1.
Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell’ora, come d’uso, poca gente girovagava per le strade. Nessuno dei passanti, poi, guardava il soldato, perché i Tedeschi, pure se camerati degli Italiani nella corrente guerra mondiale, non erano popolari in certe periferie proletarie. Né il soldato si distingueva dagli altri della sua serie: alto, biondino, col solito portamento di fanatismo disciplinare, e, specie nella posizione del berretto, una conforme dichiarazione provocatoria.
Naturalmente, per chi si mettesse a osservarlo, non gli mancava qualche nota caratteristica. Per esempio, in contrasto con la sua andatura marziale, aveva uno sguardo disperato. La sua faccia si denunciava incredibilmente immatura, mentre la sua statura doveva misurare metri 1,85, più o meno. E l’uniforme, - cosa davvero buffa per un militare del Reich, specie in quei primi tempi della guerra - benché nuova di fattura e bene attillata sul suo corpo magro, gli stava corta di vita e di maniche, lasciandogli nudi i polsi rozzi, grossi e ingenui, da contadinello o da plebeo.
Gli era capitato, invero, di crescere intempestivamente, tutto durante l’ultima estate e autunno; e frattanto, in quella smania di crescere, la faccia, per difetto di tempo, gli era rimasta ancora uguale a prima, tale che pareva accusarlo di non avere neanche la minima anzianità richiesta per l’infimo suo grado. Era una semplice recluta dell’ultima leva di guerra. E fino al tempo della chiamata ai suoi doveri militari, aveva sempre abitato coi fratelli e la madre vedova nella sua casa nativa in Baviera, nei dintorni di Monaco.
La sua residenza, precisamente, era il villaggio campestre di Dachau, che più tardi, alla consumazione della guerra, doveva rendersi famoso per il suo limitrofo campo di «lavoro e di esperienze biologiche». Ma, ai tempi che il ragazzo cresceva nel villaggio, quella macchina delirante di massacro era ancora alle sue prove iniziali e clandestine. Nelle adiacenze, e fino all’estero, essa veniva addirittura lodata come una sorta di sanatorio modello per i devianti… A quei tempi, il numero dei suoi soggetti era di cinque o seimila forse; ma il campo doveva farsi di anno in anno più popoloso. Da ultimo, nel 1945, la cifra totale dei suoi cadaveri fu di 66428.
Però le esplorazioni personali del soldato, come non potevano spingersi (ovviamente) fino all’inaudito avvenire, così pure nei confronti del passato, e dentro lo stesso presente, erano rimaste finora assai confuse, poche e ristrette. Per lui, quel villaggetto materno in Baviera significava l’unico punto chiaro e domestico nel ballo imbrogliato della sorte. Fuori di là, finché non s’era fatto guerriero, aveva frequentato soltanto la prossima città di Monaco, dove andava per qualche lavoro di elettricista e dove, da non molto, aveva imparato a fare l’amore, con una prostituta anziana.
La giornata d’inverno, a Roma, era coperta e sciroccale. Era finita ieri l’Epifania «che tutte le feste si porta via», e appena da pochi giorni il soldato aveva concluso la sua licenza natalizia, passata a casa con la famiglia.
Di nome si chiamava Gunther. Il cognome rimane sconosciuto.
Lo avevano scaricato a Roma quella mattina stessa, per una brevissima tappa preparatoria lungo il viaggio verso una destinazione finale, la quale era di conoscenza riservata allo Stato Maggiore, però ignota alle truppe. Fra i camerati del suo reparto, si congetturava in confidenza che la mèta misteriosa fosse l’Africa, dove s’intendeva, pare, predisporre dei presidii, in difesa dei possedimenti coloniali dell’Italia alleata. Questa notizia lo aveva elettrizzato, in partenza, con la prospettiva di un’autentica avventura esotica.
AFRICA! Per uno appena cresciuto, che i suoi viaggi li faceva in bicicletta o sull’autobus che porta a Monaco, questo è un nome!
AFRICA! AFRICA!!
…Più di mille soli e diecimila tamburi
zanz tamtam baobab ibar!
Mille tamburi e diecimila soli
sugli alberi del pane e del cacao!
Rossi arancioni verdi rossi
le scimmie giocano al calcio con le noci di cocco
Ecco il Capo Stregone Mbunumnu Rubumbu
sotto un ombrello di penne di pappagallo!!!
Ecco il predone bianco a cavallo d’un bufalo
che batte i monti del Drago e dell’Atlante
zanz tamtam baobab ibar
nelle gallerie delle foreste fluviali
dove i formichieri ci saltano a stormi!
Ho una capanna aurifera e diamantifera
e sul mio tetto uno struzzo ci ha fatto il nido
vado a ballare coi cacciatori di teste
Ho incantato un serpente a sonagli.
Rossi arancioni verdi rossi
dormo su un’amaca nel Ruwenzori
Nella zona delle mille colline
acchiappo i leoni e le tigri come lepri
Vado in canoa sul fiume degli ippopotami
mille tamburi e diecimila soli!
Acchiappo i coccodrilli come lucertole
nel Lago Ngami
e nel
Limpopo.
…Questo, qua in Italia, era il suo primo sbarco all’estero; e poteva già servirgli come anticipo per la curiosità e l’eccitamento. Ma anche prima di arrivare, all’uscita dai confini di Germania, lo aveva sorpreso un’orrenda e solitaria malinconia, che denunciava la sua indole non formata piena di contrasti. Un po’, difatti, il ragazzo era impaziente di avventura; ma un altro po’ rimaneva, a sua stessa insaputa, un mammarolo. Un po’, si prometteva di compiere azioni ultraeroiche, da fare onore al suo Führer; e, un altro po’, sospettava che la guerra fosse un’algebra sconclusionata, combinata dagli Stati Maggiori, ma che a lui non lo riguardava per niente. Un po’, si sentiva pronto a qualsiasi brutalità sanguinosa; e un altro po’, durante il viaggio, ruminava continuamente un’amara compassione della sua prostituta di Monaco, al pensare che ormai quella troverebbe pochi clienti, perché era vecchia.
Via via che il viaggio procedeva verso il sud, l’umore triste, in lui, prevalse su ogni altro istinto, fino a renderlo cieco ai paesaggi, alla gente e a qualsiasi spettacolo o novità: «Eccomi portato di peso», si disse, «come un gatto dentro un sacco, verso il Continente Nero!» Non Africa pensò, stavolta, ma proprio Schwarzer Erdteil, Continente Nero: vedendo l’immagine d’un tendone nero che già fin d’ora gli si stendeva sopra all’infinito, isolandolo dai suoi stessi compagni presenti. E sua madre, i suoi fratelli, i rampicanti sul muretto di casa, la stufa dell’ingresso, erano una vertigine che si allontanava al di là di quel tendone nero, come una galassia in fuga per gli universi.
In questo stato, giunto alla città di Roma, usò del suo permesso pomeridiano per buttarsi solo, a caso, nelle strade prossime alla caserma dove avevano sistemato il suo convoglio per la sosta. E capitò nel quartiere di San Lorenzo senza nessuna scelta, come un imputato accerchiato dalle guardie che, oramai, della sua ultima libertà irrisoria non sa più che farsene, meno che d’uno straccio.
Sapeva esattamente numero 4 parole in tutto d’italiano, e di Roma sapeva soltanto quelle poche notizie che s’imparano alla scuola preparatoria. Per cui gli fu facile supporre che i casamenti vecchi e malridotti del quartiere San Lorenzo rappresentassero senz’altro le antiche architetture monumentali della Città Eterna! e all’intravvedere, oltre la muraglia che chiude l’enorme cimitero del Verano, le brutte fabbriche tombali dell’interno, si figurò che fossero magari i sepolcri storici dei cesari e dei papi. Non per questo, tuttavia, si fermò a contemplarli. A quest’ora, per lui Campidogli e Colossei erano mucchi d’immondezza. La Storia era una maledizione. E anche la geografia.
Per dire il vero, l’unica cosa che in quel momento lui andasse cercando, d’istinto, per le vie di Roma, era un bordello. Non tanto per una voglia urgente e irresistibile, quanto, piuttosto, perché si sentiva troppo solo; e gli pareva che unicamente dentro un corpo di donna, affondato in quel nido caldo e amico, si sentirebbe meno solo. Ma per uno straniero nella sua condizione, e in quell’umore torvo e forastico che l’opprimeva, c’era poca speranza di scoprire un simile rifugio là in giro, a quell’ora e senza nessuna guida. Né per lui si poteva contare sulla fortuna d’un incontro di strada occasionale: giacché, pur essendosi sviluppato, senza quasi saperlo, in un bel ragazzetto, il soldato Gunther era tuttora piuttosto inesperto, e in fondo anche timido.
Ogni tanto, si sfogava a calci contro i selci che gli capitavano fra i piedi, forse distraendosi, per un attimo, nella fantasia, con la finzione d’essere il famoso Andreas Kupfer, o qualche altro suo proprio idolo calcistico; ma immediatamente si ricordava della propria uniforme di combattente del Reich. E riprendeva il suo contegno, con una scrollata che gli spostava un poco il berretto.
L’unica tana che gli si offerse, in quella sua misera caccia, fu un seminterrato, giù da pochi gradini, che portava l’insegna: Vino e cucina - Da Remo; e rammentando che quel giorno, per mancanza di appetito, aveva regalato il proprio rancio a un camerata, subito avvertì un bisogno di cibo, e si calò in quell’interno, accarezzato da una promessa di consolazione, sia pure minima.
Sapeva di trovarsi in un paese alleato: e si aspettava, dentro quella cantina accogliente, non certo le cerimonie dovute a un generale, ma senz’altro una familiarità cordiale, e simpatica. Invece, sia l’oste che il garzone lo accolsero con una freddezza svogliata e diffidente e con certe occhiate storte che gli fecero passare la fame subito. E allora, invece di sedersi per mangiare, rimasto in piedi al banco ordinò minacciosamente del vino; e lo ottenne, dopo qualche resistenza dei due, e qualche loro confabulazione privata nel retrobottega.
Non era per niente un bevitore; e, in ogni caso, al sapore del vino preferiva quello della birra, a lui più familiare fin da quando era piccolo. Ma per dimostrazione contestataria al garzone e all’oste, in arie sempre più minacciose si fece servire, una dopo l’altra, cinque misure da un quarto, e le vuotò tracannandole a gran colpi, come un bandito della Sardegna. Quindi, buttò violentemente sul banco quasi tutti i pochissimi soldi che aveva in tasca; mentre una rabbia lo tentava a buttare all’aria il banco e i tavoli, e a comportarsi non più da alleato, ma da invasore e da assassino. Però una leggera nausea, che gli saliva dallo stomaco, lo trattenne da ogni azione. E con passo ancora abbastanza marziale risortì all’aria aperta.
Il vino gli era sceso alle gambe, e salito alla testa. E nel putrido scirocco della strada, che gli gonfiava il cuore a ogni respiro, lo prese una voglia impossibile d’essere a casa, rannicchiato nel suo letto troppo corto, fra l’odore freddo e paludoso della campagna e quello tiepido del cavolo cappuccio che sua madre ribolliva in cucina. Però, grazie al vino, questa enorme nostalgia, invece di straziarlo, lo rese allegro. Per chi va in giro mezzo ubriaco, tutti i miracoli, almeno per qualche minuto, sono possibili. Può posarglisi davanti un elicottero di ritorno immediato per la Baviera, o arrivargli per l’aria un radiomessaggio, che gli annuncia un prolungamento della sua licenza fino a Pasqua.
Fece ancora qualche passo sui marciapiedi, poi svoltò a caso, e al primo portone che trovò si fermò sulla soglia, con la intenzione spensierata di accucciarsi là dentro, e dormire, magari su un gradino o in un sottoscala, come s’usa di carnevale alle feste in costume, quando si fa quel che ci pare senza che nessuno ci badi. S’era scordato dell’uniforme; per un buffo interregno sopravvenuto nel mondo, l’estremo arbitrio dei bambini adesso usurpava la legge militare del Reich! Questa legge è una commedia, e Gunther se ne infischia. In quel momento, qualsiasi creatura femminile capitata per prima su quel portone (non diciamo una comune ragazza o puttanella di quartiere, ma qualsiasi animale femmina: una cavalla, una mucca, un’asina!) che lo avesse guardato con occhio appena umano, lui sarebbe stato capace di abbracciarla di prepotenza, magari buttato ai piedi come un innamorato, chiamandola: Meine Mutter! E allorché di lì a un istante vide arrivare dall’angolo un’inquilina del caseggiato, donnetta d’apparenza dimessa ma civile, che in quel punto rincasava, carica di borse e di sporte, non esitò a gridarle: «Signorina! Signorina!» (era una delle 4 parole italiane che conosceva). E con un salto le si parò davanti risoluto, benché non sapesse, nemmeno lui, che cosa pretendere.
Colei però, al vedersi affrontata da lui, lo fissò con occhio assolutamente disumano, come davanti all’apparizione propria e riconoscibile dell’orrore.