2.
Dopo quella visita dell’oste Remo, la notte stessa mentre tutti dormivano, Ida dietro la sua tenda, a lume di candela, scucì nel punto indicato il materasso, badando a non destare Useppe che ci stava sopra addormentato. Frugando fra la lana, ne scovò fuori un malloppetto di dieci biglietti da mille lire, che per lei, specie in quel momento, rappresentavano una fortuna enorme. E subito se li ripose nella solita vecchia calza, che ricollocò al sicuro, al posto di prima. La notte, per sua tranquillità, essa stendeva il suo prezioso busto fra un materasso e l’altro; ma questo certo non bastava a garantirla contro le mosse dei suoi coabitanti sfollati, i quali tutti le facevano effetto di ladri e assassini, tenendola sotto la loro paura. Adesso, le veniva una certa nostalgia dei Mille, i quali, pure se la tribolavano coi rumori, in compenso volevano bene a Useppe. Ignorandone la sorte in seguito alle recenti distruzioni dei Castelli, essa, però, li rivedeva adesso in un aspetto ambiguo, fra la forma dei vivi e quella dei fantasmi. E un soffio di pànico, più forte della nostalgia, le tagliava la gola nell’attraversare lo stanzone, tuttora percorso dalle loro larve incerte - e invaso attualmente da maschere mutanti e malfide - e dove, ultimo punto di squallore, l’angolo già del Matto veniva usurpato da estranei, senza più nessun ricordo di lui fuorché la gabbia dei canarini vuota. Per quanto, lui vivo, essa non gli avesse mai rivolto più di due o tre parole («scusi tanto»… «non si disturbi»… «grazie»…) adesso la angosciava l’ingiustizia di quel corpicino arzillo impedito di scorrazzare e darsi da fare, col suo cappello in testa. E invero sarebbe stata contenta di vederlo tornare nello stanzone, a dirle che la storia della sua morte era una fandonia, pure se ciò la obbligava, di conseguenza, a restituirgli le diecimila lire.
Queste poi, fra gli altri vantaggi, la aiutarono a scappare dallo stanzone. Erano giorni, evidentemente, che una fortuna la assisteva. Alla Cassa Stipendi, dove si recò, secondo il solito, a ritirare il mensile, s’incontrò stavolta con una sua collega anziana. La quale, al vederla così spersa, le propose un trasloco pronto e conveniente. Essa sapeva che la famiglia di un suo alunno della scuola serale, si disponeva, per bisogno, a subaffittare la cameretta di lui, partito nel ‘42 per il fronte russo. Il prezzo era minimo, perché la madre non voleva sgomberare la stanza del ragazzo, ma lasciargliela intatta, con tutta la sua roba a posto, fino al suo ritorno: così che in pratica l’affitto si riduceva al letto. Però la cameretta era assolata, pulita, con aggiunto l’uso di cucina. E di lì a tre giorni Ida e Useppe dettero l’addio a Pietralata. Il loro fu, stavolta, un trasloco vero e proprio, col carretto, perché, in aggiunta al fagottello dell’olio, cicerchi e candele, si portarono dietro anche l’eredità di Eppetondo: materasso di vera lana e gabbia vuota dei Peppinielli.
Un altro vantaggio della nuova abitazione era di trovarsi in via Mastro Giorgio, al Testaccio, a pochi passi dalla scuola di Ida e di quella sua collega anziana. Presentemente, invero, l’edificio della scuola era requisito per usi militari, e le lezioni si davano in altri locali al Gianicolense: però la distanza fino al Gianicolense, dal Testaccio, non era insuperabile come già da Pietralata. E così Ida poté ottenere di riprendere il suo lavoro d’insegnante. E per lei fu una grazia speciale, in quei giorni: giacché l’esilio dalla scuola si andava intorcinando, nelle sue paure, con la sua colpa razziale.
E tuttavia le pareva quasi impossibile che il vizio del suo sangue misto, adesso che era pure denunciato sulle ordinanze, e sorvegliato dalle questure, non le si leggesse in viso. Se uno dei suoi scolari alzava la manuccia per fare una domanda, essa sussultava e arrossiva, nel dubbio che la domanda fosse: «È vero, signora maestra, che tu sei mezza ebrea?» Se da fuori bussavano all’uscio dell’aula, essa si sentiva già tramortire, aspettandosi una visita della polizia, o quanto meno una chiamata del direttore per comunicarle che da oggi era dispensata dalle lezioni, eccetera eccetera.
Il Testaccio non era un quartiere di periferia come San Lorenzo. Benché abitato anch’esso, in prevalenza, dal ceto operaio e popolare, solo poche strade lo separavano dai quartieri borghesi. E i Tedeschi, che di rado frequentavano Pietralata e il Tiburtino, qua s’incontravano più numerosi. La loro presenza trasformava, per Ida, il percorso quotidiano in una pista rotante dove lei stessa, bersaglio irrisorio, era segnalata da fari, seguita da passi di ferro, accerchiata da segnali uncinati. Di nuovo, come già una volta, i Tedeschi le parevano tutti uguali. Finalmente aveva rinunciato all’ansia chimerica di riconoscere forse un giorno o l’altro, sotto uno di quegli elmetti o berretti a visiera, i disperati occhi celesti che l’avevano visitata a San Lorenzo nel gennaio del 1941. Oramai questi soldati le si mostravano tutti quanti delle copie invariabili di un meccanismo supremo giudicante e persecutorio. I loro occhi erano dei proiettori, e le loro bocche dei megafoni preparati a gridare ad altissima voce sulle piazze e sulle strade: Addosso alla meticcia!
Dal suo nuovo quartiere, una distanza di poche centinaia di metri la separava dal Ghetto. Ma essa, nei suoi ritorni quotidiani, evitava sempre il passaggio di Ponte Garibaldi, oltre al quale si poteva scorgere la forma tozza della Sinagoga, che le faceva torcere lo sguardo, con un senso di peso alle gambe. Riposto nella sua borsa, c’era sempre quel biglietto che essa aveva raccolto dal treno dei deportati alla Stazione Tiburtina, senza più curarsi di cercarne il destinatario. Si sapeva che gli Ebrei superstiti del Ghetto, sfuggiti per caso alla razzia del 16 ottobre, erano tornati quasi tutti alle loro case di qua dal Tevere, non avendo altro posto dove andare. Un sopravvissuto, parlandone in séguito, li paragonava agli animali segnati, che si affidano docili al recinto del macello, facendosi caldo coi fiati l’uno all’altro. E questa loro fiducia li fa giudicare incoscienti; ma il giudizio degli estranei (notava colui) non è spesso insulso?
Ida aveva paura di quel piccolo quartiere assediato: e tanto più a motivo di un suo dubbio che fra i superstiti tornati nel quartiere ci si potesse trovare la signora Celeste Di Segni. Essa non sapeva, infatti, se quel lunedì 18 ottobre costei fosse poi stata ammessa alla partenza sul convoglio, o se invece, esclusa, fosse rimasta a Roma. E ripensando che quella mattina, sulla via della
Stazione, pazzamente le aveva bisbigliato all’orecchio: Io pure sono ebrea, da allora paventava un incontro con lei peggio d’uno spauracchio. Quel piccolo bisbiglio attualmente le tornava addosso in un torvo rimbombo, come un’autoaccusa insana.
In realtà, la testimone che lei temeva aveva invece ottenuto, quel lunedì mattina, di partire assieme agli altri giudii. E solo dopo la fine della guerra si seppe il séguito e la conclusione di quella partenza:
La marcia del treno piombato fu lentissima: i prigionieri stavano là dentro da cinque giorni quando, nell’alba del sabato, sbarcarono al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, dove erano destinati. Non tutti però arrivarono vivi: e questa fu una prima selezione. Fra i più deboli, che non avevano resistito alla prova della traversata, c’era una nuora incinta dei Di Segni.
Dei vivi, soltanto una minoranza di circa 200 individui fu valutata idonea per servire nel campo. Tutti gli altri, in numero di circa 850, sùbito all’arrivo furono mandati a morte inconsapevoli nelle camere a gas. Oltre ai malati, ai minorati, e ai meno robusti, in questo numero si comprendevano tutti, in totale, i vecchi, i ragazzetti, i bambini e gli infanti. Fra di loro c’erano Settimio e Celeste Di Segni, insieme coi loro nipoti Manuele, Esterina e Angelino. E c’era pure, di nostra conoscenza (insieme con la merciaia Signora Sonnino e con l’autore del messaggio a «Efrati Pacificho»), l’omonima di Iduzza: Ida Di Capua, ossia la levatrice Ezechiele.
Per i rimanenti 200, serbati alla vita del campo in quel sabato dell’arrivo, il viaggio, incominciato il 16 ottobre ‘43, ebbe durate diverse a seconda della resistenza. Alla fine, dei 1056 partiti in folla dalla Stazione Tiburtina, in totale 15 ne tornarono indietro vivi.
E di tutti quei morti, i più fortunati furono di certo i primi 850. La camera a gas è l’unico punto di carità, nel campo di concentramento.
* * *
Gli appigionanti di Ida, di nome Marrocco, erano nativi della Ciociaria (venivano dal piccolo villaggio di Sant’Agata), e solo da qualche anno avevano lasciato la loro casupola di montanari, e le loro piantagioni di lino, per trasferirsi a Roma. La moglie, Filomena, lavorava in casa da sarta, camiciaia e rammendatrice, e il marito, Tommaso, era portantino negli ospedali. Il loro figlio Giovannino, del quale Ida attualmente occupava la camera, era della classe 1922. Nell’estate del 1942, dal Nord Italia dove si trovava col suo reparto in attesa di partire verso il fronte russo, il ragazzo aveva sposato per procura Annita, una ciociaretta cresciuta vicino a lui sulle montagne. Ottenere una licenza in quell’occasione gli era stato impossibile; e così i due sposetti, in realtà, erano rimasti solo fidanzati. La sposa-ragazza, che adesso aveva vent’anni, era da poco venuta a stare coi suoceri, insieme col vecchio padre di Filomena, rimasto vedovo di recente. Né l’uno né l’altra, prima d’ora, non erano mai stati fuori dalla Ciociaria.
Tutta questa gente si divideva l’appartamento di Via Mastro Giorgio, che consisteva in tutto di due stanze, più un ingresso piuttosto ampio che Filomena usava come laboratorio, mentre che la sua camera matrimoniale, con l’armadio a specchi, le serviva da stanza di prova per le clienti. La sera, Annita si coricava nel laboratorio, su un lettuccio pieghevole, e il vecchio nonno in cucina su una branda.
La cameretta di Ida e Useppe dava sull’entrata e, per un altro uscio, comunicava direttamente con la cucina. Grazie all’orientamento a sud della finestra, nei giorni di bel tempo era veramente piena di sole. E, pure nelle sue minuscole proporzioni, a confronto dell’angolo dietro la tenda di Pietralata, a Ida pareva quasi un alloggio di lusso.
La mobilia consisteva, in tutto e per tutto, di un lettuccio, di un armadio largo circa un metro, di una sedia, e di un tavolinetto, che faceva da comodino e al tempo stesso da scrittoio. Difatti, l’assente proprietario della stanzetta, che da piccolo era arrivato appena alla seconda classe, prima di venir chiamato alla guerra s’era messo a frequentare le scuole serali (di giorno era lavorante presso un materassaio). E sul tavolinetto c’erano rimasti, disposti in ordine, i suoi pochi libri scolastici e i quaderni dei suoi compiti, dalla scrittura diligente ma incerta e faticata, come quella di un bambino.
Così pure, nell’armadio stava tuttora appeso il suo corredo da civile, e cioè, custodito assieme al pullover dentro a un tessilsacco, il suo vestito buono di lana mista blu scuro quasi nero, assai squadrato di spalle, e bene smacchiato e stirato; e su una stampella apposita a lato del tessilsacco, la sua camicia più fina, di mussola speciale bianca. Le altre sue due camicie, più ordinarie e di tutti i giorni, stavano invece in un cassetto inferiore dell’armadio, insieme con un paio di pantaloni andanti, quattro mutande, due magliette, qualche fazzoletto, e qualche calzino di colore, rammendato. Inoltre, sul ripiano in basso dell’armadio, c’era un paio di scarpe quasi nuove, imbottite di carta di giornale e con sopra, ripiegati, i calzini della festa, anch’essi quasi nuovi. E su uno spago teso nell’interno dello sportello, c’era una cravatta di raion, a quadretti celesti e bianchi.
Sull’angolo, poi, c’erano riposti due opuscoletti stampati: uno s’intitolava Nuovo Metodo Pratico per imparare a suonare la CHITARRA senza maestro e senza conoscere la musica; e l’altro Metodo Lampo per MANDOLINO. Di mandolini o chitarre, però, non ce n’erano. L’unico strumento musicale esistente nel luogo, era, dentro al cassetto del comodino-scrittoio, vicino a una penna e a una matita, uno di quei ciufoletti di canna tagliati col coltello, che usano suonare i burinelli dietro alle capre. Difatti, Giovannino (come sempre vantava sua madre Filomena) fino da piccolo teneva la passione di suonare; ma, di suo possesso, fuori da quel genere di ciufoletti, altri strumenti, per ora, non ne aveva avuti.
Per terminare la lista, sotto al letto c’erano le sue scarpe di tutti i giorni, risuolate più volte ma con la tomaia consumata. E appesa a un piolo dietro la porta ci stava una giacchetta a vento rognosa, uso pelle. Questo era tutto, o quasi, il contenuto della cameretta.
Non c’erano giornaletti, né riviste illustrate, né ritratti di dive del cinema o di calciatori, come nella stanza di Ninnarieddu. Le pareti, rivestite di una carta da parati di basso prezzo, erano del tutto disadorne: salvo che per un calendario gratuito, di quelli a dodici fogli, ancora dell’anno 1942, con foto- propaganda di opere del regime fascista.
Dell’assente proprietario della cameretta, non esisteva, né qui né altrove, nessuna fotografia singola. La madre ne conservava e ne mostrava, bensì, due in gruppo; ma sia dall’una che dall’altra si capiva poco. La prima, scattata forse da qualche dilettante di villaggio, lo ritraeva ancora ragazzino insieme a una diecina di altri burinelli della sua età, in occasione di una cresima; e nell’insieme, confuso e sfocato, di lui in particolare si distingueva a malapena che era snello, piuttosto biondino, e che teneva una scopoletta in testa e che rideva. E la seconda, portata da un reduce che lo aveva incontrato in Russia, era una piccola istantanea, raffigurante un paesaggio di sterpaglia, con sul fondo una striscia acquosa. In primo piano, si vedeva un grosso palo storto che attraversava tutto il paesaggio dal basso in alto; e a sinistra del palo, abbastanza in primo piano, il didietro di un mulo, vicino a un ometto imbacuccato, con fasce a mollettiera sulle gambe, il quale però non era lui, a destra del palo, invece, ma più in secondo piano, si vedevano delle sagome scure, tutte in un mucchio e infagottate, così che non si riconosceva nemmeno che fossero militari e non civili, né se in testa portassero degli elmetti, o non, piuttosto, delle specie di cappellucci mosci. Fra quelli là, c’era lui; ma veramente, non era possibile individuarlo, e nemmeno indicarlo, dentro al mucchio, in un punto preciso.
Dopo aver preso in consegna la cameretta da Filomena che in quell’occasione gliene aveva fatto con cura l’inventario - mai più Ida si permise di riaprire l’armadio, che pure aveva lo sportello malchiuso e senza chiave. E in proposito non cessava di raccomandarsi con Useppe, il quale, ubbidiente, evitava perfino di sfiorare con un dito gli averi dell’assente proprietario, contentandosi di osservarli con rispetto profondo.
Per le loro proprietà personali, Filomena li fornì di una scatola di cartone, oltre a riservargli un vano della credenza in cucina. Grazie all’eredità del Matto, Ida, sentendosi ricca, aveva acquistato qualche provvista di riserva, e in più uno scampolo di lana autarchica rossa, in cui la medesima Filomena ricavò una tutina per Useppe. Con quella tutina addosso, Useppe non pareva più un indiano, né Charlot, ma uno gnomo dei cartoni animati.
La cameretta non era certo chiassosa quanto lo stanzone di Pietralata; ma i rumori, anche qua, erano quasi incessanti. Di giorno, dalla parte dell’ingresso- laboratorio, c’era il fracasso quasi continuo della macchina da cucire, le voci delle visitatrici e delle clienti, eccetera. E di notte, dalla parte della cucina, c’era il nonno arrivato dalla Ciociaria, il quale dormiva poco, nel sonno aveva spesso degli incubi, e, negli intervalli di veglia, non faceva che scatarrare. Il suo corpo lungo, magro e curvo, era un pozzo cavernoso di catarro che non poteva esaurirsi. Il vecchio teneva sempre accanto un grosso catino scrostato, e scatarrando emetteva dei suoni di angoscia estrema, simili ai ragli dei somari, che sembrano accusare al silenzio il dolore totale del cosmo. Per il resto, conversava poco, era debole di mente, e non usciva mai di casa, impaurito dalle vie cittadine come da un assedio. Se per caso s’affacciava dalla finestra, subito se ne ritirava, lagnandosi che, fuori, qua a Roma, non si vedeva il vuoto. Da casa sua, nella montagna, quando si guardava fuori (lui per guardare diceva tr’mintare) si vedeva tanto vuoto, e qua invece per tutta l’aria c’era pieno di muri. Anche la notte, lo si udiva esclamare, negli incubi, questa sua caparbia querela del pieno e del vuoto («Tr’mint! tr’mint!! è tutto ‘nu muro!») E se, come accadeva spesso, dalla via risuonavano degli spari, oppure in cielo passavano degli aerei, o magari tremavano i vetri per qualche bombardamento dei dintorni, ogni volta lui si risvegliava di soprassalto, con una sorta d’uggiolìo rauco, disperato, che stava a dire «Rièccomi sveglio nuovamente!» Ogni tanto nella veglia ripeteva: «Oi mà oi mà» e, per conto di sua madre, con la medesima voce orfana, si rispondeva da se stesso: «Fìo! fìo che voi?» Oppure si compassionava, chiamandosi «zingarello», e protestandosi «zingarello dint’a pagliarella» (la pagliarella era la sua capanna di paglia, dove da ultimo, in montagna, s’era ridotto a vivere solo). Indi si dava a scatarrare, con un tale strazio, che pareva vomitasse sangue.
Durante il giorno, stava sempre seduto su una seggiola in cucina, col suo catino a lato. Il suo corpo allampanato, tutto d’ossa, terminava con un gran ciuffo di canizie ispida e sporca, sulla quale, anche in casa, usava tenere il cappello, secondo il costume montanaro. Ai piedi, anche qui a Roma, portava le cioce; ma del resto tutto il suo camminare si riduceva al percorso dalla cucina al cesso e ritorno. Il suo supremo, insaziabile desiderio, era il vino, ma la figlia poco gliene concedeva.
La finestra della cucina si prolungava in un balconcello coperto, dove, sui primi giorni, abitava un coniglio. Immediatamente, alla sua entrata nel nuovo alloggio, Useppe lo aveva scorto là, che saltava sulle lunghe zampette posteriori. E da allora, in casa il suo piacere prediletto era di tenersi dietro ai vetri del balconcello in contemplazione del coniglio. Il quale era tutto candido di colore, con un poco di rosa negli orecchi, e gli occhi rosa che sembravano ignorare il mondo. Il solo suo rapporto col mondo era un certo spavento che lo coglieva rapido e imprevisto (anche senza apparente motivo), per cui si rifugiava di corsa, tendendo gli orecchi all’indietro, dentro la sua casetta fatta di una scatola di compensato. Ma per solito se ne stava accucciato da parte, in una calma intenta, come se covasse dei coniglietti; rosicchiava con fervore i torsoli di cavolo che gli forniva Annita. Un ricoverato dell’ospedale lo aveva regalato a Tommaso; e la famiglia e specie la nuora Annita (per quanto avvezzi, invero, da pastori, al macello delle carni) lo avevano preso, chi sa perché, in affezione, come fosse una specie di parente, così che non sapevano decidersi a sacrificarlo dentro a un tegame. Però un giorno Useppe, che ogni mattina, appena svegliato, correva là al balconcello, ci trovò la sola Annita, la quale ne spazzava i residui di torsoli con una faccia mesta. Il coniglio non c’era più: la famiglia rassegnata, per necessità, lo aveva scambiato con due barattoli di carne in conserva.
«…E il niniglio dove sta?»
«Se n’è ito via…»
«Con chi se n’è ito?!…»
«Con la cipolla, l’oio e i pommodori»… (risponde sospirando la suocera dall’ingresso).
Nel laboratorio, insieme a Filomena e Annita, ci stava sempre una piccinina, ossia lavorante apprendista, adibita pure a servizi e a commissioni. Era un’abruzzese sui quattordici anni, già sviluppata, ma così magra che al posto del petto aveva una rientranza. Cucendo, rammendando, o alla macchina, essa cantava sempre una canzonetta che diceva:
«…gioia, tormendo
sei tu…»
Di rado le tre donne stavano sole. Quando non c’erano clienti, non mancavano quasi mai le visite. Tutti i giorni ci passava una donna del quartiere, sui trentacinque anni, di nome Consolata, la quale aveva un fratello partito a suo tempo per il fronte russo con Giovannino, del suo stesso reparto, e di cui pure, da tempo, si ignorava la sorte. Un tale, che la notte tardi ascoltava Radio Mosca, aveva affermato, mesi prima, che in un elenco trasmesso di prigionieri era stato fatto il suo nome; però un altro tale, che ascoltava la medesima trasmissione notturna, diceva che il nome citato dalla radio era sì, il suo: Clemente; ma il cognome era un altro.
Questo, dei parenti in Russia, era quasi l’unico, eterno discorso delle donne: tale da lasciare indietro perfino l’altro argomento della carestia. Di Ninnuzzu, invece, di cui pure non si avevano notizie, errante o guerrigliero chi sa dove, Ida preferiva non parlarne, e nemmeno pensarci, per una specie di esorcismo inconsapevole. Però teneva sempre informato l’oste Remo dei propri spostamenti, per il caso che Nino si ritrovasse a passare per Roma.
Un’altra visitatrice delle Marrocco era una certa Santina, la quale abitava sola dalle parti di Porta Portese. Era sui quarantotto anni, di statura piuttosto alta, e di ossatura eccessivamente grossa, tanto che il suo corpo, nonostante la magrezza estrema, appariva greve e ingombrante. Aveva grandi occhi bruni, dallo sguardo fondo senza luce; e siccome per la fame andava perdendo i denti, e sul davanti le mancava un incisivo, nel sorriso aveva un che di indifeso e di colpevole, come si vergognasse della propria laidezza, e di sé, ogni volta che sorrideva.
Portava i capelli, che in gran parte incanutivano, sciolti giù per le spalle come una ragazza; però non usava cipria né cosmetici, e non cercava di nascondere l’età. La sua faccia rovinata, pallida, dalle larghe ossa sporgenti, esprimeva una semplicità rozza e rassegnata.
Il suo mestiere principale, ancora adesso, era quello della mignotta. Però si ingegnava a guadagnare qualcosa anche lavando i panni, o facendo iniezioni, in giro per le case del quartiere. Ogni tanto, cadeva ammalata e andava all’ospedale, oppure veniva presa dalla polizia; ma non usava, in genere, di esporre le proprie ferite, e al ritorno da ogni assenza accennava d’essere stata su al paese. Diceva pure di avere una madre, su al paese, che toccava a lei di mantenere. Ma tutti sapevano che mentiva. Essa non aveva parenti al mondo e quella madre in realtà era un suo magnaccia, più giovane di lei di molti anni, e che stava a Roma, ma con lei si mostrava poco. Pare che abitasse in un altro quartiere, e c’era chi l’aveva intravisto, ma come un’apparizione o un’ombra senza contorni precisi.
L’assiduità di Santina in casa Marrocco si doveva, soprattutto, alla sua capacità di leggere l’ignoto sulle carte. Per questo, essa aveva un sistema personale suo proprio, inedito sui testi della cartomanzia, e imparato non si sa da chi. Le Marrocco non si saziavano mai di consultarla in proposito di Giovannino; e appena essa arrivava, sgombravano in fretta il tavolino da lavoro dei ritagli, forbici, spille e altri impicci, per far posto al mazzo delle carte da gioco. Le loro domande erano sempre le stesse:
«Dicci se sta bene».
«Dicci se penza a noialtri».
«Dicci se torna presto a casa».
«Dicci se sta bene in salute».
«Dicci se tiene penziero della famiglia».
Filomena poneva queste sue interrogazioni con un tono di urgenza incalzante, come sollecitasse la risposta di una Autorità molto occupata e frettolosa; mentre Annita le avanzava piano, secondo i suoi modi abituali di riservatezza e malinconia, con la testa chinata un poco verso la spalla, che era la sua posa consueta. Il suo viso ovale, di carnagione bruna, sembrava più pallido per il peso nero della crocchia, che le si rilasciava tutta lenta da una parte. E nel commentare assieme alla suocera i responsi di Santina, la sua vocina era peritosa e discreta, quasi temesse di dare disturbo.
Santina non levava mai dalle carte i suoi occhi densi e opachi, e dava i responsi nel tono di una bambina un po’ tarda che recita un’orazione astrusa. Le sue risposte, al pari delle domande, non variavano molto, di volta in volta:
«Spade… spade rovesciate. Freddo. Laggiù ci fa freddo», dice Santina.
«Vedi!» Filomena rimbrotta Annita, «ci insistevo sempre, io, di mandargli pure il maglione, nel pacco!»
«Lui ci scrisse che non gli serviva, e di mandargli piuttosto altre calze per i piedi, e le castagne…» si scusa Annita.
«Ma di salute, sta bene? Dicci questo, se sta bene di salute».
«Sì, qua vedo notizie buone. C’è vicino un personaggio potente… buona raccomandazione. Qualcuno importante… Re di moneta… uno coi gradi…»
«Forse è quel tenente… come diceva, mà, il nome di quel tenente, nella lettera…?…» suggerisce sommessamente Annita.
«Mosillo! Tenente Mosillo!»
«No… no…», Santina tentenna la testa, «Re di moneta… no tenente… di più! è uno che sta più in alto… Un Capitano… o… Generale!»
«Generale!!!?»
«E adesso qua si vede Donna e Due di coppe… E il Trionfo! Una donna bruna…» A questo, Annita si girava da una parte, per nascondere la tristezza dei suoi occhi neri che quasi facevano le lagrime. Fra i pericoli della Russia, a quanto si diceva in giro, c’erano le donne di là, che s’innamoravano degli Italiani e se li tenevano stretti senza più lasciarli andare via. Questa era forse la più acuta delle diverse fitte che laceravano il cuore della sposina in ansia. L’ultima lettera di Giovannino, in possesso della famiglia, era di più di un anno avanti, in data 8 gennaio 1943. Era scritta in un inchiostro annacquato di un colore nero rossastro. Sulla busta, e anche all’inizio della lettera, c’era scritto VINCEREMO perché si diceva che le lettere passavano con un semplice timbro, senza controllo della censura, se portavano quel motto scritto sopra.
VINCEREMO
Rusia 8 gennaio 1943, XXI°.
Carisimi Tutti di mia Familia
vengo con questo folio per farvi sapere che io sto bene come spero di Voi Tuti di familia la pifania lo pasata noncemale vi facio sapere cua freddo sidice olodna (… tre parole censurate) il paco non e arivato pero non vi date penziero che il natale il governo ciadato due tubi nelaqua calda e piu una Signora vechia russa ciafato le fritele che vi dico beata la vita borghese che qua il fredo facascare le ungie dei piedi che tante nottti a fare reticolati e per la mitralia che cua si scava stiamo sototera come li topi e magnamo li pidochi cari Genitori alto il morale che vincere e vinceremo unischo valia di lire trecentoventi cara Madre cara Sposa non ci state a chredere se girano brute notizzie che per lalarmismo solito (… cinque parole censurate) che presto siamo di ritorno con alegria che limportante e la salute che cua imparo quache parola russa che patate si dice cartoce cara Madre nonvedo lora dabraciarvi questo lunico penziero giorno e note che non ariva manco la Posta cari Genitori fatemi sapere se arivato laltro valio e adeso chiudo laletera chc cio pocacarta perche speriamo presto non mi resta che salutarvi
Vostro amatisimo filio e Sposo
Giovannino.
Insieme a questa lettera, ne era arrivata un’altra, di poco precedente, indirizzata a Annita, e, da allora, di Giovannino non s’era più avuta posta né notizie. Nella primavera dello stesso anno 1943 quel reduce di passaggio, che portava la fotografia, aveva raccontato di essersi incontrato con lui qualche mese prima, nel novembre, e che Giovannino allora si portava bene, e avevano diviso insieme una pagnotta e una scatoletta. Quanto all’altro disperso, Clemente il fratello di Consolata, non l’aveva incontrato né conosciuto e non ne sapeva nulla.
Filomena e Annita erano, l’una e l’altra, quasi analfabete; però mentre Filomena spesso traeva fuori dallo stipo in camera sua le lettere di Giovannino per farsele rileggere e commentarle, Annita invece era gelosa delle proprie e non le mostrava a nessuno. Una sera, però, che le altre donne erano uscite, essa bussò all’uscio di Ida, e facendosi rossa le chiese il favore di rileggerle le ultime lettere di lui dal fronte. Al tempo che le aveva ricevute, essa stava ancora in montagna, e dopo di allora qui a Roma non aveva più avuto modo di farsele spiegare, così che rischiava quasi di dimenticarsele… Essa trasse di sotto il pullover il mucchietto di carta. Non erano tutte lettere, c’era qualche cartolina postale in franchigia, con sopra stampate delle frasi di propaganda, per esempio: IN OGNI ORA DELLA SUA GLORIOSA STORIA ROMA HA ASSOLTO LA SUA MISSIONE DI CIVILTA’… Al solito sulle buste e sui fogli il ragazzo, come accorto stratagemma contro la Censura, aveva scritto VINCEREMO. Per via dell’inchiostro autarchico, di polvere e d’acqua, la scrittura era tutta sbiadita, quasi fosse antica di un secolo.
«Annita amatissima ti prego seposibile farti una fotografia perme che armeno la pozzi guardare presempio diglielo a quelinfermiere santospirito lui teneva la Codacc e ti prego non tidare penziero di me vedrai che bel ritorno perche io non vedolora di darti un miglione di baci e faremo un bel viagio di miele volio farti arivare fino a Venezzia (… una riga censurata)…» «moglie cara perme non telaprendere sto di buona salute qua faciamo le gare dela corza dei pidochi chi i suoi arivano prima guadampia una sigaretta io cio guadambiato due Africa e una Trestelle e ti prego cara Moglie cuando scrivi unire francobollo duna lira qua non ce ne» «ti prego ricordare nel paco meti moltisima polvere di pidochi»… «…le donne qqua le dicono catiuce ma non penzare!! perme di donne ceneuna sola madonina del mio Cuore! tu sei tuto per me e un miglione di baci…» «Stanotte o fato unsognio io titrovavo che non eri crisciuta comadesso ma regazeta come nelaltri tempi andichi di prima e io to detto ma come ti sposo mo? perche sei tropo picola! e tu mh’ai deto quando tu rivieni da Rusia saro crisciuta e io to deto eccomi sono tornato e to strinto nele bracia e tu ti sei fatta grande nele bracia mie! e thodato un miglione di baci A! mia sposeta adorata qua sono in uniferno piu mischino di me non ce ne e io mi viene una smania ma non ti dare penziero di me vedrai saremo presto riuniti perme non vedo lora il penziero mio (… una parola censurata) ma che ci vuoi fare noi siamo la basssa forza ricevi un miglione di baci»…
Rifiutando, per timidezza, di accomodarsi sull’unica sedia, o sull’orlo del letto, Annita durante la lettura si tenne all’impiedi, appoggiando appena al tavolinetto la sua mano tozza e arrossata. Però nel seguire con gli occhi una a una le parole lette da Ida a alta voce, aveva l’espressione di una sorvegliante, come se quei foglietti fossero un codice preziosissimo e il decifrarli fosse un’altra specie di cartomanzia che impegnava, in qualche modo, il destino. Non fece alcun commento, salvo un brevissimo sospiro nel riprendersi il pacchetto alla fine. E se ne andò, con l’andatura piuttosto goffa delle sue gambe robuste, fatte per la gonna lunga e ampia delle ciociare e che adesso - fuori dal corto abituccio striminzito, con le calze nere che le arrivavano al ginocchio lasciando nuda una striscia di carne - apparivano di una grossezza rustica e animalesca in contrasto col corpo minuto. Dall’inverno 1943, fino a oggi, lei stessa, e i suoi suoceri, avevano seguitato a girare da un ufficio all’altro, per avere notizie di Giovannino: Ministeri, Municipio, Distretto, Croce Rossa, Vaticano… E la risposta era sempre uguale: Non se ne ha notizia. Disperso. Questa risposta, da parte di certi funzionari o militari di servizio negli uffici, oramai, certe volte, veniva data con un tono brutale, o annoiato, o ironico, o addirittura beffardo. Ma che significa disperso? Può significare prigioniero, portato in Siberia, rimasto in Russia ospite di qualche famiglia o ammogliato con qualche donna di là… E in primo luogo può significare caduto. Ma questa ipotesi, fra tutte le altre possibili, veniva ignorata, come impossibile, da Annita e da Filomena. Esse continuavano ad aspettare Giovannino di giorno in giorno, a dare aria ogni tanto al suo vestito buono, e finirono col negare qualsiasi credito alle fonti di notizie ufficiali. Avevano più fiducia nelle carte di Santina.
La loro amica Consolata le criticava per la loro ignoranza: «Solo delle cafone come loro», sussurrava in disparte a Ida, «possono credere a questi imbrogli delle carte. Difatti, essa era più letterata delle Marrocco, commessa di merceria, e originaria del Nord; però lei pure, non meno di loro, aspettava con ottimismo il ritorno del proprio fratello dalla Russia. «Disperso, vuol dire che si può ritrovare. E data la quantità, qualche migliaio ne deve tornare di certo. Non può essere che tutti siano spariti. Mio fratello non è tipo che si perde. Prima del fronte russo, aveva già fatto il fronte delle Alpi, e la Grecia e l’Albania. Per l’orientamento portava pure la bussola, e teneva sempre addosso un’immagine miracolosa della Madonna». Essa aveva grande fiducia nella protezione della Madonna, specie in un paese di senza Dio come la Russia; e storceva la bocca ai discorsi di certuni i quali affermavano: «La Russia è la tomba della gioventù d’Italia». «Tutta propaganda», diceva Consolata. C’era chi asseriva crudelmente: «Dicono dispersi per non dire casi disperati» e prendevano in giro Annita per la sua condizione: «Maritata ma sempre ragazza…» le dicevano; e magari la invitavano ammiccando a farsi un altro sposo. Allora Annita piangeva, e sua suocera s’imbestialiva contro quella gente infame, che offendeva l’onestà di una sposetta e metteva in dubbio la fede di Giovannino. Tanto la suocera che la nuora erano, per natura, fedeli e caste; ma il loro linguaggio, comune ai contadini delle loro parti, in certi casi suonava osceno alla borghese Ida. Pareva che, per loro, ogni cosa nominata fosse provvista di un sesso, di un culo eccetera e conformata al fine dell’accoppiamento. Se la porta non si apriva, dicevano: «È questa fregna della serratura che non funziona», e se non trovavano le spille: «Dove cazzo si sono ficcate quelle rotte in culo delle spille?» e così via. Ida sbigottiva, a sentire la piccola Annita proferire come niente certe parole che a lei facevano paura e vergogna. Il padrone di casa si vedeva poco, perché, se faceva il turno di giorno, rincasava tardi; e se faceva il turno di notte, durante il giorno dormiva. In uno dei suoi brevi intervalli di presenza, aveva insegnato a Useppe una canzone del suo paese, che diceva così:
Pecoraro magnaricotta
va alla chiesa e non s’inginocchia
non si cava il cappelletto
pecoraro maledetto.
In genere, a casa Marrocco, come già negli ultimi tempi a Pietralata, non si faceva molta attenzione a Useppe. Ragazzini non ce n’erano; alla piccinina, mezzo istupidita dallo stimolo perpetuo della fame, rimaneva a malapena il fiato per canticchiare, sempre più svogliatamente gioia tormendo sei tu; e le donne di casa, come pure le loro visitatrici o clienti, erano troppo affaccendate o preoccupate per interessarsi a lui. Per lo più, lo tenevano in conto di un gattino, che si tollera finché gioca per conto suo, ma si caccia via quando viene a mettersi fra i piedi. L’epoca dei Mille si allontanava sempre più nel passato, come una leggenda antica.
Nelle lunghe ore di assenza di Ida, e dopo l’oscura partenza del coniglio, Useppe, quando non pensava, stava in compagnia del nonno, il quale, in verità, non sembrava neppure accorgersi della sua presenza. Per quanto trascorresse le intere sue giornate seduto su una seggiola, il vecchio non aveva mai riposo, assillato dalla vita, che tuttora persisteva nel suo organismo, come da uno sciame di tafani che non voleva staccarsi da lui. I suoi occhi vedevano ancora, e i suoi orecchi udivano, ma ogni oggetto dei suoi sensi si riduceva, per lui, a un fastidio tormentoso. Di tanto in tanto si appisolava, ma per poco, riscuotendosi di soprassalto. Oppure, con lo sforzo di chi si appresta a un viaggio faticoso, spostava il peso del suo corpo dalla sedia alla finestra, dove subito lo respingeva il pieno dei casamenti e delle mura che lo aggredivano dall’esterno: «Non ci sta ‘u vuoto! ‘u vuoto!» si disperava, fissando verso l’esterno gli occhi arrossati e spenti. E se vedeva qualcuno guardare a lui da una finestra di fronte, osservava: «Isso tr’minta a me, e io tr’minto a isso!» come constatasse una legge d’insopportabile angoscia. Così che si riduceva di nuovo alla sua sedia, riprendendo a scatarrare nel suo solito catino. Useppe lo guardava coi suoi occhi intenti e solleciti, quasi mirasse un paesaggio enorme, tormentato dal gelo:
«Pecché sputi tanto?»
«Uhhuur… uuuuuuuh… rrrruhuhu…»
«Che ciài? vòi béve? eh? vòi béve… ahò! vòi der vino?» (con una vocina smorzata, per non farsi sentire da Filomena).
«Uuuuuh… muuuuurrrhau…»
«Tiè!! VINO! tiè… VINO!! Ma stà zitto, eh? nun te fa’ sentì… ahò! Ahò! tiè! bevi!!»