2.
Con l’avanzare della buona stagione, le incursioni aeree sulle città italiane quell’anno si moltiplicarono, via via più furiose; e i bollettini militari, per quanto recitassero la parte dell’ottimismo, accusavano ogni giorno distruzioni e stragi. Roma, tuttavia, veniva risparmiata; ma la gente oramai snervata, e impaurita dalle notizie strane che correvano dovunque, incominciava a sentirsi meno sicura. Le famiglie possidenti si erano trasferite in campagna; e i rimasti (la grande folla) incontrandosi in istrada, sui tram, negli uffici si guardavano in faccia fra loro, anche fra sconosciuti, tutti con la stessa domanda assurda nelle pupille.
In qualche luogo della mente di Ida, non chiaro alla sua ragione, vi fu in quell’epoca un piccolo rivolgimento brutale, che la rese morbosamente sensibile agli allarmi (già diventati usuali e indifferenti per lei) suscitandole d’un tratto una riserva di energia quasi impossibile. Per tutto il rimanente, essa tirava avanti la sua vita di lavoro scolastico e domestico allo stesso modo di prima, in una specie di estasi negativa. Ma alla prima voce della sirena, immediatamente era presa da un pànico disordinato, come un meccanismo che corre in folle per una discesa. E sia che si trovasse sveglia o addormentata, in qualsiasi momento, a precipizio si agganciava sul corpo il busto (in cui sempre teneva i suoi risparmi); e, preso in collo Useppe, con una forza nervosa innaturale fuggiva con quel peso giù dabbasso, a cercare salvezza nel rifugio.
Il quale poi, per lei e gli altri inquilini della sua scala, si era istituito di là dal caseggiato e proprio nei locali di quella medesima cantina-osteria, dove, tre inverni prima, il ragazzo tedesco Gunther era sceso a bere.
Certe volte, Useppe, in braccio a lei, non era un peso docile; ma si dibatteva piangendo in risposta al dolore di Blitz, che li accompagnava col suo lamento incessante di dietro la porta chiusa. Del cane, difatti, Ida non si dava nessuna pena: lasciandolo in casa, durante gli allarmi, abbandonato al suo destino; ma lui, da parte sua, non si rassegnava allo strappo.
Ninnarieddu, quand’era in casa, rideva di queste fughe di Ida; e si rifiutava, con disprezzo, di seguirla nel rifugio. Ma nemmeno la presenza del suo amore principale bastava a consolare Blitz; il quale, per tutta la durata dell’allarme, seguitava a correre avanti e indietro dalla porta d’ingresso a lui: tornando a leccargli le mani, e a riguardarlo negli occhi coi suoi occhi marrone, appassionati e persuasivi. Sempre insistendo in un suo lamento catastrofico, che ripeteva, su un’unica nota, senza mai smetterla, come una fissazione: «Per carità, andiamo con loro così, se loro si salvano, ci si salva tutti; e se dobbiamo crepare, crepiamo tutti insieme».
Alla fine, per non condannare Blitz a un simile strazio maniaco, Ninnarieddu, benché annoiato e riluttante, una volta per tutte si decise a contentarlo: scendendo insieme a lui - tutta la famiglia al completo, - giù nella cantina dell’oste. E da allora, tutte le volte che in casa c’era Nino, gli allarmi aerei diventarono un’occasione di divertimento, attesa e desiderata, specie, poi, se capitavano di notte: perché allora finalmente, ci si poteva dare alla vita notturna, insieme a Nino.
Appena il famoso ululato schiantava il buio, Blitz era subito pronto, come all’annuncio trascendentale di una festa primaria. E lasciato in un salto il suo posto sul divanoletto (dove sempre dormiva, addosso a Ninnarieddu) si affaccendava a dare la sveglia a tutti, correndo dall’uno all’altro, e abbaiando con urgenza gioiosa, e sventolando la coda come una bandierina. Del resto Useppe era già sveglio, per suo conto, e ripeteva elettrizzato: «La niena! la niena!»
Il peggiore impazzimento, era svegliare Nino, il quale faceva il sordo, scontroso e insonnolito; così che Blitz doveva riuscire, in certo modo, a buttarlo giù dal letto; e poi seguitava a sollecitarlo mentre lui, tutto sbadigliante, s’infilava la maglietta e i pantaloni: non senza bestemmiare e imprecare, pure contro i cani. Ma così baccagliando, intanto, si svegliava del tutto. Fino al felice istante che, già vispo ormai, pigliava su il guinzaglio: fra gli applausi di Blitz, il quale accorreva, per mettersi il guinzaglio, con la fretta di un nottambulo smanioso che prende la carrozza per andare a ballare.
Poi tosto si passava nella camera vicina, dove Nino rapido si caricava Useppe sulle spalle a cavalluccio. E senz’altro bagaglio (al più, poteva capitare, certe volte, che Useppe si portasse dietro Roma o la noce) Nino, Useppe e Blitz - invero, tre corpi e un’anima - volavano giù per le scale: distanziando Ida, che veniva dietro sola, e brontolante, con la borsa stretta al petto.
Frattanto, dalle altre porte e per il cortile, tutte le famiglie, in camicia, in sottabito, coi pupetti in braccio, e strascicando le valige per le scale, andavano correndo verso i rifugi. E sopra le loro voci, dall’alta lontananza, già si avvicinavano i boati della flotta aerea, con un séguito di spari e di lampi e di scoppi, pari a un bengala formidabile. Si sentivano, d’intorno, le famiglie chiamarsi. Qualche ragazzino si sperdeva. Qualcuno, atterrito, correndo inciampava o cadeva. Certe donne urlavano. E Nino rideva a questa paura universale, come a una grande scena comica: accompagnato, in un coro, dall’ilarità ingenua di Useppe e di Blitz.
Quelle nottate in cantina non dispiacevano del tutto a Ninnarieddu: anche perché, fra l’altro, laggiù si aveva occasione d’incontrare certe belle ragazzette del vicinato che, di solito, la gelosia delle famiglie non lasciava uscire facilmente. Però, come arrivava dentro il sotterraneo, lui non mancava mai di ostentare il proprio schifo; e tenendosi presso l’entrata, col dorso appoggiato contro la parete in una posa sprezzante, faceva sapere all’uditorio (in particolare alle ragazzette) che lui s’infognava là sotto unicamente per il cane suo; ma per sé, lui delle bombe se ne fregava, anzi le bombe gli mettevano allegria meglio dei petardi! e magari si fosse trattato di allarmi veri! Ma purtroppo questi allarmi di Roma, invece, erano tutti commedie: giacché era risaputo che, per un patto segreto di Ciurcil col papa, Roma era decretata città santa e intangibile, e le bombe, qua, non ci potevano cascare. Chiariti questi punti, senza degnarsi di aggiungere altro, Nino si godeva gli allarmi meglio che poteva.
Del resto, a Ninnarieddu poco importava, in realtà, che crollasse la casa, e si perdessero le proprietà della famiglia: le quali poi consistevano in un paio di letti, o reti, con materassi di kapok, un tessilsacco (con maglie d’inverno e il suo cappotto di cammello che ormai gli stava piccolo, e un cappotto di Ida rivoltato), qualche libro squinternato, eccetera. Anzi, se crollava la casa, il Governo dopo la vittoria avrebbe ripagato i danni con vantaggio. E Nino era già d’accordo con Useppe e Blitz di comperare, con questo indennizzo, un autocarrozzone ammobiliato, per abitarci dentro e fare insieme la vita degli zingari ambulanti.
Quanto poi alla città di Roma, Nino, personalmente, contestava l’idea di risparmiarla con riguardi speciali, esagerati. Su Roma, anzi, secondo lui, poco male se ci cascavano le bombe: visto che il massimo valore di Roma erano le rovine, Colosseo, Foro Traiano, eccetera.
Non di rado, durante gli allarmi, veniva a mancare la luce; e per illuminare la cantina, si accendeva una lampada a acetilene, che ricordava le fiere, coi carretti dei cocomerari. Un conoscente dell’oste per l’occasione aveva fornito il locale di un grammofono portatile; e quando l’allarme si prolungava, Nino, assieme ai suoi amici, per vincere la noia passava il tempo a ballare nel poco spazio con qualche ragazza. Chi si divertiva più di tutti, a questi suoni e a questi balli, era Useppe: il quale, ammattito per la felicità, s’intrufolava fra le gambe dei ballerini, fino a raggiungere il fratello; il quale, ridendo a ritrovarselo là in mezzo ai piedi, lasciata la propria dama si metteva a saltare in tondo con lui.
Certe volte, nel disordine della fuga, Ida aveva tralasciato di vestirlo, contentandosi d’involtarlo dentro a un pezzo di coperta da stiro, o uno scialle, o un cencio qualsiasi. E al cadere, poi, di questo, Useppe s’era ritrovato nel rifugio senz’altro vestito che la sua solita magliettina da notte; ma per lui faceva uguale. E non aveva nessun pensiero di vergogna, nel saltare e nel ballare, come fosse in abito da società.
Pure Blitz, là nel rifugio, aveva occasione d’incontrarsi con qualche altro cane. Salvo la rarità di un cane da caccia, e di un tale volpino vecchio proprietà d’una signora vecchia, erano sempre cani di specie infima, incrociati di bastardi come lui, secchi e allampanati in generale per le privazioni di guerra; ma tutti contenti, quanto lui, dello spasso. E dopo le solite cerimonie di saluto usate fra i cani, lui si metteva a pazziare insieme a loro.
Certe donne allattavano, o lavoravano la maglia; qualche vecchia recitava il rosario, facendosi il segno della croce a ogni scossa più forte sulla città. Qualcuno, appena entrato, si buttava giù disteso dove poteva, a riprendere il sonno interrotto. Certi uomini si raggruppavano in tavolata, giocandosi il vino dell’oste alle carte o alla morra. E talora si accendevano discussioni, che potevano pure terminare in liti o in zuffe, sedate dall’oste o dal capofabbricato.
Già si sa che Ida, per la poca socievolezza e le scarse occasioni, non aveva mai frequentato i vicini, i quali rimanevano per lei delle figure di passaggio, casualmente incontrate per le scale, in cortile o nelle botteghe. E adesso, a scontrarsi con loro nella fuga e a ritrovarseli d’intorno, mezzo familiari e mezzo estranei, ancora maldesta li confondeva a volte con le folle vociferanti dei suoi sogni appena interrotti. Bastava che si sedesse sulla panca, e sùbito l’azione del sonnifero serale la riprendeva; però non le sembrava decoroso per una maestra mettersi a dormire in pubblico; e rannicchiata là in mezzo al chiasso si sforzava di tenere gli occhi aperti; ma ogni tanto crollava, e si riprendeva, asciugandosi la saliva dal mento, e mormorando in un sorrisetto: «scusi, scusi…» Essa aveva incaricato Useppe di svegliarla di quando in quando. E lui, non appena se ne ricordava, le si arrampicava su per i ginocchi per gridarle dentro gli orecchi: «Mà? maà!!» e solleticarla nel collo, con suo proprio enorme divertimento, perché sua madre, sotto il solletico, rideva come una bambina. «Veia, mà?» s’informava poi, sollecito e curioso, quando lei riapriva gli occhi, drogati, e abbagliati dall’acetilene. Essa lì per lì non riconosceva quel sotterraneo; e intontita si stringeva al pupo, per una protezione contro quegli ignoti, forse sgherri o spie… Temeva sempre di dare spettacolo nel sonno; e magari di fare discorsi compromettenti, per esempio: «Il cognome di mia madre è ALMAGIA’» oppure: «Il mio pupetto è un bastardo, figlio di un NAZISTA».
Nel rifugio, oltre alle solite famiglie di quei pressi, capitava pure gente avventizia: passanti casuali, oppure qualche personaggio senza recapito: accattoni, prostitute da poco prezzo, e trafficanti di borsa nera (coi quali Nino, sempre alla caccia di soldi, intrecciava, in quelle notti, certi minimi commerci misteriosi). Alcuni di costoro, provenienti da Napoli, raccontavano che la città, dai cento bombardamenti che aveva avuto, era ridotta a un cimitero e a un carnaio. Tutti quelli che potevano ne erano fuggiti; e i poveri pezzenti che c’erano rimasti, per ripararsi andavano ogni sera a dormire dentro le grotte, dove avevano portato materassi e coperte. Ormai le strade cittadine erano un deserto di macerie, appestate di decomposizione e di fumo, sotto il fuoco delle Fortezze Volanti che ci si abbattevano ogni giorno.
In quell’unica occasione memorabile che era stata a Napoli, per una visita di due ore, durante il suo viaggio di nozze, Iduzza era ancora una novellina, che fuori della sua provincia non aveva veduto altro. E così, Napoli era rimasta nella sua memoria come una Bagdad leggendaria, più grandiosa assai di Roma. Ora, a quella sua visione unica e inuguagliabile si sostituiva una distesa rovinosa, grande come l’Asia, e calcinata di sangue: dove anche i troni dei re e delle regine e i miti delle città-madri studiati a scuola, con altre sue fantasie, venivano travolti.
Ma Ninnarieddu nei racconti dei napoletani sentiva piuttosto la seduzione di quella esistenza avventurosa dentro grotte e caverne marine, la quale gli si prometteva piena di imprevisti e di fortune amorose, di rischio e di anarchia. E, come uno che dalla provincia vuole fuggire nella metropoli, già meditava di andarsene a Napoli in compagnia di uno dei suoi nuovi conoscenti borsari neri. Difatti, da parecchie settimane, oramai, aveva interrotto la commedia degli studii; e le scuole intanto s’erano chiuse per conto loro. La guerra, conclusa in Africa, s’avvicinava al territorio italiano, tutti i paesi erano in fuoco. Lui era stufo della Città Santa, dove la guerra si faceva per finta, combinata nei Vaticani e nei Ministeri; e la voglia dei luoghi senza santità, dove quello che doveva bruciare, bruciava, lo assaliva a momenti fino alla nausea, come un attacco di febbre incendiaria. Se i Regimi non volevano ammetterlo combattente, perché troppo piccolo (!), lui si sarebbe arrangiato a fare la guerra per conto suo!
Ma in quegli stessi giorni, invece, il suo voto costante fu esaudito. Le vicende disastrose della guerra fascista favorivano le assunzioni di volontari, pronti a dare la vita per il Duce; e prima della fine di giugno, Ninnarieddu, per quanto ancora mezzo bambino, trovò modo di farsi accogliere in un battaglione di Camicie Nere, in partenza verso il nord.
Vestito da armato, invero, faceva la figura di un ragazzetto; ma la sua espressione era superba, anzi proterva; e già mostrava qualche insofferenza anche della disciplina militare. Una sua preoccupazione seria, alla partenza, era Blitz, che necessariamente doveva lasciare a Roma; e non fidandosi per niente della madre, lo raccomandò al fratello Useppe, stringendogli con solennità la manuccia, in un vero patto di onore e d’importanza.