3.

 

 

 

ART. 1. IL MATRIMONIO DEL CITTADINO ITALIANO DI RAZZA ARIANA CON PERSONA APPARTENENTE AD ALTRA RAZZA È PROIBITO.

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ART. 8. AGLI EFFETTI DI LEGGE:

A) È DI RAZZA EBRAICA COLUI CHE È NATO DA GENITORI ENTRAMBI DI RAZZA EBRAICA, ANCHE SE APPARTENGA A RELIGIONE DIVERSA DA QUELLA EBRAICA;…

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D) NON È CONSIDERATO DI RAZZA EBRAICA COLUI CHE È NATO DA GENITORI DI NAZIONALITA’ ITALIANA, DI CUI UNO SOLO DI RAZZA EBRAICA, CHE, ALLA DATA DEL PRIMO OTTOBRE 1938-XVI, APPARTENEVA A RELIGIONE DIVERSA DA QUELLA EBRAICA.

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ART. 9. L’APPARTENENZA ALLA RAZZA EBRAICA DEVE ESSERE DENUNCIATA ED ANNOTATA NEI REGISTRI DELLO STATO CIVILE E DELLA POPOLAZIONE.

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ART. 19. AI FINI DELL’APPLICAZIONE DELL’ART. 9, TUTTI COLORO CHE SI TROVANO NELLE CONDIZIONI DI CUI ALL’ART. 8, DEVONO FARNE DENUNCIA ALL’UFFICIO DI STATO CIVILE DEL COMUNE DI RESIDENZA…

 

Così diceva la legge razziale italiana, emessa nell’autunno del 1938. Con essa poi tutti i cittadini detti «di razza ebraica» venivano esclusi dalla gestione di aziende, possedimenti, proprietà, frequentazione delle scuole di ogni grado, e da tutti gli impieghi e professioni in generale, a cominciare, si capisce, dall’insegnamento.

Questi decreti portavano la data 17 novembre 1938. Pochi giorni avanti, in tutto il Reich, dopo gli anni della discriminazione e della persecuzione, s’era dato inizio al progetto di genocidio degli ebrei. Contro di loro, a tutti i tedeschi era stata data licenza di devastazione e di assassinio. Nel corso di varie notti, molti ne furono massacrati, a migliaia deportati nei lager, le loro case, magazzini e sinagoghe bruciati e distrutti.

Nora, con la sua morte, aveva preceduto di alcuni mesi i decreti razziali italiani, che a quest’ora la bollavano fra gli ebrei senza rimedio. Però, la sua previdenza di trentacinque anni prima, consigliandole di battezzare Iduzza cattolica, salvava adesso costei dalla perdita del posto di maestra e dagli altri provvedimenti punitivi, secondo il punto d) dell’Art. 8. E in proposito, l’Art. 19 decretava le pratiche d’obbligo per gli interessati. Fu così che Iduzza, vergognosa e tramortita come un’imputata al Palazzo di Giustizia, si presentò agli uffici del Comune di Roma.

S’era debitamente provveduta di tutti i documenti richiesti: sia quelli della sua parte ebraica materna che quelli della sua parte ariana paterna, comprendenti gli attestati di battesimo suo proprio, di Giuseppe e dei nonni di Calabria (anch’essi, ora, sepolti). Non ci mancava proprio nulla. E in più (vergognandosi fino d’aprir bocca) insieme con questo incartamento essa presentò all’impiegato un foglio di quaderno, sul quale per una identificazione immediata e muta aveva trascritto di sua mano i propri dati anagrafici personali. Ma una specie di ripugnanza, che valeva quale un piccolo omaggio estremo, le aveva fatto tralasciare ogni segno di accentuazione sul cognome della madre.

«Almàgia o ALMAGIA’?» s’informò l’impiegato, scrutandola con occhio inquisitorio, autorevole e minaccioso.

Essa avvampò, peggio d’una scolara sorpresa a copiare il tema. «Almagià», mormorò affrettatamente, «mia madre era ebrea!»

L’impiegato non chiese altre informazioni. E così, per il momento, la pratica era sistemata.

A ogni modo, l’Autorità, nei suoi forzieri occulti, da oggi teneva la conoscenza che Ida Ramundo vedova Mancuso, insegnante, era una mezzosangue, sebbene per tutti quanti, ancora, fosse una comune ariana… In Italia, ariana! però, dopo un certo tempo, attraverso sue fonti private, Ida imparò che nel Reich le leggi erano altre… E incominciò a sospettare, di giorno in giorno, che una possibile modifica dei decreti nazionali intervenisse a coinvolgere non lei sola, ma forse anche suo figlio Nino! Come già Alfio suo marito, pure Ninnuzzu aveva sempre ignorato, né s’immaginava manco in sogno, di annoverare degli Ebrei fra i propri parenti. E cresceva spensierato, ignaro di tutto, e fanatico della camicia nera. Frattanto, la lega Mussolini-Hitler si faceva sempre più stretta, finché, nella seguente primavera del 1939, i due si allearono militarmente col loro patto d’acciaio. E senz’altro, al modo che Benito aveva colonizzato gli Etiopi, Adolfo partì alla colonizzazione dei popoli europei, sotto l’impero della razza tedesca suprema, come aveva promesso. Allo scoppio, tuttavia, del conflitto mondiale, seguìto di lì a poco, il socio italiano, malgrado il patto, preferì tenersi da parte, malsicuro, temporeggiando. E solo di fronte alla vincita sensazionale del suo consocio (che nel giro di una luna, divorata l’Europa intera, già toccava il traguardo di Parigi) per garantirsi la propria porzione di gloria entrò in guerra al suo fianco. Era il mese di giugno del 1940; e Ninnuzzu, che aveva allora quattordici anni, accolse la notizia con piacere, sebbene contrariato per il ritardo. S’era stufato, difatti, d’aspettare che il suo Duce si decidesse a questa nuova azione grandiosa.

Di tutta l’incalzante vicenda mondiale, Iduzza non seguiva il corso, se non per gli annunci di strepitose vittorie hitleriane che le riecheggiavano in casa attraverso la voce di Nino.

Nei giorni dell’entrata in guerra dell’Italia, le capitò di ascoltare diverse opinioni sull’evento. Chiamata al pomeriggio dal Preside del Ginnasio, per via di certe assenze ingiustificate di suo figlio Nino, trovò il personaggio in uno stato raggiante d’euforia per la tempestiva decisione del Duce: «Noi siamo», le dichiarò il personaggio con grande enfasi, «per la pace nella vittoria, al minor costo possibile! E oggi, che la guerra-lampo dell’Asse sta per toccare la mèta della pace, plaudiamo alla lungimiranza del Capo, che assicura alla nostra Patria i vantaggi del successo col massimo risparmio. In una sola tappa, e senza rimetterci nemmeno il consumo delle gomme, eccoci già in volata al finale, giusto a ruota con la Maglia Gialla!!» Simile discorso autorevole s’impose a Ida, senza replica.

Per quanto lei ne capiva, anche i suoi colleghi della scuola elementare, dei quali essa orecchiava i discorsi nei corridoi, la pensavano, più o meno, come il preside del ginnasio. Solo una custode anziana (chiamata dai bambini Barbetta per una poca lanugine senile che le cresceva sul mento) era stata da lei sorpresa, mentre, a fini di scongiuro, andava toccando le porte e via via borbottando in sordina che questa azione italiana contro i francesi era una «pugnalata alle spalle», e che certe azioni fortunate prima o poi portano sempre iella.

Per contro, la mattina stessa, al suo ingresso nella scuola, il portiere, marciando per l’androne come un conquistatore, l’aveva salutata con questa frase: «Signora Mancuso, quando entriamo a Parigi?» E d’altra parte, più tardi, rincasando, essa aveva udito il garzone del panettiere che sulla soglia dell’osteria, tutto aggrondato, confidava all’oste: «A senso mio, l’Asse Roma-Berlino è storto. Anvedi che robba! Quelli là, i Berlinesi, fanno le carognate - e noi, qua de Roma, je damo pure ‘na mano!!»… Fra tali opinioni discordi, la povera Iduzza, per conto suo, non osava formulare giudizi.

Ai tanti misteri dell’Autorità che la intimorivano, s’era aggiunta, adesso, la parola ariani, che lei, prima, aveva sempre ignorato. Nel caso, in realtà, quella parola non aveva nessun significato logico; e le Autorità avrebbero potuto sostituirla, a loro piacere, e agli stessi effetti pubblici, con pachidermi, o ruminanti, o altra qualsiasi parola. Ma alla mente di Iduzza essa tanto più si faceva autorevole, perché arcana.

Nemmeno da sua madre, essa non aveva udito mai questo titolo «ariani», anzi lo stesso titolo di ebrei per la piccola Iduzza, laggiù nella casa di Cosenza, era rimasto un oggetto di grande mistero. Se non dalla stessa Nora nei suoi concilii segreti, esso addirittura non veniva mai pronunciato invano, in casa Ramundo! Ho saputo che una volta, in una delle sue grandi perorazioni anarchiche, Giuseppe uscì a proclamare, con voce tonante: «Verrà giorno che signori e proletari, bianchi e neri, femmine e maschi, ebrei e cristiani, saranno tutti uguali, nell’unico onore dell’uomo!!»Ma su quella parola gridata ebrei, Nora dette una voce di spavento, e impallidì come a un malore grave; per cui Giuseppe tutto pentito le si fece vicino a ripetere, stavolta a voce bassissima: «…dicevo, ebrei e cristiani…» Quasi che col sussurrare la parola piano piano, dopo averla strillata forte forte, lui rimediasse al guaio! A ogni modo, adesso, Ida imparava che gli ebrei erano diversi non solo perché ebrei, ma anche perché non ariani. E chi erano gli Ariani? A Iduzza questo termine delle Autorità suggeriva qualcosa di antico e d’alto rango, sul tipo di barone o conte. E nel suo concetto gli ebrei vennero a contrapporsi agli ariani, più o meno, come i plebei ai patrizi (essa aveva studiato la storia!) Però, evidentemente, i non ariani, per l’Autorità, erano i plebei dei plebei! Per esempio, il garzone del panettiere, plebeo di classe, di fronte a un ebreo valeva un patrizio, in quanto ariano! E se già i plebei nell’ordine sociale erano una rogna, i plebei dei plebei dovevano essere una lebbra!

Fu come se le ossessioni di Nora, sciamando in tumulto alla sua morte, fossero venute a nidificare dentro la figlia. Dopo la sua denuncia all’anagrafe, Ida aveva ripreso la stessa vita di prima. Campava proprio come un’ariana fra gli ariani, nessuno pareva dubitare della sua arianità completa, e le rare volte che dovette esibire i suoi documenti (per esempio alla Cassa Stipendi), sebbene il cuore le ballasse in petto, il cognome di sua madre passò del tutto inosservato. Il suo segreto razziale pareva sepolto, una volta per tutte, negli archivi dell’Anagrafe; però lei, sapendolo registrato in quei loculi misteriosi, tremava sempre che una qualche notizia ne trapelasse all’esterno, segnando lei stessa, ma Nino soprattutto!, col marchio dei reprobi e degli impuri. Inoltre, specie a scuola, nell’esercitare, lei, mezza ebrea clandestina, i diritti e le funzioni dovuti agli Ariani, si sentiva in colpa, come un’abusiva e una falsaria.

Anche nel giro delle sue spese quotidiane, essa aveva il sentimento di andare mendicando, come un cucciolo orfano e randagio, nel territorio altrui. Finché da un giorno all’altro, lei che prima delle leggi razziali non aveva incontrato mai nessun ebreo fuori di Nora, seguendo una sua pista incongrua s’orientò a preferenza nella cerchia del Ghetto romano, verso le bancarelle e le botteghe di certi ebreucci ai quali ancora a quel tempo era permesso di seguitare nei loro poveri traffici di prima.

Da principio, la sua timidezza la portò a trattare solo con certi tipi di vecchi, dagli occhi mezzi spenti e dalla bocca sigillata. Però il caso, via via, le procurò qualche conoscenza meno taciturna, in genere qualche donna del posto, che, forse incoraggiata dai suoi occhi semiti, chiacchierava con lei di passaggio.

Di qui essa ricavava il suo principale notiziario storico-politico, giacché, con gli ariani, evitava certi argomenti, e anche dei comuni mezzi d’informazione, per un motivo o per l’altro, se ne serviva poco. L’apparecchio radio di famiglia, già posseduto quando Alfio era in vita, da più di un anno aveva smesso di funzionare, tanto che Ninnarieddu, un bel giorno, lo aveva sfasciato definitivamente, smontandone i pezzi a uso di svariate costruzioni sue proprie (né essa aveva i soldi per comperarne un altro). E in quanto ai giornali, essa non usava leggerne, e a casa sua capitavano solo le gazzette sportive o i rotocalchi cinematografici, per uso esclusivo di Nino. Da sempre, i giornali a lei suscitavano, solo al vederli, un senso innato di straniamento e di avversione; e da ultimo, essa addirittura sbigottiva già a scorgerne appena i titoli in prima pagina, così grossi e neri. Di passaggio alle edicole, o sul tram, ogni giorno le succedeva di occhieggiarli diffidando, se per caso non denunciassero a caratteri cubitali, fra i molti abusi degli Ebrei, pure i suoi propri, col famigerato cognome: ALMAGIA’…

Non troppo distante dalla sua scuola, il Ghetto era un piccolo quartiere antico, segregato - fino al secolo scorso - con alte muraglie e cancelli che venivano chiusi alla sera; e soggetto - di quei tempi - alle febbri, per via dei vapori e della melma del Tevere vicino, che ancora non aveva argini. Da quando il vecchio quartiere era stato risanato e le muraglie abbattute, il suo popolo non aveva fatto che moltiplicarsi; e adesso, in quelle solite quattro straducce e due piazzette, ci si arrangiavano a stare a migliaia. C’erano molte centinaia di pupetti e ragazzini, per lo più riccetti, con gli occhi vispi; e ancora al principio della guerra, avanti che incominciasse la grande fame, ci giravano diversi gatti, domiciliati fra le rovine del Teatro di Marcello, a un passo di là. Gli abitanti, per la maggior parte, facevano i venditori ambulanti o gli stracciaiuoli, che erano i soli mestieri permessi dalla legge agli ebrei nei passati secoli, e che poi fra poco, nel corso della guerra, gli sarebbero stati proibiti, anche questi, dalle nuove leggi fasciste. Pochi di loro disponevano, al massimo, di qualche locale a pianterreno per uso di rivendita o deposito della roba. E queste, più o meno, erano tutte le risorse del piccolo villaggio: dove i decreti razziali del 1938, tuttora invariati, non avevano potuto mutare di molto le sorti.

In certe famiglie del quartiere, si aveva appena notizia di quei decreti, come di questioni riguardanti i pochi ebrei signori, che abitavano sparsi nei quartieri borghesi della città. E in quanto a varie altre minacce, che circolavano oscure, i notiziari, che Ida ne raccattava laggiù erano monchi e confusi, come le radio-carcere. In generale, fra le sue conoscenti delle bottegucce, regnava una incredulità ingenua e fiduciosa. Ai suoi piccoli accenni peritosi da ariana, quelle povere donnette indaffarate opponevano, per lo più, una spensieratezza evasiva, oppure una rassegnazione reticente. Tante notizie erano invenzioni della propaganda. E poi, in Italia certe cose non potrebbero mai succedere. Esse confidavano nelle amicizie importanti (o anche nelle benemerenze fasciste) dei Capi della Comunità o del Rabbino nella benevolenza di Mussolini verso gli Ebrei; e addirittura nella protezione del Papa (mentre i papi, in realtà, nel corso dei secoli, erano stati fra i loro peggio persecutori). A chi, fra loro, si mostrava più scettico, esse non volevano credere… Ma invero, nel loro stato, non avevano altra difesa.

Fra costoro, ci si incontrava, ogni tanto, una ragazza invecchiata di nome Vilma, trattata, là in giro, per una mentecatta. I muscoli del suo corpo e del suo volto erano sempre inquieti, e lo sguardo, invece, estatico, troppo luminoso.

Era rimasta orfana assai presto, e, per incapacità d’altro, si adattava a servizi pesanti, come un facchino. Scavallava tutto il giorno, infaticabile, in Trastevere e Campo dei Fiori, dove andava pure mendicando avanzi, non per sé, ma per i gatti del Teatro di Marcello. Forse la sola festa della sua vita era quando, verso sera, si sedeva là su un rudere, in mezzo ai gatti, a spargere in terra per loro delle testine di pesce mezze marce e dei rimasugli sanguinolenti. Allora il suo volto sempre febbrile si faceva radioso e calmo, come in Paradiso. (Però, col progredire della guerra, questi suoi beati convegni dovevano ridursi a un ricordo).

Da qualche tempo Vilma, attraverso i suoi giri quotidiani di faticante, riportava nel Ghetto delle informazioni strane e inaudite, che le altre donne rifiutavano come fantasie del suo cervello. E difatti, la fantasia lavorava sempre, come una forzata, nella mente di Vilma; però, in seguito, certe sue fantasie dovevano dimostrarsi molto al di sotto della verità.

Lei pretendeva che, a tenerla così informata, fosse una monaca (andava a faticare, fra l’altro, in un convento…); oppure una signora che, di nascosto, ascoltava certe radio proibite, ma della quale non si doveva dire il nome. A ogni modo, s’affannava a garantire che le sue informazioni erano certe; e tutti i giorni le ripeteva in giro con voce rauca, urgente, come si raccomandasse. Ma nell’accorgersi che non la si ascoltava o non le si credeva, rompeva in risate angosciose, simili a tosse convulsa. La sola, forse, che la stava a sentire con terribile serietà, era Iduzza, perché ai suoi occhi Vilma, nell’aspetto e nelle maniere, rassomigliava a una sorta di profetessa.

Attualmente, nei suoi messaggi ossessivi quanto inutili, costei di continuo insisteva con l’avviso di mettere in salvo, almeno, le creature, affermando di aver saputo in confidenza dalla sua monaca che nella storia prossima era segnata una nuova strage peggio di quella di Erode. Non appena occupavano un paese, per prima cosa i tedeschi ammassavano da una parte tutti gli ebrei senza eccezione, e di là li trascinavano via, fuori dei confini, non si sapeva dove «nella notte e nella nebbia». I più morivano in cammino, o cadevano prostrati. E tutti costoro, morti e vivi, venivano buttati uno sull’altro in fosse enormi, che i loro parenti o compagni erano costretti a scavare in loro presenza. I soli lasciati sopravvivere, erano gli adulti più robusti, condannati a lavorare come schiavi per la guerra. E i bambini venivano massacrati tutti, dal primo all’ultimo, e buttati nelle fosse comuni lungo la strada.

Un giorno, a questi discorsi di Vilma, ci si trovava, oltre a Iduzza, pure una donnetta anziana, dimessa nel vestito ma col cappellino in testa. Essa, a differenza della bottegaia, assentì con gravità alle lamentazioni insane e roche di Vilma. Anzi (parlando a bassa voce per paura delle spie) intervenne affermando di aver udito lei stessa, da un sottufficiale dei carabinieri, che secondo la legge dei tedeschi gli ebrei erano pidocchi, e andavano tutti sterminati. Alla vittoria, certa e ormai vicina, dell’Asse, pure l’Italia sarebbe diventata territorio del Reich, e soggetta alla medesima legge definitiva. Su San Pietro, al posto della croce cristiana, avrebbero messo la croce uncinata; e pure gli stessi cristiani battezzati, per non venire scritti nella lista nera, dovevano provare i loro sangui ariani, FINO ALLA QUARTA GENERAZIONE!

E non per niente, aggiunse, tutta la gioventù ebrea di buona famiglia, che aveva i mezzi, s’era emigrata dall’Europa, chi in America e chi in Australia, finché s’era stati in tempo. Ma oramai, coi mezzi o senza mezzi, tutte le frontiere erano chiuse, non s’era più in tempo.

«Chi sta drento, sta drento. E chi sta fora, sta fora».

A questo punto, con la sua voce malsicura di latitante che teme di fornire indizi, Iduzza si fece a chiederle che cosa esattamente significasse FINO ALLA QUARTA GENERAZIONE. E la donnetta, con un sussiego da scienziata-matematica, e non senza precisare e ribadire dove le pareva il caso, spiegò: «che nella legge germanica i sangui si calcolavano a capi, quote e dozzine. Quarta generazione sta per dire: i bisnonni. E per calcolare i capi, basta contare i bisnonni e i nonni, che in totale fanno:

«8 bisnonni + 4 nonni = 12 capi

«ossia una dozzina.

«Ora, in questa dozzina di capi, ogni capo, se è ariano, vale per una quota ariana: un punto a favore. Se invece è giudio, vale per una quota giudia: un punto contro. E nel calcolo finale, il risultato dev’essere come minimo: due terzi più uno! Un terzo di dozzina = 4; due terzi = 8 + 1 = 9. Chi va a giudizio deve presentare come minimo 9 quote ariane. Se ne ha di meno, foss’anche per una mezza quota, risulta di sangue giudio».

A casa, da sola, Ida si internò in un calcolo complicato. Per se stessa, invero, la soluzione era semplice: di padre ariano, e di madre ebrea pura da lontane generazioni, lei non possedeva che sei quote su dodici, e dunque risultato negativo. Ma il caso per lei principale, cioè Nino, le riusciva più astruso, e qua il conto, nel farlo e rifarlo, le si imbrogliava nel cervello. Si indusse allora a tracciare per iscritto su un foglio un albero genealogico di Nino, dove una E distingueva i nonni e bisavi ebrei, e una A gli ariani (un segno X sostituiva i nomi che qui al momento le sfuggivano dalla memoria):

 

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E il conto qui le risultò propizio. Nino, sia pure di minimo, rientrava nel punteggio dovuto; nove quote su dodici capi. Ariano!

Questo risultato, però, non poteva bastare a darle pace, neanche sul conto del figlio. Troppo variabili e oscuri le rimanevano, nel futuro e nello stesso presente, i termini reali della legge. Essa ricordò, per esempio, di avere udito in Calabria da un emigrante americano che il sangue scuro vince sempre sul sangue pallido. Basta una goccia di sangue nero in un cristiano per riconoscergli che non è bianco, ma è negro incrociato.