6.
Al mese di ottobre, col nuovo inizio dei corsi, fu riaperta l’antica scuola di Ida, a pochi passi da Via Bodoni. A Ida quest’anno toccava la prima classe, e, non sapendo a chi lasciare Useppe, essa decise di portarselo appresso ogni giorno. Per iscriversi ufficialmente alla scuola, Useppe, invero, non aveva ancora l’età (gli mancava un anno); però Ida, stimandolo, con fiera certezza, più maturo del normale, contava sull’esempio e la compagnia degli altri bambini per invogliarlo, frattanto, a imparare almeno l’alfabeto.
Invece, fino dai primi giorni dovette ricredersi. Dinanzi agli esercizi delle lettere e dei numeri, Useppe adesso, a cinque anni compiuti, si mostrava perfino più immaturo che non fosse stato da piccoletto. Si vedeva che il libro e il quaderno rimanevano, per lui, degli oggetti estranei; e forzarlo pareva un’azione contro natura, come pretendere che un uccellino studiasse le note sul pentagramma. Tutt’al più, se gli si fornivano delle matite colorate, poteva mettersi a tracciare sul foglio delle figure curiose, simili a fiamme, fiori e arabeschi combinati insieme; ma anche di questo gioco si stancava prestissimo. E allora, piantava là il foglio e spargeva in terra le matite con una impazienza capricciosa, intinta di angoscia. Oppure s’interrompeva, come estenuato per lo sforzo, cadendo in una disattenzione trasognata, che lo straniava dalla classe.
Però simili momenti quieti erano rari. Il più del tempo, con grave imbarazzo di sua madre, Useppe teneva una condotta pessima e perfino la sua socievolezza di sempre, qua a scuola, era scomparsa. Tutte le norme della scuola: la clausura, il banco, la disciplina, parevano prove impossibili per lui; e lo spettacolo della scolaresca seduta in fila doveva sembrargli un fenomeno incredibile, poiché non faceva che disturbare i compagni, chiacchierando con loro a gran voce, saltandogli al collo, o colpendoli con qualche pugnetto come per dargli la sveglia da un letargo. Era capace di saltare sui banchi, forse confondendoli con quegli altri banchi famosi dello stanzone di Pietralata; e correva per l’aula con voci selvagge, come se ancora si trovasse fra i Mille a giocare al football agli Indiani. Ma ogni momento poi s’aggrappava a sua madre, ripetendole: «A’ mà, ce n’annàmo? eh? è ora? quando è ora?» Finalmente, alla campanella dell’uscita, si precipitava smanioso, e nel breve percorso a casa non faceva che sollecitare sua madre con urgenza, quasi che là a casa ci fosse qualcuno che aspettava.
Ida credette di indovinare in lui l’apprensione inconfessata che, durante la loro assenza, Nino fosse passato da casa senza trovarci nessuno. Si accorgeva difatti che ogni volta, prima ancora di oltrepassare il portone, lui percorreva con gli occhi ansiosi i due lati della strada, forse in cerca della famosa Gip ammirata già in fotografia; e poi si precipitava ansioso di là dal primo cortile, forse sperando di trovare, in attesa sotto le finestre, la festosa coppia di Nino e Bella. Dopo l’ultimo arrivederci del settembre, i due non avevano più dato loro notizie. E certo Useppe ne risentiva l’assenza più che mai, dopo quegli ultimi tempi fortunati di vita insieme; però, non diceva niente.
Vedendo che l’età di studiare, per lui, non era arrivata, Ida rinunciò a portarselo in classe, e decise di affidarlo, invece, a un asilo infantile, situato nello stesso edificio della sua scuola. Ogni giorno, al suono della campanella d’uscita, essa correva a riprenderselo, ricevendolo, si può dire, dalle braccia stesse della maestra giardiniera. Ma questa nuova prova riuscì anche più disastrosa dell’altra; anzi, all’udire le referenze quotidiane che le dava di lui la maestra, sua madre non riconosceva più, in questo nuovo Useppe, la stessa creatura di prima. Era una mutazione progressiva e rapida, che, dopo i primi segni, andava accelerando il suo ritmo, di giorno in giorno. Inaspettatamente, adesso, Useppe rifuggiva dalla compagnia degli altri bambini. Quando loro cantavano in coro lui taceva, e, invitato a cantare come gli altri, perdeva presto il filo della canzone, distraendosi di continuo a ogni futilità, anche impercettibile. Durante i loro giochi comuni, lui si teneva da parte con una espressione di solitudine inquieta e spersa, come in punizione. Si sarebbe detto che qualcuno, per punizione, avesse interposto fra lui e gli altri un tramezzo semi-opaco, dietro al quale lui pretendeva, quasi per un’ultima difesa, di tenersi nascosto. E se i compagni allora lo invitavano a giocare, si ritraeva con subitanea violenza. Ma di lì a poco lo si poteva trovare accucciato per terra in qualche angolo, che piagnucolava, al modo di un gattuccio di strada abbandonato.
Non c’era modo di seguirlo nei suoi umori, contraddittorii e imprevedibili.
Sembrava negarsi caparbiamente alla società e alla compagnia; però, nell’ora della merenda, se un altro qualsiasi bambino adocchiava il suo biscotto, lui glielo regalava con impeto, facendogli un sorrisetto amico e contento. A volte, mentre se ne stava zitto, lo si sorprendeva col viso lagrimoso, senza nessun motivo. E poi d’un tratto si scatenava in allegrie turbolente e disperate: da sembrare un piccolo africano trascinato via dalla sua foresta nella stiva di una nave negriera.
Non di rado, per la noia sonnecchiava; e se la maestra si provava a sollecitarlo (pure piano piano, con la sua voce più dolce) lui si ridestava in una scossa eccessiva e brutale, come caduto di schianto da un letto alto. Un giorno, a uno di questi risvegli, levandosi trasognato si sbottonò i calzoncini e pisciò nel mezzo della classe: lui, ragazzetto di oltre cinque anni, fra i più anziani della scolaresca.
A dargli da fare dei giochi d’attenzione, quali le costruzioni o simili, da principio ci si metteva con qualche interesse; però, assai prima d’arrivare alla conclusione, d’improvviso buttava tutto all’aria. Un giorno, nel mezzo di un tale gioco, ruppe in singulti, però muti e faticosi, che tentavano di sfogarsi in un suono e parevano soffocarlo; finché, sciogliendosi, gli si sfogarono in un pianto urlato, di rivolta dolorosa intollerabile.
Mentre la maestra così discorreva di lui con Ida, Useppe stava là vicino con gli occhi grandi e meravigliati, come se lui stesso non riconoscesse quel bambino strano; e tuttavia sembrava dire: «non so perché mi succede questo, non è mia colpa, e nessuno può darmi aiuto…» Frattanto si dava a tirare la veste di Ida, per sollecitarla a rincasare. E appena finito il colloquio, balzava via, secondo il solito, in una corsa impaziente verso Via Bodoni, tenuto a fatica per mano da sua madre: quasi che in loro assenza, là a Via Bodoni, potesse avverarsi la minaccia di un evento misterioso, e inconcepibile.
Da principio, la maestra assicurava Ida che il suo bambino si abituerebbe meglio alla scuola, col passare dei giorni; ma invece, il suo stato di ansietà peggiorava. Alla mattina, in realtà, usciva con Ida spensierato, forse non ricordando la sua prova quotidiana, e convinto di andare a spasso! Ma all’apparizione della scuola, Ida sentiva la sua manina contrarsi, in una resistenza ancora confusa, mentre i suoi occhi cercavano in lei qualche difesa contro l’oppressione incerta che lo scacciava di là. Era uno strazio, per lei, lasciarlo solo in quel modo. E lui restava là annuvolato, senza ribellarsi, anzi facendole il suo solito addio con la manuccia. Però non era trascorsa nemmeno una settimana dal suo primo ingresso nell’asilo, quando incominciò la serie delle sue fughe.
Nell’ora di ricreazione in cortile, bastava una minima distrazione della maestra perché lui tentasse di scapparsene via. La maestra era una ragazza sui trent’anni, che portava gli occhiali e i capelli lunghi a treccia. Nel suo compito, era molto seria e impegnata, non perdeva mai d’occhio i suoi diciotto allievi, e durante l’uscita in cortile li contava e ricontava, badando a tenerseli intorno come una chioccia. A questo, si aggiunga la presenza del portiere, il quale stava sempre di guardia nell’atrio d’ingresso, che dal cortile portava sul cancello di strada. La maestra non si capacitava che Useppe con tutto ciò riuscisse a svignarsela, pronto all’occasione quasi non aspettasse nient’altro. Ci si voltava un attimo, e lui era dileguato.
Il più delle volte, almeno da principio, non era arrivato lontano: lo si trovava appena di là dall’ingresso verso l’interno, nascosto in un sottoscala o dietro una colonna. E alle domande non mentiva né tentava pretesti, ma diceva senz’altro, con una amara espressione di pànico: «Me ne voio annà!» Però una mattina non si riusciva a scovarlo; e dopo una lunga caccia fu riportato alla maestra da una bidella che lo aveva trovato errante per i corridoi di un altro piano, in cerca di un passaggio non sorvegliato verso l’uscita. Per lui l’edificio della scuola, con tutte quelle porte chiuse e quelle scale e quei piani, doveva essere un labirinto sterminato; ma venne un giorno che lui ne trovò il filo. E Ida se lo vide arrivare in classe, nel suo grembiuletto turchino e cravattino a fiocco, che accorreva a lei piangendo e le si aggrappava addosso in un gran tremito. E là volle restare vicino a lei per il resto della mattina (essa agitata ne mandò pronto avviso alla maestra) seguitando a tremare come una rondine migrante sorpresa dall’inverno.
Ma la sua peggiore impresa fu il giorno successivo. Stavolta, malgrado la vigilanza del guardiano d’ingresso, non si sa come era riuscito a prendere la via di strada (era forse la prima volta nella sua vita che scorrazzava per le vie di città da solo) e fu riportato indietro dalla portinaia di Via Bodoni.
Costei era una vedova di oltre settant’anni, nonna di molti nipoti ormai grandi, la quale attualmente viveva sola nella sua portineria-abitazione (composta in tutto e per tutto della guardiòla e di un annesso stambugio senza finestre, col letto per dormire). Essa aveva visto Useppe passare davanti alla guardiola, solo e senza il cappotto, col grembiule dell’asilo; e insospettita era uscita nell’atrio a richiamarlo. Per solito Useppe si fermava sempre con interesse davanti al vetro della guardiola perché di là, nello stambugio, la vecchia teneva una radio, un fornelletto «come Eppetondo» e un uovo di vetro con dentro la Madonna di Lourdes su un prato di neve (a scuotere l’uovo, la neve si alzava in tanti fiocchi bianchi). Ma oggi, aveva tirato via senza fermarsi. Era trafelato, smarrito, e alle insistenze della donna borbottò che «andava su a casa» (però non aveva le chiavi) aggiungendo un discorso sballato e confusionario riguardo a «qualcosa» «che l’acchiappava» «e agli altri bambini no»… Frattanto inquieto si portava le mani alla testa, come se quella «cosa» innominata fosse là dentro… «Che forse tieni male alla testa?» «No no male…»
«E se non è male, che altro è? dei pensieri?!» «No no pensieri…» Useppe seguitava a fare di no affannosamente, e senza spiegarsi; però piano piano, dopo il grande affanno, andava riprendendo il suo colore naturale: «Lo sai che ci tieni tu, qua in testa?» aveva concluso allora la portinaia, «te lo dico io! Un grillo! ecco che cosa ci tieni!» E lui d’un tratto, dimenticandosi il grande affanno, aveva incominciato a ridere, per quella buffa idea della vecchiarella: di un grillo dentro una testa. Poi docilmente s’era lasciato riaccompagnare all’asilo.
La sua fuga non era durata più di un quarto d’ora; ma frattanto, già un paio di bidelli erano stati sguinzagliati alla sua ricerca, mentre la maestra badava agli altri alunni, tuttora in ricreazione nel cortile. Ogni momento, innervosita, essa si affacciava a riguardare verso l’interno dell’edificio, o di là dall’atrio d’ingresso, verso il cancello di strada. E fu da questa parte che vide rispuntare il fuggitivo, tenuto per mano da una vecchietta, la quale frattanto si adoperava a distrarlo fornendogli notizie sui grilli canterini.
Per quanto esasperata, la maestrina non aveva certo la volontà di maltrattarlo (né alcuno invero, da quando era nato, lo aveva maltrattato mai). Lo accolse anzi abbastanza calma, e con piglio appena risentito, aggrottandosi, gli disse:
«Ci risiamo! che hai fatto?! dovresti vergognarti, di dare agli altri questi brutti esempi. Però adesso basta. Da oggi, la scuola è chiusa, per te».
La reazione di Useppe a queste sue parole fu inaspettata, e quasi tragica. Senza rispondere si scolorò in faccia, mentre si rivolgeva a lei con gli occhi interroganti, tutto agitato da una strana paura: non di lei, ma piuttosto (pareva) di se stesso. «No! via! via!» gridò poi con una vocina straniata, come scacciasse delle ombre. E improvvisamente ruppe in una scenata non diversa, in apparenza, da un capriccio comune: buttandosi in terra congestionato dalla collera, a inveire e rotolarsi come un lottatore, con calci e pugni all’aria. Però, usualmente, certi capricci infantili tendono, in fondo, a dare spettacolo; mentre che qui si avvertiva un isolamento totale. Si aveva l’impressione che quel bambinello, nella sua piccolezza, davvero consumasse una zuffa immensa contro nemici presenti a lui solo, e a nessun altro.
«Useppe Useppe! ma perché fai così? Sei tanto bravo e bello! e noi tutti qua ti vogliamo bene…» Piano piano, Useppe andava placandosi, fra queste lusinghe della maestra, finché le fece un sorrisetto consolato; e da quel punto, fino all’ora dell’uscita, non si staccò più dalle sue sottane. Però all’uscita la maestrina informò Ida, in disparte, che il bambino era troppo nervoso e, per adesso almeno, disadatto alla scuola: così che lei non poteva più assumersi la responsabilità di tenerlo. Il suo consiglio era di lasciarlo a casa, affidato a qualche persona di fiducia, finché non raggiungesse l’età scolastica, di qui a un anno.
E Useppe la mattina dopo non andò a scuola. In contraddizione con se stesso, fino all’ultimo momento seguiva Ida per casa e la interrogava con occhi parlanti, nella speranza malsicura di uscire assieme, come le altre mattine. Però non fece domande, né disse nulla.
Secondo l’opinione della portinaia, il caso di Useppe era quello semplicemente di un ragazzino troppo vispo, con sempre addosso la voglia di combinare qualche guaio senza farsene accorgere dalla scuola. Però Ida non era d’accordo: che Useppe si tenesse per sé certi segreti suoi (come, per esempio, dopo quella sua famosa mattinata coi banditi) essa lo sapeva; ma erano, secondo lei, segreti di un altro ordine, chi sa quali. A ogni modo, le pareva inutile d’interrogarlo (o tanto meno di accusarlo).
Sprovveduta com’era di ogni risorsa, essa non trovò altro rimedio che di lasciarlo solo dentro casa, chiudendo con doppia chiave l’uscio d’ingresso. E nell’affidare un duplicato delle chiavi alla portinaia, la pregò di salire a vederlo almeno una volta sul tardi ogni mattina. In cambio di questo suo servizio, essa darebbe lezioni private a una sua nipote, che visitava la nonna quasi tutti i giorni.
Così di nuovo Useppe doveva passare le sue mattinate in carcere, come già da neonato a San Lorenzo. Timorosa che, affacciandosi, cadesse di sotto, sua madre provvide perfino a sbarrare con dei ganci le finestre in alto (dove lui non arrivava, invero, nemmeno montando in piedi su un tavolino). Per fortuna, veniva ormai l’inverno, quando le tentazioni d’uscire o d’affacciarsi calano di peso. Ida, alla nuova occorrenza, affrontò pure varie spese straordinarie. Anzitutto, fece domanda di un telefono che però, a motivo di «difficoltà tecniche» le fu promesso per il febbraio-marzo del ’47, non prima. E inoltre, ricordando quanto Useppe godeva le musiche a Pietralata, per distrarlo dalla solitudine gli comperò al mercato un fonografo a manovella quasi nuovo. Dapprincipio aveva pensato a una radio, ma poi ne fece a meno, presa dal dubbio che, andando sui programmi adulti, lui ne imparasse delle brutture.
Il fonografo glielo corredò di un disco, scelto da lei stessa in una serie per bambini. Era di quelli allora in uso, a 78 giri. E portava incise due filastrocche musicate, di tipo famiglia: La bella lavanderina e Quant’è bella la bambola mia. Questa seconda, una sorta di madrigale in onore di una bambola, ne concludeva le lodi coi versi:
Pare proprio la nostra regina
quando passa in carrozza col re.
La vecchia portinaia, per quanto vispa, si affaticava troppo alla salita dell’ultimo piano, così che inviava su a preferenza la nipote, la quale spesso si trovava in Via Bodoni per aiutarla. Il nome di costei era Maddalena, però da Useppe veniva chiamata Lena-Lena. Non di rado, alla mattina presto, la si incontrava per le scale, intenta a dare una lavata frettolosa ai gradini con uno straccio bagnato; oppure la si vedeva seduta nella guardiola, in sostituzione momentanea della nonna. Però lo stare lì ferma era un sacrificio per lei, che preferiva il movimento; e non le dispiaceva affatto, alla mattina, di correre su da Useppe. Era una ragazzetta sui quattordici anni, la quale in famiglia veniva tenuta per solito assai rinchiusa; e abitava non lontano, a San Saba, arrivata dall’interno della Sardegna. Aveva una forma tondetta, con le gambe assai corte, anch’esse tonde; e una chioma nera, crespa e smisurata, che le cresceva tutta in su, compensando la sua statura piccolissima, e facendola somigliare a un riccio di campagna (ossia porcospino). Essa parlava un linguaggio incomprensibile, tutto a u, che pareva estero; tuttavia, con Useppe, riuscivano a intendersi alla meglio. Lui le faceva ascoltare il suo disco, e in cambio lei gli cantava con una voce agra e acutissima delle nenie di Sardegna, tutte a u, delle quali lui non capiva nessuna parola; ma pure appena finite le diceva «ancora!» come alle canzoni calabresi di Ida.
Certi giorni, Lena-Lena, comandata per altri servizi, non poteva venire; e al suo posto veniva la vecchia portinaia, la quale, dopo avere arrancato su su per tutte quelle scale, doveva presto ritornare dabbasso, per non lasciare abbandonata la portineria. Essa capitava a preferenza la mattina piuttosto presto, quando Useppe dormiva ancora, e dopo avergli dato un’occhiata se ne andava via senza svegliarlo. Succedeva allora che Useppe, alla sua levata, aspettasse invano qualche visita; e in questi casi durante la mattinata, dal basso del cortile, si poteva scorgere lassù dietro i vetri la sua sagoma intenta a spiare se finalmente apparisse dal cortile Lena-Lena. Se poi seguitasse tuttora a sperare anche nell’arrivo di qualcun altro, non si sa. D’abitudine poi, suonato mezzogiorno, io si scorgeva di nuovo al suo posto di vedetta, in attesa di Ida.
In generale, i giorni che poteva, Lena-Lena saliva a trovarlo fra le dieci e le undici, quando lui s’era alzato da poco. Da qualche tempo, si svegliava più tardi, perché Ida, dopo un’interruzione di molti mesi, aveva ricominciato a dargli, alla sera, il calmante già prescritto dalla dottoressa. Difatti, dopo la parentesi della buona stagione, le sue notti erano di nuovo inquiete; anzi attualmente, fra le sue turbe notturne, ce n’era una in particolare che resisteva anche all’effetto della medicina. Era una convulsione di poca durata, ma di una certa violenza, che lo sorprendeva di regola non appena addormentato: quasi che l’oggetto indefinito della sua ambascia lo aspettasse immediatamente di là dalla barriera del sonno. Anche i suoi tratti manifestavano lo stupore, e il rifiuto, di chi si ritrova a un incontro pauroso: durante il quale tuttavia lui seguitava a dormire senza poi serbarne ricordo. E Ida ogni sera, all’erta accanto a lui, lo vegliava a quella sorta di appuntamento, che lo attendeva all’insaputa di lui stesso, con una puntualità fissa e meccanica.
La dottoressa, consultata nuovamente, gli prescrisse una cura di calcio, uova, latte e passeggiate all’aria aperta: «Questo ragazzo», osservò, «cresce poco». E difatti, nel corso dell’estate, Useppe s’era alzato di qualche centimetro nella statura, ma non era aumentato di peso. La dottoressa, per visitarlo, lo aveva fatto spogliare, e nella nudità il suo piccolo corpo bruno mostrava l’ossatura dello sterno e delle spallucce fragili, su cui la sua testolina si ergeva tuttavia con quella spavalderia speciale di maschietto che di natura gli era propria. Fra l’altro, la dottoressa lo invitò a mostrarle i denti, opinando che i suoi presenti disturbi nervosi preludessero, forse, alla seconda dentizione, che in certi casi, disse, provoca una vera crisi dell’età. E lui pronto spalancò la bocca, pulita e rosea come quella dei gattini di un mese, fra la dentatura minuta in cui si riconosceva il nitore azzurrognolo che è proprio ai denti di latte. Ida, mirandoli, ripensò a quanto lui era stato valoroso a farseli spuntare tutti regolari, in piena guerra, senza dar noia a nessuno.
«Il primo dente che ti cascherà», gli disse seria la dottoressa, «ricordati di nasconderlo in qualche ripostiglio di casa, per quando passerà la Sora Pasquetta, che è una parente della Befana, e al posto del dente ti ci lascerà un regalo». Per lui, da quando era nato, non c’erano state mai né Befane, né Babbi Natali, né maghi o fate o simili; però aveva qualche sentore della loro esistenza. «E come farà, per entrarci?» s’informò, attento. «Entrarci, dove?»
«Eh dove! a casa nostra!» «Non preoccuparti, essa fa come la Befana, entra per il camino!» «Eh… ma il camino nostro è stretto… però lei ci passa, eh? lei si fa piccola!» «Certo!» confermò la dottoressa, «lei si restringe, si allarga, passa dove vuole!» «Pure da un tubo così?» (Useppe, con le dita allargate a cerchio, mostrò più o meno la misura del camino di Via Bodoni). «Garantito! Ci puoi contare!» E Useppe sorrise, rassicurato e trionfante a una garanzia tanto autorevole.
* * *
Il giorno che riscosse lo stipendio di Novembre, Ida andò a comperargli un altro disco per il fonografo. Ricordandosi del suo gusto per i ballabili a Pietralata, si consigliò peritosa col venditore, che le fornì una produzione swing, ultramoderna. E questa novità lì per lì ebbe un grande successo a casa, dove la Lavanderina e la Bambola mia furono senz’altro relegate fra i rifiuti. Il fonografo da oggi serviva solo per la nuova musica; e Useppe, com’era da aspettarsi, subito alle prime note ci si mise a ballare.
Però, anche questo ballo doveva segnarsi come un sintomo del processo di quei giorni. Non c’erano più gli zompi, le capriole e le improvvisazioni diverse con le quali il nostro ballerino si esibiva a Pietralata fra gli amici. Adesso, il suo corpo eseguiva un unico movimento di rotazione intorno a se stesso, al quale partiva con le braccia aperte, fino a un ritmo invasato e quasi spasmodico che pareva annientarlo. In certi casi, non cessava da questa ridda se non al punto dell’accecamento e della vertigine; e allora ricascava a riposarsi addosso a sua madre, ripetendo esausto ma beato: «tutto gira, tutto gira, a’ mà…» Oppure, in altri casi, a un certo punto, senza rompere la ruota del suo ballo, ne rallentava il ritmo; e allora il suo corpo, girando, s’inclinava su un lato, con le due braccia buttate dallo stesso lato in abbandono, e sulla faccetta un’espressione buffa, fra di divertimento e di sogno.
Questi suoni e balli si svolgevano nella cucina - che era l’unico soggiorno della casa - e più volentieri nell’ora che Ida cucinava («per farle compagni»). Ma il successo del nuovo passatempo fu invero effimero. Il terzo giorno (era domenica mattina) Useppe, caricato energicamente il fonografo, sul punto di mettere in moto il disco ci rinunciò. Era rimasto lì bloccato in un’aria assorta o perplessa, e faceva certi piccoli movimenti con la mandibola, come masticasse qualcosa di amaro. Quasi in cerca di una scappatoia, si ritrasse nell’angolo presso l’acquaio, e là in disparte si fuorviò in un balbettio confuso, nel quale Ida, non senza stupore, distinse tuttavia chiaro il nome CARULINA. Dai giorni del loro addio, quando ancora la chiamava Ulì, Useppe non aveva più rammentato colei nei discorsi, e forse, da sempre, era questa la prima volta che ne articolava il nome preciso e intero (anzi arrotandone con forza la R, nell’impegno di pronunciarla giusta). Però simile reminiscenza appena balenata, sembrò cadergli. E con voce diversa e gridata si rivolse a Ida:
«Mà? Mààà?…»
Era un’interrogazione stupefatta, ma anche una protesta di aiuto contro qualche astrusa aggressione. Allora una brusca impulsione lo agitò; e inaspettatamente andò a strappare dal grammofono il suo prezioso disco swing e lo scagliò a terra. Era congestionato in volto, e fremeva; e dopo che il disco si fu spaccato sul pavimento, si mise perfino a pestarlo coi piedi. Ma rapidamente, in quest’atto, si scaricò della sua rabbia informe: e riguardò in terra, con lo sbigottimento di chi scopre un delitto commesso da altri. S’accucciò davanti ai rottami del suo disco, e in un pianto lamentevole e tenero, che pareva un vagito, tentava di riattaccarli insieme!
Ida si fece subito a offrirgli un disco nuovo per domani stesso (fosse stata milionaria, era pronta a pagargli un’orchestra intera); ma lui la respinse da sé, quasi picchiandola: «No! no! non voio!» gridò. Poi, levandosi, nello stesso amaro atto di rifiuto allontanò i rottami col piede; e mentre lei li raccattava, e li versava nella spazzatura, per non guardare più si portò i pugni sugli occhi.
Sua madre era stretta dal sentimento penoso che in fondo a questo disordine stravagante, che lo sbatteva senza oggetto da una parte all’altra, dentro di lui si attorcigliasse un qualche nodo cruciale, che nessuno poteva sciogliere, né trovarne i capi, e lui meno di tutti. Senza pace, adesso era andato alla finestra, a scrutare dalla sua consueta vedetta nel cortile; e anche da dietro, a guardargli la fossetta della nuca magra fra i ciuffetti in disordine, sembrava di scorgere l’espressione preoccupata del suo viso. Che in lui covasse l’eterna aspettazione del fratello, era indubbio per Ida (né era un fatto nuovo davvero). Ma poiché, nel suo nuovo stato morboso, lui taceva questo punto delusorio, Ida evitava di richiamarglielo, come fosse tabù.
«…Che, non viene, oggi, Lena-Lena?»
«Eh no, oggi è domenica. Ci sto io, qui a casa. Non sei contento?»
«Sì».
In uno dei suoi mutamenti d’umore imprevisti, le corse vicino, e le baciò il vestito. Però nei suoi festanti occhi levati, già spuntava la prossima domanda inquieta:
«Tu… mica parti, a’ mà?»
«Io! Partire! MAI! MAI, MAI lo lascio, io, il mio Useppe!» L’omettino trasse un sospiro, fra di soddisfazione e di dubbio irrisolto. E le sue pupille si stornavano, frattanto, dietro al fumo della pentola che saliva su verso il camino:
«E quando arriva, quella?» s’informò accigliato.
«Chi quella?» (essa immaginò che intendesse ancora Lena-Lena, o forse Carulina).
«Quella signora che scegne dal camino, a’ mà! la parente della befana! non hai sentito che la dottoressa lo diceva?»
«…ah già… Ma non ricordi come ti disse? bisogna aspettare che ti spunti il primo dente nuovo. Quando ti accorgi che uno di questi due qua incomincia a dondolare, è segno che fra poco cade, e quella viene a pigliarselo».
Useppe si toccava gli incisivi col dito, curioso se, per caso, non dondolassero.
«Eh, ancora è presto», fu pronta a spiegargli sua madre, «ancora non hai l’età. Forse, fra un anno».
«… … …»
Si sentì nell’alto uno scampanio che preannunciava mezzogiorno. La mattina
domenicale era nuvolosa, ma tiepida. Attraverso la finestra chiusa, arrivava dal cortile il vocio dei ragazzini del caseggiato che pazziavano, in attesa d’essere chiamati dalle loro madri per il pranzo. Ida sarebbe stata contenta di riconoscere, fra le altre voci, quella del suo Useppe, come le succedeva al tempo che stava dietro la tenda nello stanzone. E più di una volta aveva ripetuto il tentativo di mandarlo giù in cortile, a giocare assieme agli altri. Ma sempre, a spiarlo, un poco più tardi, dalla finestra, lo aveva scorto laggiù in qualche angolo di muro che se ne stava solo solo in disparte, così che, dall’alto, le dava l’impressione proprio di un misero trovatello, escluso dalla società. «Useppe!» lo aveva chiamato allora, impulsivamente, spalancando la finestra. E lui, levato il viso verso di lei, s’era staccato in un volo dal cortile, per correre da lei su a casa. Come già coi suoi compagni di scuola, invero, così pure adesso era lui medesimo che si segregava dagli altri (e a qualche suo gesto di mettere avanti la mano quasi a scansarli, o di trarsi indietro guardandoli con grandi occhi amari, suggeriva addirittura l’immagine d’un essere elementare che sentendosi nel sangue un qualche germe virulento voglia preservare gli altri dal contagio).
Dopo il consiglio della dottoressa, di tenerlo all’aria aperta, nelle giornate di tempo buono Ida attualmente lo portava sempre a passeggio, o verso Monte Testaccio, o verso l’Aventino, oppure, evitando di affaticarlo troppo, in qualche giardinetto pubblico nei dintorni di casa. E anche qui, dovunque si trovasse, Useppe si teneva lontano dagli altri ragazzetti e dai loro divertimenti. Se uno di loro gli diceva: «vuoi giocare?» lui scappava via senza nessuna spiegazione, riparandosi presso sua madre come un selvaggio nella propria capanna.
Eppure, a certe occhiate che dava, non aveva l’aria di un misantropo. E mentre si appartava dalle compagnie, volgeva ogni tanto, in direzione degli altri, un sorrisetto istintivo, che involontariamente offriva e chiedeva amicizia. Di sotto ai calzoncini corti, i ginocchi gli sporgevano più grossi del dovuto in confronto alla magrezza delle gambe; ma lui con quelle sue gambucce faceva per proprio conto dei grandi salti sportivi, che mostravano quant’era bravo. C’era, nella sua persona, qualcosa di umoristico che faceva sorridere la gente, rendendolo abbastanza popolare fra quel piccolo pubblico dei giardini. Le donne e donnette lo complimentavano per il contrasto degli occhi celesti con la pelle moretta e i capelli neri, che a Roma è considerato una bellezza di prima qualità; però, attribuendogli un’età massima di tre o quattro anni, all’udire che ne aveva cinque compiuti commentavano in coro la sua piccolezza, fino a che Ida, angustiata e trepidante, si faceva a ripararlo dai loro giudizi indiscreti.
Ma questi, invero, così come alle lodi, Useppe rimaneva del tutto estraneo, e inconsapevole, come un cucciolo ingabbiato in una fiera. Forse, anzi, nemmeno li ascoltava e difatti, anche se stava zitto, i suoi due orecchi sporgenti affacciati di qua e di là dalla scopoletta, erano sempre tesi ai rumori svariati del mondo, che a momenti lo travolgevano in un unico inno febbrile. Ogni minimo evento distraeva i suoi sguardi; o altrimenti se ne stava quieto, con gli occhi assorti, come se la sua mente si allontanasse. Ma non di rado uno speciale tripudio gli faceva fremere tutti i muscoli, accendendogli le pupille d’un’allegria avventata, confusa di nostalgie… Era quando vedeva un cane: di qualsiasi classe, padronale o di nessuno, e fosse anche bruttissimo, storto o rognoso.
Per quanto, in verità, poco disposta all’idea d’aumentarsi la famiglia, Ida non seppe resistere allo spettacolo; e un bel giorno, di ritorno da una passeggiata, finì a chiedergli se non volesse un cagnolino tutto per sé. Ma Useppe le si volse con la faccia rimescolata dall’amarezza, facendo no e no con furioso accanimento. La sua recusazione si manifestava irreparabile ma faticosa; come se gliela impigliasse quel misterioso nodo cruciale, che da più settimane ormai lo travagliava senza spiegarsi. Alla fine, in una specie di grido senza fiato, che somigliava a un singulto, gli uscirono le parole:
«Pure Bella… come Biz!»
E questo lasciò capire a Ida che il suo ragazzino si negava addirittura a un bene promesso, per terrore di perderlo! Essa ne risentì un urto eccessivo, con la sensazione strana, avvertita oggi per la prima volta, di una presenza fisica: come se là nella loro stanza si fosse insediato un Orco, a minacciare Useppe con tante bocche e tante mani. Ma ancora più strano le fu riudire da lui, dopo anni di silenzio, il nome di quel Blitz che essa credeva scancellato dalla sua memoria, come càpita ai diversi eroi delle preistorie infantili, che rimangono fuori del tempo. Sembrava invero che in questo autunno del ‘46 tutti i ricordi della sua piccolissima vita rincorressero lo smemorato Useppe, fiutando il punto nascosto del suo male. «Ma che, Bella come Blitz!» lo canzonò Ida. E senza esitare, stavolta, a rompere il tabù, lo accertò che Bella si trovava sana e salva, in compagnia di Ninnuzzu, né avrebbero tardato molto a farsi rivedere a casa, secondo la loro abitudine! A simile notizia, garante Iduzza, Useppe rise rincuorato. E i due, ridendo assieme come innamorati, per il momento cacciarono via l’Orco dalla stanza.
Ma non bastava. Per compensare Useppe del cagnolino respinto, la mattina seguente (Domenica) Ida se lo portò al nuovo mercato di Porta Portese, dove gli comperò un mongòmeri: ossia uno speciale cappotto (per chi non lo sapesse) lanciato allora di moda dal Generale Montgòmery che lo portava in battaglia. Quello di Useppe ne era una imitazione italiana, anzi romana; e sebbene di misura minima, gli stava piuttosto largo di spalle e lungo di manica. Però lui fu subito smanioso di metterselo addosso, e senz’altro ci prese un passo ardito, come se dentro a quel mongòmeri ci si sentisse un fusto, per non dire un Generale.