Preghiera e liturgia
Nei tempi antichi d'Israele non esisteva praticamente altra forma di culto se non quella dell'offerta a Dio, del sacrificio. Se ancora Giacobbe poteva offrire un sacrificio in un qualunque luogo adatto (si veda ad esempio Genesi 31, 54), se a Mosè viene ordinato da Dio di erigere il tabernacolo che dovrà contenere l'arca dell'alleanza con dentro le tavole dei Dieci Comandamenti, davanti al quale si offriranno i sacrifici, è con la costruzione del Tempio che viene definitivamente sancita la centralità del culto nell'antico Israele. Nel capitolo dodicesimo di Deuteronomio si dice infatti che Dio ordina di distruggere tutti gli altari del paese, e di recare le proprie offerte solo e soltanto in un certo luogo. Il Tempio sorge, secondo la tradizione, esattamente nel punto in cui Abramo s'apprestava a sacrificare Isacco, che è anche l'«ombelico» del mondo, là dove Dio ha iniziato la creazione. E' al re Salomone che si deve la costruzione del grande santuario di Gerusalemme, situato là dove oggi sorgono due grandi moschee, sulla spianata che ancora ne porta il nome. Una parte non irrilevante della Torah, cioè del Pentateuco, in particolare di Levitico e Numeri, è dedicata alla regolamentazione del sacrificio e delle offerte votive con cui celebrare il Signore al Tempio, in questo unico luogo sacro agli ebrei.
Pur testimoniando la Bibbia vari momenti di preghiera in cui l'uomo si rivolge a Dio, l'antico Israele non conosce praticamente altra forma di culto collettivo, pubblico, che non sia il sacrificio - attraverso la mediazione dei sacerdoti, che presentano materialmente l'offerta o la vittima sacrificale sull'altare, coadiuvati dai leviti. Non c'è forse libro al mondo in cui l'uomo più parli con Dio: ma Abramo, Giacobbe, Isacco, Mosè, e poi anche Samuele e Davide e i profeti, lo fanno quasi sempre a titolo individuale. Non si parla quasi mai di preghiera collettiva, o comunque di preghiera all'interno del rito. Gli israeliti compivano il loro dovere nei confronti del Signore recandosi tre volte all'anno al Tempio, a presentare le proprie oblazioni nel corso delle cosiddette tre feste di pellegrinaggio: Pesach, cioè Pasqua, Shavu'ot, cioè Pentecoste, e Sukkot, cioè la festa dei Tabernacoli o delle Capanne.
Ma già nell'epoca immediatamente successiva al ritorno dall'esilio di Babilonia e con la fine della monarchia davidica, è attestata la presenza in terra d'Israele di alcuni luoghi di preghiera; nella Bibbia si parla anche di letture pubbliche della Legge (ad esempio, al capitolo ottavo del libro di Neemta): si tratta di una cerimonia che anticipa la lettura sinagogale della Torah, elemento fondamentale della liturgia ebraica a partire dalla distruzione del Secondo Tempio, nel 70 d.C.
E' proprio con questo evento, non solo tragico ma anche cruciale per la vita del popolo ebraico, che va necessariamente riformulato il rapporto con Dio. Dal momento che l'unico luogo lecito per il sacrificio era quello in cui sorgeva il Tempio ormai distrutto e inaccessibile, dal momento che l'arca santa era andata perduta, il culto tradizionale costituito dai sacrifici e dalle offerte a Dio divenne irrealizzabile.
L'ebraismo dovette elaborare un nuovo modo di porsi di fronte a Dio. E lo ha fatto formulando un insieme di preghiere collettive, creando un luogo che, pur se privo della santità del Tempio, doveva in qualche modo sostituirlo.
Fu così che incominciò la storia della sinagoga, parola greca che significa «riunione», «luogo di aggregazione», del tutto omologa al termine ebraico bei knesset: essa divenne il luogo esclusivo della liturgia ebraica. In sinagoga, come si è detto, il ciclo annuale di lettura prevede che di sabato in sabato si completi la lettura dell'intera Torah, le cui porzioni settimanali sono associate a passi tratti dai profeti e dagli agiografi. Qui ha luogo anche la preghiera quotidiana, scandita in tre momenti, e hanno luogo tutte le celebrazioni del calendario, gioiose o tristi che siano. La preghiera sinagogale ha valore pubblico solo se vi presenziano almeno dieci maschi ebrei; altrimenti non è più una funzione collettiva e diviene un'occasione in cui ognuno si rivolge a Dio in forma «privata», individuale, con la conseguenza che alcune parti del rituale vengono omesse. 'ALENU
LE-SHABBEACH. Letteralmente «è nostro dovere lodare». E' l'inno che conclude i tre momenti della preghiera nel corso della giornata. La tradizione vuole che questo testo sia stato composto da Giosuè nel momento in cui entrava nella Terra Promessa. Più probabilmente esso risale al III secolo d.C. L'inno contiene parole di esaltazione verso Dio e una ferma coscienza della sua unità, oltre al rifiuto per ogni forma di idolatria. Si dice che venisse recitato dai martiri ebrei nel momento in cui morivano sul rogo, falsamente accusati di omicidio rituale, di uccidere bambini cristiani e mischiarne il sangue all'impasto per il pane azzimo.
AMEN. E' questa una parola ebraica che deriva da una radice molto comune: aman, che significa «essere saldi», «stabili», «aver fiducia», «credere fermamente». La parola amen ricorre quattordici volte nella Torah come formula conclusiva, o di risposta nella preghiera. Nel linguaggio della preghiera, ma non soltanto, pronunciando amen (con l'accento sull'ultima sillaba), ci si dichiara fermamente concordi con quanto è stato ascoltato o ripetuto. La parola emunah, che deriva dalla stessa radice, significa comunemente «fede».
'AMIDAH. La parola significa letteralmente «posizione in piedi», e dà il suo nome al momento centrale delle tre preghiere quotidiane. E' detta anche skemoneh 'esreh, cioè «diciotto benedizioni». Come dice la parola stessa, è recitata in piedi e con molta concentrazione, prima sottovoce da ognuno degli oranti, e poi ad alta voce dal chazzan. Durante la preghiera si volge il viso in direzione del Tempio di Gerusalemme, indicata di norma in sinagoga, ma anche in casa, da una piastra decorata detta mizrach, che significa oriente. La 'amidah è anche detta tefillah, cioè preghiera per antonomasia.
ANI MAAMIN. «Io credo». E' la dichiarazione di fede, basata sui cosiddetti tredici capitoli di Mosheh Maimonide, filosofo, medico, maestro della tradizione. Con essa si afferma l'unicità del Creatore, la sua incorporeità, la sua eternità, oltre alla verità della parola profetica, alla dignità di Mosè come massimo profeta, all'immutabilità della Torah, alla conoscenza assoluta di Dio, al fatto che Egli punisca e ricompensi l'uomo, alla venuta del messia, alla resurrezione. L'Ani maamin è di norma recitato alla fine della preghiera mattutina. Nel corso dei secoli i maestri hanno lungamente discusso in merito a questi tredici articoli di fede. Quanto a questa formulazione, anch'essa ha accompagnato il popolo ebraico nelle sue molteplici traversie: molti fedeli si sono avviati verso le camere a gas, nell'orrore del campo di sterminio, intonando a bassa voce Ani maamin.
ARON HA-QODESH. «Arca Santa», «arca», cioè più letteralmente «armadio», «contenitore». Si tratta di uno scomparto della sinagoga dentro il quale viene tenuto il Sefer Torah, vale a dire il rotolo del Pentateuco scritto a mano su pergamena. E' questo il luogo più prezioso della sinagoga, concepito a immagine di quell'arca del patto, Aron ha-berit, che conteneva le tavole della legge ricevute da Mosè sul Sinai, e che viaggiò con i figli d'Israele finché fu traslata definitivamente nel Tempio. Da cui scomparve, a quanto pare, ai tempi del re Giosia: la si rivedrà soltanto, dice la tradizione, con l'arrivo del tempo messianico.
Tornando all'armadio che contiene i rotoli della Torah in sinagoga, e cioè Yaron ha-qodesh, esso si trova normalmente addossato al muro della sinagoga che è rivolto a oriente, cioè in direzione di Gerusalemme.
Spesso ornato di fregi, l'aron haqodesh è velato da un telo ricamato che sta appeso davanti e si chiama paroket. Quando l'armadio viene aperto, in segno di deferenza verso la Torah, ci si alza in piedi.
ASHAMNU. «Abbiamo peccato». Si tratta di un acrostico alfabetico che enumera i peccati commessi, recitato durante il giorno del Kippur, in segno di espiazione. E' uso battersi il petto per ogni trasgressione pronunciata.
AVINU MALKENU. «Nostro padre nostro re», una preghiera composta di suppliche e invocazioni, che si recita in sinagoga nel corso dei dieci giorni penitenziali e delle ricorrenze di digiuno. La tradizione talmudica la ritiene una sorta di improvvisazione di rabbi 'Aqiva, durante un periodo di siccità. A Rosh ha-Shanah (Capodanno) e Kippur (digiuno di espiazione), questa preghiera sostituisce l'hallel: il Talmud dice in proposito che nei momenti in cui Dio giudica gli uomini, come appunto questi, è meglio esprimere suppliche che profondersi in inni di gloria.
BAREKU. «Benedite». E' la formula che introduce la parte centrale della preghiera quotidiana, costituita dello Shema', insieme alle diciotto benedizioni, dette anche 'Amidah. E' tratta da Neemia 9,5: «Alzatevi, e benedite il Signore, vostro Dio, per tutti i secoli dei secoli e si benedica il suo nome glorioso ed esaltato sopra ogni benedizione e lode».
BENEDIZIONE. In ebraico berakah. E' un concetto assai ampio e carico di significati, assai più di quanto non possa rendere l'italiano. Essa è per un verso la più consueta e frequente formula della preghiera, nel corso della quale l'uomo benedice Dio, innalzando un inno di lode e ringraziamento. La formula è quel «benedirai l'Eterno tuo Dio» che compare in Deuteronomio 8,10, e la menzione di Dio è quasi sempre associata al suo venire benedetto, con il breve inciso: «Il Signore, sia Egli benedetto...» Esistono varie benedizioni che accompagnano atti quotidiani e straordinari come il pasto, un viaggio, una casa nuova.
Esiste anche, però, una benedizione che l'uomo impartisce al suo prossimo, in particolare ai figli, ed è una forma di augurio; ed esiste infine quella benedizione con la quale Dio gratifica le creature, che significa sostanzialmente favore, prosperità. Le benedizioni quotidiane che l'ebreo recita normalmente sono cento, a incominciare da quella che accompagna l'abluzione delle mani, appena alzati, per finire con quella che si pronuncia un attimo prima di coricarsi, in cui si prega Dio di non farsi turbare da brutti sogni, e di far sì che il sonno della notte non diventi quello della morte.
BET KNESSET. Letteralmente «casa di riunione». Anche l'attuale parlamento israeliano, ad esempio, che ha la sua sede a Gerusalemme, si chiama Knesset. Bet knesset o anche bel ha-knesset indica però quello che è stato il luogo di aggregazione per eccellenza della vita nella Diaspora: la sinagoga. Essa infatti non è soltanto il luogo dove ci si reca per pregare nella quotidianità dei giorni feriali, e nella solennità del sabato e delle feste. E' anche un luogo di studio - non per niente nella tradizione ashkenazita il termine yiddish per sinagoga era proprio schul, cioè «scuola». Un tempo essa era anche quel luogo dei piccoli centri ebraici in cui pernottava l'ebreo forestiero, di passaggio. La sinagoga non è concepita come un luogo sacro, piuttosto come la sede in cui l'uomo santifica con la preghiera e lo studio la propria esistenza. La nascita di questa istituzione risale probabilmente già all'epoca del primo esilio, a Babilonia nel VI secolo a.C., quando, lontani dal proprio luogo di culto - il Tempio -, gli israeliti incominciarono a sostituire la pre ghiera al sacrificio e all'offerta votiva. Nella lunga storia della Diaspora, la sinagoga diventa veramente il fulcro della vita delle comunità, grandi o piccole, composite od omogenee che siano.
BIMAH. Propriamente «palco», «luogo rialzato», e in origine altare eretto all'aria aperta; indica attualmente quel ripiano della sinagoga dove ci si reca a leggere la Torah e a condurre la preghiera. Nelle comunità ortodosse essa è posta al centro del locale.
BIRKAT HA-MAZON. «Benedizione del pasto», basata su Deuteronomio 8,10: «Mangerai, ti sazierai e benedirai il Signore, tuo Dio, della buona terra che ti avrà dato». Si recita a conclusione di qualunque pasto che includa la consumazione del pane. La tradizione ascrive rispettivamente a Mosè, Giosuè, Davide e Salomone, le quattro parti della benedizione, che comprendono una lode a Dio che alimenta le creature e che ha dato la Torah e la terra d'Israele, una preghiera per il ritorno a Sion e a Gerusalemme, e un inno di gratitudine al Creatore che elargisce i suoi beni al mondo.
BIRKAT KOHANIM. La benedizione sacerdotale, detta appunto in ebraico Birkat Kohanim, cioè «benedizione dei sacerdoti», è forse l'esempio più classico di quel filo sottile di continuità che lega il servizio liturgico del Tempio di Gerusalemme alla preghiera in sinagoga. Essa è infatti passata direttamente dal Tempio alla casa di preghiera. In Israele viene recitata quotidianamente, nelle comunità della Diaspora solo in occasione delle grandi feste. Il testo della benedizione si riconduce precisamente a Numeri 6,22-27: «Il Signore parlò a Mosè e gli disse: Parla ad Aronne e ai suoi figli, dicendo: Così benedirete i figli d'Israele dicendo loro: Il Signore ti benedica e ti guardi; il Signore faccia risplendere il tuo volto su di te e ti sia propizio; il Signore levi il suo volto su di te e ti dia la pace. Così metteranno il mio nome sopra i figli d'Israele e io li benedirò». Effettivamente il ruolo dei kohanim, cioè i sacerdoti, stirpe di Aronne, la cui appartenenza si tramanda di generazione in generazione, è quello di rivolgere al popolo d'Israele la benedizione che giunge da Dio. A partire dalla caduta del Tempio infatti, i sacerdoti non sono più «in carica», tuttavia tramandano consapevolmente il proprio ruolo - di padre in figlio attraverso il nome che portano (Cohen, Sacerdoti, Coen, in Italia, giusto per dare qualche esempio); durante la benedizione si levano le scarpe, si lavano le mani, salgono accanto aNaron ha-qodesh e con il viso rivolto al pubblico recitano la benedizione accompagnando la voce del chazzan. Lo fanno coprendosi il capo e le mani tese in avanti con la tallii, lo scialle di preghiera. La tradizione vuole che in quel momento non si debba guardare queste mani sulle quali aleggia il fulgore di una luce celeste, inviata da Dio. La stessa benedizione è impartita in casa dai padri ai figli il venerdì sera, all'entrata del sabato, nonché in altre particolari occasioni.
CHAZZAN. E' il cantore della sinagoga, colui che conduce i fedeli durante la preghiera con la sua voce possente. Non va dimenticato che gran parte del rituale ebraico è cantato o quanto meno cantilenato. Un tempo il ruolo del chazzan, non solo durante la preghiera ma nell'ambito complessivo della vita della comunità, era di primaria importanza; a volte egli esercitava la funzione di maestro; spesso era anche poeta e musicista. In tempi di libri manoscritti, cioè assai più rari e costosi di oggi, capitava che fosse l'unico membro della comunità a disporre di una copia del testo delle preghiere.
DICIOTTO BENEDIZIONI. In ebraico Shemoneh 'Esreh, cioè «diciotto». Si veda anche 'Amidah. E' il momento centrale della preghiera quotidiana, recitata tre volte al giorno. Le benedizioni sono in realtà una di più, aggiunta intorno alla fine del I secolo d.C., a proposito di coloro che sono nemici del popolo. Molto hanno indagato i maestri sul significato del numero diciotto che corrisponde, ad esempio, alle volte in cui Dio è menzionato nel capitolo 29 dei Salmi, così come nella preghiera dello Shema'. Lo schema di questa preghiera è assai variegato. C'è dapprima una formulazione dell'onnipotenza di Dio:
«Benedetto sii Tu, Signore nostro Dio e Dio dei nostri padri, Dio di Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe, Dio grande possente e mirevole, Dio altissimo che usi benigna misericordia e di tutto sei il padrone, che ricordi gli atti di pietà dei padri e fai giungere un liberatore per i figli dei loro figli, in grazia del Tuo nome, con amore». Seguono le richieste di una serie di valori: l'intelligenza, la morale, il perdono, il benessere, il raduno degli esiliati, la giustizia, il castigo per i nemici di Dio, la ricompensa per i giusti, la ricostruzione di Gerusalemme, il messia, il realizzarsi delle preghiere. Infine, l'uomo si consacra al Signore, affermando la propria pochezza e ribadendo la propria devozione: «O mio Dio, preserva la mia lingua dal male e le mie labbra dal pronunciare inganno. Fa' che non abbia a reagire verso chi mi oltraggia [...] Siano graditi i detti della mia bocca e le meditazioni del mio cuore, al Tuo cospetto, o Signore, mia Rocca e mio Redentore.
Colui che stabilì la pace nelle sue altezze celesti, conceda la pace a noi e a tutto Israele e dite: Amen».
EL MALE RACHAMIM. «Dio pieno di misericordia»; è una preghiera per l'anima di chi ha lasciato questo mondo, che si recita all'interno del ciclo memoriale (izkor), di grande suggestione spirituale.
ELOHIM. «Dio». Si è molto discusso sull'apparente desinenza plurale di questa parola. Nella Bibbia e nei testi della tradizione Dio è chiamato con molti appellativi, fra i quali, ad esempio, Shadday, cioè «onnipotente», e Tzur, cioè «Rocca». La mistica attribuisce a Dio un gran numero di nomi, oltre all'impronunciabile Tetragramma; per lo più sono considerati settantadue. Un maestro ha anche detto che tutta la Torah non è altro che un elenco di nomi divini.
GABBAY. Il termine indicava propriamente un funzionario della comunità addetto alla riscossione delle imposte e alla gestione delle elemosine.
In tempi più recenti, esso si applica al responsabile della vita religiosa comunitaria, nei suoi aspetti amministrativi e finanziari.
HAFTARAH. E' una parola che deriva probabilmente dalla radice patar, che significa «concludere», «terminare». Essa indica molto specificamente quella breve porzione dei libri dei profeti o degli agiografi che segue la lettura del passo della Torah, (Parashah) nel rito sinagogale del sabato e dei giorni festivi. C'è sempre un nesso, più o meno esplicito, fra il capitolo della Torah oggetto della lettura e il brano di testo profetico, o degli agiografi, che l'accompagna.
HAVDALAH. E' una parola che significa «separazione», «cessazione», e dà il nome a quella cerimonia che conclude il sabato e le feste solenni.
L'havdalab consiste di quattro benedizioni: sul vino, sulle spezie, sulla luce e sulla distinzione fra il sacro e il profano. L'elemento fondamentale della cerimonia è una luce di candela, a memoria di quando Adamo scoprì il fuoco, alla fine del primo sabato della creazione.
Secondo Maimonide, l'uso di diffondere spezie aromatiche è un modo per rinfrancare l'anima intristita dalla fine del sabato. Il Talmud assegna grande importanza al rispetto di questa cerimonia, la cui osservanza garantisce l'ingresso nel mondo a venire.
HALLEL. Parola che significa «lode» e indica più specificamente il passo biblico compreso fra i Salmi 113-118: un inno di gloria a Dio che si recita, in forme diverse, durante alcune feste. Nel corso della festa di Pesach (Pasqua), l'battei è recitato solo per metà, benché all'interno di esso si faccia esplicito riferimento a «quando Israele uscì dall'Egitto»: Dio non vuole infatti gioia assoluta nel momento in cui si rievoca, fra il resto, la morte nelle acque del Mar Rosso dell'esercito egiziano, cioè di creature umane. All'interno della porzione biblica di cui consiste l'hillel, Salmi 136 è chiamato dal Talmud hallei hagadol, «il grande hallel».
IZKOR. detto anche Hazkarah neshamot, è la cerimonia in memoria di un defunto, che si svolge in alcune circostanze solenni, e in particolare nel giorno dell'Espiazione, cioè il Kippur, quando assume una particolare carica di commozione e trasporto spirituale.
KAWWANAH. E' un termine che deriva dalla radice kawan, che significa «indirizzare», «volgere verso», e anche «direzione». In questa accezione significa propriamente «trasporto», «disposizione d'animo», che l'uomo deve avere nel momento in cui recita una preghiera o compie un precetto.
La tradizione assegna grande importanza a questa disposizione dell'animo umano. Secondo Maimonide kawwanah significa che l'uomo deve togliersi dalla mente ogni pensiero personale e considerarsi come se la Shekinah (la Presenza divina) gli stesse di fronte. La kawwanah, l'intenzione con la quale l'uomo si dispone di fronte a Dio, ha un ruolo ancora maggiore nella mistica ebraica, che prescrive un rapporto ancora più intenso ed esclusivo con l'atto o la parola religiosa.
KOHEN. «Sacerdote». Nell'antico Israele i sacerdoti rappresentavano una sorta di casta, cui era assegnato il servizio liturgico e sacrificale al Tempio. A essi, e in particolare al sommo sacerdote, era richiesta una purità particolare, da mantenersi grazie a una serie di rigidi provvedimenti. Un kohen, secondo la legge, non poteva e non può, ad esempio, entrare nello spazio di un cimitero per non contaminarsi, neppure solo per vicinanza, con la morte. Il sacerdozio costituiva una carica che si tramandava ereditariamente, non una funzione che si potesse acquisire: erano sacerdoti solo coloro che discendevano in linea diretta da Aronne, fratello di Mosè. Con l'avvento della monarchia e anche successivamente alla sua caduta, il sommo sacerdote assume una funzione di guida spirituale, e a volte politica, del popolo dell'antico Israele. Dopo la caduta del Secondo Tempio viene meno la funzione attiva dei sacerdoti, ma non si estingue però la linea di discendenza, tramandatasi nel nome: oggi possono dirsi «sacerdoti» coloro che portano per cognome questo o uno affine per suono o significato appellativo (Kahan, Coen); la funzione sacerdotale è richiesta in alcune parti della liturgia sinagogale (vedi ad esempio Eirkat Kohaninì).
KOTEL HA-MA'ARAVI. Il «Muro Occidentale», nome con il quale gli ebrei chiamano il cosiddetto «Muro del Pianto»: è il luogo più solenne e più carico di significati di tutto l'ebraismo, e costituisce un bastione dell'altura del Tempio a Gerusalemme, dove ora sorgono luoghi di culto islamico, la moschea della Roccia e quella di Al-Aksa. La tradizione ebraica considera questo muro l'ultimo residuo del primo Tempio di Gerusalemme, mentre con tutta probabilità esso risale all'epoca della ricostruzione di Erode il Grande (I secolo a.C). E' il luogo ebraico più santo, nel senso che è il più vicino a quel punto della terra in cui sorgeva il Tempio, e in particolare il Santo dei Santi, quell'aula del Santuario in cui era custodita l'Arca del Patto, e in cui il sommo sacerdote entrava una volta all'anno, il giorno di Kippur. Nell'epoca del Secondo Tempio il luogo rimase vuoto, perché l'Arca dell'Alleanza era andata perduta; ma non venne meno la somma sacralità di questo punto, dal quale la tradizione vuole sia iniziata la creazione del mondo: vi si troverebbe qui infatti la even shetichiyah, la «pietra di fondamento», avvio dell'opera divina. Gli ebrei osservanti ancora oggi non salgono alla spianata del Tempio, in ragione della sacralità di questo luogo. Il Muro è tradizionalmente chiamato «Muro del Pianto» (ma non dagli ebrei, che per lo più lo chiamano semplicemente, «il Muro»), perché capita che qui i religiosi si lascino sopraffare dall'emozione.
E' inoltre usanza depositare negli interstizi delle grosse pietre squadrate dei bigliettini con desideri da esaudire, o preghiere indirizzate a Dio.
MA'ARIV. E' la preghiera della sera, detta anche 'Arvit, dalla stessa radice ebraica che significa tanto «occidente», quanto appunto «sera». A differenza degli altri due momenti liturgici della giornata, Mtnchah e Shacharif, a essa non corrisponde alcun ciclo di sacrifici al Tempio di Gerusalemme: per questo è stata considerata originariamente facoltativa.
Il momento del ma'ariv giunge quando in cielo sono visibili le prime tre stelle.
MACHZOR. E' una parola che deriva dalla radice chazar, che significa propriamente «ritornare», e riconduce al concetto di «ciclo». Il machzor è infatti un volume che racchiude il ciclo delle preghiere dell'anno.
Presso le comunità ashkenazite il termine si applica all'insieme delle preghiere per i giorni festivi solamente, mentre presso quelle sefardite indica tanto il ciclo delle preghiere per i giorni festivi quanto quelle quotidiane. Esistono numerose versioni del machzor, esistono cioè numerosi machzorim (che ne è la forma plurale), perché nel corso dei secoli si sono aggiunte alle preghiere vere e proprie, poesie e composizioni di carattere religioso, dette piyutim. Il servizio liturgico sinagogale è infatti sempre stato piuttosto ricettivo verso le nuove espressioni con cui l'animo umano si rivolgeva a Dio, nel dolore e nella gioia. Per questo il machzor, o meglio i tanti machzorim di cui si ha testimonianza, sono uno specchio suggestivo di quella che è stata, nel corso dei secoli, la spiritualità ebraica, la tensione verso ciò che è supremo.
MINCHAH. La parola significa propriamente «offerta», «dono di prodotto alimentare», e si richiama esplicitamente al servizio liturgico del Tempio di Gerusalemme dove, nello scandirsi delle ore del giorno, venivano presentati al cospetto del Signore sacrifici di vittime animali e offerte prelevate sul raccolto. Minchah designa oggi la preghiera del pomeriggio, che si può recitare a partire da mezzogiorno. La tradizione dice che ognuno dei tre momenti quotidiani di preghiera, Shacharìt, Minchah e Ma'ariv, è stato inventato rispettivamente da Abramo, Isacco e Giacobbe. Ognuna di queste tre funzioni giornaliere è composta di vari elementi (ad esempio la 'Amidah e lo Shema'), alcuni dei quali ricorrono costantemente, mentre altri sono riservati a un momento o all'altro della giornata.
MINHAG (plur. MINHAGHIM). Letteralmente «uso», «abitudine». E' un termine in un certo senso contrapposto a halakah, cioè «legge», che designa in sostanza le tradizioni locali, quelle abitudini talmente invalse nell'uso da diventare norma. La parola si può riferire a un ambito ampio, non strettamente liturgico, anche se è soprattutto nel campo della preghiera sinagogale che normalmente va intesa. Minhag ashkenazita e minhag sefardita designano l'insieme delle due maggiori tradizioni, dove sul piano liturgico si registrano varie differenze.
All'interno di ognuno di questi due minhaghim esistono poi moltissime varianti locali: quasi ogni comunità ha inserito infatti, nell'ambito della preghiera, memorie, ricorrenze, composizioni poetiche.
MINYAN. E' questa una delle parole che significano «numero». Essa indica però quasi esclusivamente il numero minimo di dieci ebrei necessario affinché la preghiera sinagogale acquisti il carattere di funzione collettiva, affinché sia possibile la lettura pubblica della Torah, oltre alla recitazione della Qedushah e del Qaddish.
MUSAF. Questa parola significa propriamente «aggiunta» e designa quella porzione di rito che s'aggiunge alla preghiera quotidiana, durante le feste e il sabato. Anche in questo caso è diretta la derivazione dal servizio liturgico al Tempio di Gerusalemme, dove in queste occasioni era previsto il cosiddetto sacrificio addizionale. A seconda delle festività e dei momenti, il musah si compone di parti diverse.
PARASHAH. La Torah, cioè il Pentateuco, nella tradizione ebraica non si suddivide in capitoli e versetti, bensì in 54 parashot, che è il plurale di parashah, vale a dire le suddivisioni del testo sacro in conformità al ciclo sinagogale di lettura, che prevede il completamento di tutto il Pentateuco nel corso dell'anno. Ogni parashah ha un titolo che circoscrive l'argomento trattato o si ricalca sulle prime parole del passo in questione. Il termine è di origine incerta, e deriva probabilmente dalla radice ebraica parash che significa ora «spiegare», «dispiegare» ora «separare».
PARNAS. Funzionario della sinagoga, dotato di particolare autorevolezza (il termine può significare anche «magnate»); originariamente colui che era preposto al mantenimento dei poveri della comunità.
QADDISH. Il Qaddish è forse la preghiera sentita con maggiore trasporto e commozione. Il termine deriva, come molti altri, dalla radice qadash, che significa «essere santi»; originariamente, e con tutta probabilità già in epoca assai antica, questa preghiera formulata in aramaico era sentita come un inno di esaltazione al Signore e di lode per la maestà della sua opera. Veniva recitata alla fine delle varie sezioni del servizio liturgico. E' solo in un secondo momento che il Qaddish diventa la preghiera per i defunti, recitata tanto nel momento della sepoltura, quanto nel corso delle commemorazioni dai parenti prossimi, e in particolare dai figli alla memoria dei genitori. Esistono cinque diverse forme di Qaddish, a seconda delle occasioni, delle circostanze, e dell'orante. Questa preghiera, che costituisce uno dei pilastri della sensibilità ebraica, non contiene alcuna allusione alla morte: è un itinerario nel tempo messianico e nella maestà divina. Anche i più laici, i più assimilati fra gli ebrei d'oggi, serbano memoria di questa preghiera solenne.
QEDUSHAH. Come si può facilmente desumere, questa parola ha la stessa derivazione della precedente, e può essere approssimativamente tradotta con «santificazione». E' una preghiera che per essere recitata esige il minyan, vale a dire un numero minimo di maschi ebrei sopra i tredici anni, che abbiano cioè passato la cerimonia del bar mitzwah. Più che di una preghiera, si tratta di un mosaico di versetti biblici recitati ad alta voce dal chazzan, a partire da «Santo, Santo, Santo è il Signore delle schiere», di Isaia 6,3, che la tradizione vuole proclamato incessantemente dagli angeli serafini.
SHACHARIT. Shachar in ebraico è l'alba, e Schacharit è la preghiera con cui si apre il giorno, a iniziare dalla benedizione del mattino. Anche questo momento liturgico trova esatta corrispondenza con il servizio al Tempio di Gerusalemme.
SHEMA'. E' la solenne affermazione di fede ebraica, di unicità e unità di Dio, il momento più solenne e più sentito della preghiera, che gli ebrei hanno mormorato anche nei momenti di difficoltà e di angustie, e tramandato ai propri figli prima d'ogni altra cosa. E' composta di tre passi biblici: Deuteronomio 6,4-9; 11,13-21; Numeri 15,37-41. «Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è il solo Signore. Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutto te stesso, con tutte le tue forze. Siano queste cose, che io oggi ti ordino, nel tuo cuore.
Inculcale ai tuoi figli, parlane stando in casa tua e andando per via, coricandoti ed alzandoti. Legale come segno alla tua mano e come frontale fra i tuoi occhi. Scrivile sugli stipiti della tua casa e della tua città»: Deuteronomio 6,4-9. La parola Shema' significa «ascolta», ed è quella che apre la preghiera. Come dice il Talmud, recitando lo Shema' l'ebreo assume su di sé il giogo della divina maestà.
SIDDUR. La parola deriva dalla radice sudar, che significa «ordinare», «disporre», e ha un posto importante nella terminologia della liturgia ebraica. In questo caso indica propriamente l'insieme dei testi della preghiera, raccolti in un volume. Il siddur non contiene soltanto l'ordine della liturgia sinagogale quotidiana, ma raccoglie anche i testi delle preghiere per tutte quelle occasioni della quotidianità che lo richiedono. In questo senso esso è effettivamente uno specchio fedele della vita ebraica; anche perché quel che s'è detto del machzor, cioè il volume che contiene le preghiere per le occasioni festive, vale anche per il siddur. al di là della canonica distinzione fra ashkenaziti e sefarditi, molti usi e tradizioni locali delle varie comunità si sono fissati nelle pagine di questi volumi di preghiere.
TALLIT. Questa parola deriva da una radice talal che significa «coprire», e designa lo scialle di preghiera che l'uomo ebreo indossa nel momento in cui s'accinge a rivolgersi a Dio. E' normalmente bianco, di lana o seta, con delle strisce nere o viola e delle frange dette tzitziot, in conformità al precetto biblico contenuto in Numeri 15, 38-39: «Dirai loro che si facciano dei fiocchi alle estremità delle vesti, attraverso la loro discendenza, e mettano ai fiocchi delle estremità dei cordoncini di tinta celeste. Avrete pertanto i fiocchi e quando li guarderete, allora ricorderete tutti i precetti del Signore e li praticherete e non andrete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi...» Le tziziot non sono più celesti, perché si è perduto il segreto della preparazione di questa tinta color del cielo, bensì bianchi; l'ebreo osservante è solito baciare quelle del suo scialle nel momento in cui si pronunciano questi versetti biblici, compresi nello Shema'. Esiste anche una piccola tallit, che gli osservanti indossano permanentemente sotto le vesti. L'uomo ebreo è sepolto con indosso il suo scialle di preghiera.
TEFILLAH. La parola significa preghiera, o più propriamente invocazione a Dio in quanto giudice supremo. Tefillah per antonomasia è però V'Amidah, detta anche Diciotto Benedizioni.
TEFILLIN. Dalla stessa radice della parola precedente deriva questo termine, che indica quegli astucci quadrangolari fatte di cuoio, e contenenti frammenti di pergamena con sopra vergati a mano quattro brevi passi biblici: Esodo 13,1-10, 11-16 e Deuteronomio 6,4-9 e 11,13-20. I tefillin trovano la propria ragione d'essere proprio in uno di questi passi, e precisamente nello Shema', Deuteronomio 6,8: «Legale come segno alla tua mano e come frontale fra i tuoi occhi». Durante la preghiera del mattino, l'ebreo osservante indossa i filatteri, cioè i tefillin, nella posizione di cui parla il testo biblico.
WIDDUY. Il termine significa in ebraico «confessione», che però l'ebreo porta direttamente di fronte al Signore, senza alcun intermediario. La confessione a Dio, prima che di fronte a un tribunale o davanti ad altri esseri umani, può avvenire in qualunque momento, non soltanto nel giorno dell'Espiazione, cioè il Kippur.