i pirati del fiume non era stata niente in confronto alla sua guerra di oggi contro i nuovi intrusi. Da sola, essa riuscì a far paura a una squadra di nemici, fra i quali almeno un paio erano muniti delle armi di ordinanza. Nessuno ebbe il coraggio di affrontarla direttamente. E così, essa mantenne la parola data a Useppe il giorno del suo ritorno a casa: «Non potranno mai più separarci, in questo mondo».

Al colpo che abbatteva la cagna, Iduzza ebbe un breve sussulto del capo: e questo fu, sembra, l’ultimo stimolo a cui la donna reagì, finché rimase viva. La sua esistenza doveva durare ancora più di nove anni. Nei registri dell’ospedale, dove fu ricoverata quel giorno stesso per non uscirne più fino all’ultimo, il suo decesso è segnato alla data 11 dicembre 1956. Sembra sia morta per complicazioni polmonari in seguito a un comune attacco di febbre. Aveva 53 anni. Dalle notizie che ne ho potuto raccogliere, essa, dal primo all’ultimo giorno, nel corso di quei nove e più anni, si mantenne sempre fissa in un’identica attitudine: la stessa in cui l’avevano trovata quando, sfondato l’ingresso, erano venuti a sorprenderla quel giorno di fine giugno, a Via Bodoni. Stava seduta, con in grembo le mani raccolte, che ogni tanto muoveva intrecciandole come per giocare, e in volto lo stupore luminoso e sperduto di chi si sveglia appena e non riconosce ancora le cose che vede. A parlarle, faceva un sorriso ingenuo e mansueto, pieno di serenità e quasi di gratitudine; ma era vano attendersi da lei qualche risposta, anzi essa sembrava percepire a malapena le voci, senza capire nessun linguaggio, né, forse, distinguere nessuna parola. A volte, con un trasognato mormorio, ripeteva fra sé delle sillabe incerte, che parevano raccolte da qualche idioma onirico o dimenticato. Coi ciechi, coi sordomuti è possibile comunicare; ma con lei, che non era né cieca né sorda né muta, non c’era più comunicazione possibile.

Io credo, invero, che quella piccola figura senile, di cui taluno ricorda ancora il sorriso quieto nei cameroni deliranti dell’O.P., non sia durata nove e più anni se non per gli altri, ossia secondo il tempo degli altri. Uguale al transito di un riflesso che, dal suo punto irrisorio, si moltiplica in altri e altri specchi a distanza, quella che per noi fu una durata di nove anni, per lei fu appena il tempo di una pulsazione. Lei pure, come il famoso Panda Minore della leggenda, stava sospesa in cima a un albero dove le carte temporali non avevano più corso. Essa, in realtà, era morta insieme al suo pischelletto Useppe (al pari dell’altra madre di costui, la pastorella maremmana). Con quel lunedì di giugno 1947, la povera storia di Iduzza Ramundo era finita.