Introduzione
La memoria collettiva
Ebrei, giudei, figli d'Israele, israeliti, cittadini di fede mosaica. E ancora: ebraismo, giudaismo. Chi e che cosa indicano questi diversi termini? Un unico concetto, un'unica entità, oppure realtà diverse, modificate dagli alterni corsi della storia? Entrambe le ipotesi contengono una parte di verità. Il primo ad essere chiamato ebreo, 'ivri, fu Abramo, patriarca della Bibbia e progenitore delle tre stirpi di monoteisti: ebrei, cristiani e musulmani. Questo nome di origine incerta va probabilmente ricondotto, almeno così dice la tradizione, alla parola 'ever, cioè «oltre», «parte opposta»; il verbo 'avar significa infatti «attraversare», «passare». Abramo è colui «che sta dall'altra parte». Nella Bibbia questa parola praticamente non compare: i protagonisti sono gli «israeliti», i «figli d'Israele», cioè di Giacobbe, padre delle dodici tribù.
Gli storici moderni distinguono in epoca antica «ebrei» da «giudei», in conformità alle vicende successive all'esilio di Babilonia, durato poco più di mezzo secolo, dal quale però sono tornate solo le due tribù meridionali, dette di Giudea. Dunque, prima dell'esilio, «ebrei», cioè tutte le dodici tribù divise fra i territori d'Israele e Giuda; dopo l'esilio, solo «giudei», cioè le tribù meridionali, di Giuda e Beniamino. E' pur vero che a partire dal secondo esilio, di cui fra breve parleremo, e con l'inizio della Diaspora millenaria, torna l'uso, assunto come norma, di «ebrei». Certo, in latino si diceva iudaeus, e questo termine carico di spregio e di colpe (Giuda è stato colui che ha tradito Gesù: il nome è lo stesso, Yehudah), è invalso nell'uso per secoli e millenni di emarginazioni, disprezzo e persecuzioni.
«Israelita», antico nome biblico, soprattutto nella forma «figlio d'Israele», ha anch'esso una lunga storia: fu infatti recuperato all'indomani dell'Emancipazione, nel secolo scorso, per sostituire tanto quel «giudeo» quanto quell'«ebreo» carichi di secoli di odio e discriminazione. Così hanno incominciato ad usarlo tanto gli ebrei stessi, come per gettarsi definitivamente dietro le spalle ogni traccia di un passato pieno di dolori, quanto soprattutto gli «altri», il mondo circostante, come a evitare di ricadere in quell'insegnamento del disprezzo perdurato secoli e generazioni. Ancora oggi lo si trova usato come forma di riguardo, quasi a evitare gli altri nomi, sentiti intrisi di ostilità. Fino al 1989, anche l'organo centrale dell'ebraismo italiano ha continuato a chiamarsi «Unione delle Comunità Israelitiche Italiane»: oggi si definisce invece «Unione delle Comunità Ebraiche Italiane». Quanto a «cittadini di fede mosaica», si tratta di una trovata di Napoleone e della sua rivoluzione: aprire i ghetti, concedere tutto agli ebrei in quanto individui, nulla in quanto nazione; nella società civile questa appartenenza, almeno in via teorica, divenne un attributo ausiliario della persona.
C'è poi ancora «israeliani» e, soprattutto sulle pagine dei giornali, capita di far confusione, cadere in errore: «israeliano» vuol dire cittadino dello stato d'Israele. Perciò, può darsi il caso di un israeliano ebreo, ed è la maggioranza della popolazione, ma può darsi anche il caso di un israeliano musulmano, druso, armeno e via di seguito, a seconda della confessione religiosa professata, delle origini etniche, del gruppo di appartenenza. In poche parole, non tutti gli israeliani sono ebrei, e non tutti gli ebrei sono israeliani.
Allora, chi e che cosa sono gli ebrei? Non una nazione, né solo e soltanto una fede religiosa, né tantomeno una razza (come hanno creduto, o fatto finta di credere, i persecutori dei nostri tempi). Gli ebrei sono infatti un popolo, pur se dal destino assai particolare: un popolo che ha vissuto buona parte della sua storia disperso fra le altre genti, in mezzo a culture, lingue, regimi diversi. Ma che pure ha continuato a custodire la propria identità, non solo religiosa ma anche etica, umana, storica, ideologica, ai quattro angoli del mondo. Oggigiorno con l'assimilazione, la modernizzazione, l'inserimento degli ebrei nella società civile, l'affermazione dei valori laici di vita e cultura, molto spesso si fatica a individuare in che cosa consista l'appartenenza ebraica, che non è più ferma nelle regole tradizionali, nella stretta osservanza di un sistema di vita improntato alla fede in Dio. Ebrei «laici», perfettamente integrati nella società in cui vivono: in cosa consiste dunque l'identità, dov'è che, in poche parole, sono diversi dai loro concittadini francesi, statunitensi, italiani, bulgari, e via di seguito?
Proprio nel senso, a volte vago e discontinuo, di appartenenza a un popolo, il popolo ebraico; anche se l'identità è sempre più un fatto intimo, personale, di scelta e convinzione, l'ebreo si considera membro di una collettività, di una stirpe millenaria. Certo, si dirà, ma all'ebraismo ci si può convertire, così come si diventa cristiani, musulmani, buddisti. La conversione è un lungo processo di studi, di raccoglimento interiore, di colloqui: fatto è che quando si diventa ebrei non si assume solo una nuova religione, un nuovo modello di vita fondato sui precetti e sulla legge ebraica. Si entra anche a far parte di questa collettività, di questa stirpe, nella sua storia, nelle sue convinzioni, nel condividere le traversie del passato e l'attesa di un futuro.
Entriamo allora nel tempo, prima di entrare nei fondamenti della memoria storica del popolo ebraico. Al 1996 dell'era volgare, il calendario ebraico segna 5756. Com'è facilmente prevedibile, la nascita di Gesù Cristo non costituisce un termine di scansione cronologica: l'anno ebraico si calcola a partire, ovviamente secondo la tradizione e non in conformità ad alcuna teoria scientifica, dalla creazione del mondo. A differenza di quello gregoriano, il calendario ebraico mensile è prettamente lunare, fondato cioè sui cicli del nostro satellite. Esso prevede dodici mesi e, a intervalli regolari, un mese embolistico, cioè bisestile. L'anno ebraico non inizia il primo gennaio bensì il primo di Tishri, un mese che cade normalmente intorno a settembre. Le ricorrenze del calendario sono fisse: solo che a causa dello sfasamento dei cicli, compaiono a date alterne secondo il calendario «civile»: Pasqua può dunque cadere a fine marzo, primi d'aprile e anche più avanti.
Tutto dipende dalla data in cui nell'anno in questione cade il primo plenilunio di primavera, che secondo il computo ebraico avviene sempre il 15 del mese di Nissan.
Gli ebrei hanno sempre convissuto con due scansioni diverse del tempo: ancora oggi in Israele sui giornali, sui diari scolastici, sulle agende, compaiono la data civile, cioè gregoriana, e quella ebraica tradizionale.
Per gli ebrei, a memoria del «E fu sera, e fu mattina: il primo giorno» (Genesi 1,5), il giorno incomincia e termina al tramonto, e non all'alba: così ogni festa, ogni ricorrenza, s'inaugura la sera. Anche il sabato ebraico, la giornata di riposo e di solennità che conclude la settimana, inizia il venerdì al calar del sole. La domenica è il primo dei giorni della settimana, che tranne il sabato, cioè lo Shabbat, non hanno nome in ebraico, ma si chiamano semplicemente per ordine: la domenica è il «primo giorno», il lunedì il «secondo giorno», e così via.
C'è il tempo quotidiano e c'è il tempo della storia, la memoria di una serie di eventi cruciali che hanno foggiato l'identità ebraica e deciso i destini di questo popolo: momenti tristi e altri esaltanti - a dire il vero con predominanza dei primi - che si sono impressi nelle generazioni di ebrei di tutto il mondo. Alcuni di questi eventi sono entrati nel calendario delle ricorrenze, vengono cioè rievocati e se possibile rivissuti a ogni generazione. Altri hanno sconvolto l'esistenza ebraica, imponendole una svolta drastica, un ripensamento totale.
Si diceva, poco fa, che Abramo è il primo cui la tradizione assegna il nome di 'ivri, cioè ebreo. Perché? Basta prendere la Bibbia in mano, e leggerne la storia: Abramo è colui che, in un mondo di pagani, si rifiuta di seguire le orme del padre, artigiano fabbricatore di simulacri, di idoli, e parte per una terra che non conosce, perché Dio l'ha chiamato. Abramo è l'uomo di fede per antonomasia, è colui che al suo Dio affida tutto se stesso. A lui il Signore fa una promessa: renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo (capitolo 15 della Genesi). Abramo parte da Ur dei Caldei e si reca in Terra Promessa; stringe un patto con Dio, genera Ismaele e poi Isacco, che circoncide egli stesso, per ordine divino. Con questo marchio fisico che d'ora in avanti segnerà ogni maschio ebreo, è sancita l'alleanza fra Dio e l'uomo. E' qui che inizia la storia dell'antico Israele. Progenitore unico, fedele al suo Dio sino all'estremo - quando gli viene ordinato di sacrificare al Signore il suo figlio prediletto, non esita (capitolo 22 della Genesi) -, questa figura più mitica che storica non è solo il punto di partenza della memoria ebraica, è anche un modello umano di eterna validità: per la tradizione ebraica egli è capostipite ed esempio di fede assoluta.
Altro momento cruciale delle origini è quello che ogni anno si celebra durante la festa di Pesach, la Pasqua, dicendo a se stessi che è come se lo si rivivesse ogni anno, in prima persona. Passato e presente si confondono in questa ricorrenza che in lingua ebraica significa «passaggio»: il passaggio dell'angelo della morte che ha annientato tutti i primogeniti degli egiziani in una notte (Esodo 12), ma anche il passaggio del Mar Rosso che s'aprì davanti alle tribù d'Israele in fuga dalla schiavitù verso la libertà, la Terra Promessa. L'esodo dall'Egitto è un evento cruciale della memoria ebraica perché significa quello che in termini moderni si direbbe «presa di coscienza»: sotto la guida di Mosè gli ebrei diventano veramente un popolo, stabiliscono un termine di coesione interna, capiscono che Dio chiama tutti loro insieme verso il deserto, verso la rivelazione sul monte Sinai. E' la fine della schiavitù e l'acquisizione di una libertà non solo politica ma anche e soprattutto interiore.
Di qui in poi, per chi vuole saperne di più, basta seguire per filo e per segno la storia narrata nella Bibbia, che naturalmente gli ebrei non chiamano Vecchio Testamento perché non lo considerano un testamento, e soprattutto perché non ne hanno uno nuovo da contrapporvi. L'epoca dei giudici, la monarchia, lo scisma fra regno del Nord e regno del Sud, cioè Israele e Giuda.
Fra i momenti cruciali della storia ebraica, cruciali soprattutto per la loro persistenza nella memoria collettiva e per la gamma di conseguenze a lungo termine che hanno portato con sé, va annoverato anche l'esilio di Babilonia. Niente più che un irrilevante episodio del regno di Persia, un conflitto che le cronache del tempo non esitano a considerare marginale. Ma un evento fondamentale del popolo d'Israele: all'inizio del VI secolo a.C. il regno di Gerusalemme viene conquistato da Nabucodonosor, re di Babilonia, che non si limita a prendere il potere, ma deporta gran parte della popolazione ebraica. Il regno del Nord era già stato sconfitto e i suoi abitanti deportati anni addietro, a opera di Salamanassar, re di Assur (si veda 2 Re, capitolo 18). Con queste due disfatte finisce la storia dei re d'Israele, tanto del Sud quanto del Nord. Ma ciò che più conta, nell'economia della storia ebraica, è questa prima esperienza dell'esilio. Un esilio destinato a durare, a dire il vero, non più di una cinquantina d'anni per le due tribù del regno meridionale, che grazie all'editto di Ciro (Esdra, capitolo primo), tornarono alla loro terra. Ma che ha profondamente segnato l'identità ebraica, l'esperienza storica ed umana di questo popolo. L'esilio di Babilonia è un po' metafora universale: basti ricordare la celebre aria verdiana Va' pensiero, che è inserita in questo contesto storico.
S'è già detto: dall'esilio di Babilonia tornarono solo due delle dodici tribù del popolo d'Israele; le altre dieci si perdono da ora in poi nel buio della storia, e nonostante numerosi e bizzarri tentativi, anche in tempi recenti, di ritrovare questi ebrei perduti per strada, esse continuano a restare avvolte nel loro mistero.
A cavallo dell'era volgare il popolo ebraico assiste, e subisce, due svolte fondamentali. Gesù era un ebreo di Palestina che, secondo le più recenti indagini degli studiosi, non ha mai inteso uscire radicalmente dalla propria tradizione, quanto piuttosto riformarla, rinnovarla nel suo interno. I primi cristiani, tanto in terra d'Israele quanto nel mondo occidentale e in particolare nel bacino mediterraneo, erano ebrei convintisi della validità del suo insegnamento. Gesù visse e morì in un contesto ebraico di grande fermento non solo politico ma anche e soprattutto religioso: fu un'epoca di correnti messianiche, tendenze riformistiche, vere e proprie rivoluzioni ideologiche e teologiche.
Non c'è dubbio che il cristianesimo, e soprattutto il suo rapido affermarsi come confessione dominante sin dall'epoca tardoantica, abbia profondamente determinato le sorti del popolo ebraico. Da germe della nuova fede, quest'ultimo divenne rapidamente il popolo «perfido», nel senso di infedele, che ha rinnegato la vera religione e si ostina a restare dalla parte sbagliata.
Quando il cristianesimo comprese che per diffondersi fra le genti era necessario anzitutto penetrare nella romanità, abbandonando il fronte dei vinti - gli ebrei sconfitti e privati della propria nazione - per quello dei vincitori, esso rinnegò le proprie origini e iniziò a propugnare il disprezzo per la radice ebraica - inaugurando (in particolare con l'insegnamento di Agostino d'Ippona) una storia di antigiudaismo teologico destinata a durare molti secoli. Conclusasi forse solo nel 1965, quando la bolla papale Nostra Aetate dichiarava finita l'era del disprezzo, del perfidus judaeus, e «auspicava la mutua conoscenza e stima». La teologia cristiana elaborò gradualmente una teorizzazione della sopravvivenza ebraica: da una parte gli ebrei dovevano continuare a esistere in veste di testimoni della passione di Gesù Cristo, come una sorta di reperto archeologico vivente. Per altro verso essi si erano macchiati della più grave delle colpe: la morte di Dio in croce; pertanto andavano emarginati, segregati e soprattutto disprezzati, quasi che ogni ebreo d'ogni tempo e generazione fosse stato l'esecutore materiale di quel delitto. La Diaspora, la dispersione del popolo ebraico fra le nazioni del mondo, divenne l'emblema, il marchio infamante di una benedizione trasformatasi in maledizione; si veda in proposito la leggenda dell'ebreo errante, prodotto tutto cristiano ed estraneo alla mente ebraica, di colui che è destinato a vagare ramingo per l'eternità, per aver dileggiato Gesù al Calvario.
L'atteggiamento del cristianesimo nei confronti del popolo ebraico non è solo una sottile questione teologica, una teorizzazione rimasta fra le pagine dei Padri della Chiesa: come la storia dimostra, esso fu denso di conseguenze materiali, e segnò nel profondo l'esistenza ebraica dell'esilio, nei ghetti, nelle lunghe serie di proibizioni, di atti di emarginazione, di violenze commesse in nome della Croce.
Diaspora, si diceva, ma che cos'è la Diaspora? Fra le molte vicissitudini della terra d'Israele, c'è anche la conquista romana, la destituzione del governo autonomo e, atto definitivo, la distruzione del Tempio di Gerusalemme, a opera di Tito, nel 70 d.C, e la successiva cacciata degli ebrei dalla loro terra, misura estrema tesa a sedare la rivolta, lo spirito ribelle di questa popolazione, in una provincia marginale dell'Impero romano. E' qui che inizia la Diaspora, questa particolare costante nella vita di un popolo che ha continuato a essere tale ancora duemila anni dopo aver perso la propria terra. Da cui fu cacciato: per questo gli ebrei di Roma, dove ancora prima di quest'infausta data già esisteva una vasta comunità, dal 70 sino al giorno in cui lo stato d'Israele è stato rifondato - siamo nel 1948 per scaramanzia e per dolore non sono mai passati sotto l'arco di trionfo di Tito, monumento e memoria della sconfitta ebraica, dell'inizio dell'esilio. Vi si trovano raffigurati, fra il resto, gli arredi del Tempio, unico luogo di culto ebraico, saccheggiato e dato a fuoco. Da allora la preghiera si è sostituita al culto, alle offerte votive e ai sacrifici a Dio che potevano avvenire solo e soltanto in quel luogo del Santuario, nel punto che gli ebrei considerano il più sacro dell'universo, perché è di lì che cominciò la creazione, è lì che Abramo quasi immolò suo figlio, è lì che Dio ha detto: qui dimorerò.
Diaspora è una parola di origine greca, che significa dispersione: da questa data in poi il popolo ebraico visse non solo in esilio, lontano cioè dalla propria terra, ma anche disperso fra le nazioni del mondo. In ebraico esilio e Diaspora si esprimono con un'unica parola, Golah; galut, che proviene dalla stessa radice, indica tutto ciò in una forma più astratta. E quasi una condizione esistenziale, più e oltre che storica.
Nella Diaspora gli ebrei hanno sin dall'inizio costituito delle comunità, dei corpi collettivi di organizzazione e rappresentanza. Già in epoca romana i reperti archeologici, le iscrizioni tombali, le testimonianze scritte menzionano una serie di cariche ufficiali, di organi dotati di una certa autonomia amministrativa: bisognava innanzitutto sopperire alle necessità della liturgia, gestire insomma una casa di preghiera, e poi garantire la distribuzione della carne kasher, i contatti con la terra d'Israele soprattutto per quel che riguardava la fissazione del calendario, e via di seguito. La comunità, detta in ebraico qehillah, diventa ben presto un ente di coordinamento intorno al quale ruota la vita ebraica della Diaspora. Resta da aggiungere che per questioni pratiche ed umane gli ebrei scelgono quasi sempre di vivere compatti, di concentrarsi in un determinato quartiere, in una stessa via della città; essenzialmente per ragioni di comodità, per essere vicini alla sinagoga, alla scuola, alla macelleria kasher; ma anche per ripararsi meglio da fastidi, piccole violenze e soprusi quotidiani, che quasi sempre ha comportato il contatto con il mondo esterno, cristianità o islam che esso fosse.
In questo regime di seppur delicata convivenza, la prima Crociata, nel 1096, rappresenta un trauma pressoché insanabile. In viaggio verso la Terra Santa, i «combattenti» e i loro strascichi variegati fecero terra bruciata di molte comunità ebraiche dell'Europa centro-settentrionale; ne riferiscono ampiamente cronache e martirologi ebraici. Ma al di là di brutali eccidi, di violenze perpetrate in nome della vera fede, questo momento rappresenta una vera e propria svolta nella posizione delle comunità dell'Europa medievale. Fu allora che venne meno quella relativa sicurezza goduta sino a quel momento da parte degli ebrei, insediati ormai in gran parte dell'Europa, dall'Italia al Reno, dalla Provenza a Praga. E si accentuò tragicamente anche un altro fenomeno carico di violenza: la conversione forzata, vale a dire o il battesimo o la morte.
E a partire grosso modo dalla fine del XII secolo che la vita nella Diaspora assume quei tratti di precarietà destinati a perdurare a lungo: espulsioni di massa, cacciate da un borgo all'altro, patenti di residenza concesse a condizione di non esercitare altra professione se non il prestito, un'interminabile serie di emarginazioni e divieti, come quello di non farsi vedere in giro durante la settimana santa, di non possedere immobili, di portare un segno distintivo per farsi riconoscere.
Il 1492 non è solo la data della scoperta dell'America e, con una certa approssimazione, anche dell'invenzione della stampa. Ai primi d'agosto del 1492 gli ebrei vengono espulsi dalla Spagna di Ferdinando e Isabella di Castiglia; in aprile era stato promulgato l'editto che imponeva agli ebrei o la conversione o la fuga. Molti, più o meno convinti, si fecero cristiani, creando una nuova categoria sociale e giuridica: i conversos, destinati a subire per secoli una serie di paradossali emarginazioni, un perenne clima di sospetto in nome della «purezza del sangue» spagnolo.
La maggior parte, e gli storici parlano di alte cifre di popolazione, lasciò questo paese abitato dagli ebrei per molte generazioni. La Diaspora sefardita, che la tradizione vuole sia partita dai porti della penisola iberica nel giorno del digiuno del nove di Av, che commemora la caduta del Tempio di Gerusalemme, si propagò in molti luoghi d'Europa, da Istanbul a Genova, a Amsterdam. L'ironia della storia ha fatto sì, ad esempio, che gran parte degli ebrei turchi abbiano continuato, fino ai giorni nostri, a parlare in quel dialetto fatto di antico spagnolo e un poco d'ebraico, chiamato ladino (e che non ha nulla a che vedere con l'omonima lingua parlata da alcune popolazioni delle Alpi).
E' in questi anni che si definisce nettamente, nel confronto, nello scambio culturale e letterario, la suddivisione tradizionale delle comunità ebraiche nella Diaspora. Ci sono infatti gli ashkenaziti, cioè quegli ebrei vissuti nell'Europa centrosettentrionale, che si sono espressi per secoli in yiddish, una sorta di lingua franca, più che di dialetto, diffusa in un ampio spettro di stati e regioni, e composta da antico tedesco, slavo, ebraico e altri elementi. Ashkenaz è un nome biblico, che in ebraico designa comunemente la Germania. Sefarad in ebraico significa invece «Spagna», e sefarditi sono tutti quegli ebrei direttamente o indirettamente legati all'esodo spagnolo; sefarditi però sono anche chiamati nel loro insieme gli ebrei d'ambiente mediterraneo, dalle coste dell'Africa alla Grecia e alla Turchia.
Con l'aprirsi dell'era moderna, almeno secondo le coordinate fissate convenzionalmente, c'è ancora un evento che si impresse da allora nella memoria ebraica e fu cruciale per i destini di questo popolo. E' nel 1516 che si chiudono le porte del ghetto di Venezia, il primo di una lunga serie. Ghetto è ormai una parola entrata nell'uso comune, non più solo associata alla vita ebraica del passato; essa deriva con tutta probabilità da «getto», o «getto», che in veneziano indica «fonderia».
E' infatti nel quartiere in cui un tempo sorgeva appunto una fonderia, che in questa data gli ebrei sono costretti a concentrarsi. Era una comunità composita e assai vivace, quella di Venezia: levantini, italiani, tedeschi, ebrei di passaggio e altri stabilmente insediati, dediti a varie attività legate soprattutto ai commerci della città lagunare. Nel 1516 agli ebrei viene proibito di abitare fuori da quell'angusto quartiere della città che ancor oggi si riconosce perché i suoi edifici sono particolarmente alti: non potendo la comunità espandersi in larghezza, di fronte all'incremento demografico non restava che alzare la casa di un piano o due. Il ghetto non è solo una residenza coatta, è una specie di prigione, perché alla sera i cancelli si chiudono dal di fuori, e dal tramonto in poi è vietato andarne o venire. Nel 1555 il ghetto viene esteso ai domini papali, con ulteriori restrizioni per gli ebrei.
Se, come già s'è detto, per le comunità della Diaspora la compattezza, l'abitare tutti insieme era un'abitudine sin dai tempi antichi, una necessità pratica che aveva determinato la nascita di innumerevoli «giuderie», «vie degli ebrei», tanto in Europa quanto nei domini dell'islam, il ghetto è qualcosa di ben diverso. E' un universo mentale, oltre che fisico, destinato a una tragica reviviscenza sotto il nazismo.
Ovunque arrivassero, i tedeschi concentravano gli ebrei, prima di deportarli e annientarli, ricostituendo di nome e di fatto l'istituzione del ghetto.
Certo, il ghetto della prima età moderna garantiva anche una certa sicurezza alla comunità, riparava - pur se non sempre - da atti di violenza spicciola, da ingiurie quotidiane. E nel ghetto è fiorita spesso una grande attività culturale e artistica, testimoniando un grande fermento di pensiero. Esso ha tuttavia accentuato ulteriormente l'immagine dell'ebreo come di una sorta di corpo estraneo alla società, marginale, a sé stante. L'emarginazione ha lasciato tracce pesanti tanto nella mente di chi l'ha subita quanto in quella di chi l'ha imposta: il mondo ebraico d'Europa ha patito un'angustia non soltanto materiale, ma anche spirituale. La civiltà europea ancora fatica a considerare parte di sé questa minoranza con cui convive da circa due millenni.
La storia dei ghetti termina formalmente, ma non definitivamente, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, con un tiepido movimento di emancipazione che a ritmi alterni coinvolse più o meno tutta l'Europa. C'era già stata una fuggevole parentesi con il vento di Napoleone, che aveva abolito la clausura ebraica e sancito la parità nei diritti civili. Con la Restaurazione, il ghetto rapidamente tornò.
L'emancipazione degli ebrei nell'Europa moderna è un evento dalle molteplici sfaccettature: finalmente accolti nella società degli «altri», molti si gettarono a capofitto in questa nuova esperienza, liberandosi di tutte o quasi le vestigia dell'antica identità. La scalata sociale e finanziaria di un certo numero di ebrei dalle fulminanti carriere, va in parte ascritta a questo entusiasmo da neofiti, a un senso di attiva riconoscenza per il mondo che finalmente li aveva affrancati. Per secoli e secoli gli ebrei avevano pregato in sinagoghe del tutto anonime, in raccolte case di preghiera che da fuori non dovevano sembrare tali, non dovevano dare nell'occhio per ragioni di sicurezza ma spesso anche perché l'autorità imponeva questo tipo di occultamento. Con l'emancipazione molte comunità decisero di investire somme ingenti per edificare nuovi, vistosi templi, che fossero anche un tributo d'arte e maestosità alla città e alla nazione che aveva finalmente affrancato gli ebrei. Tipico in Italia il caso di Torino: la Mole Antonelliana, emblema della città, nacque originariamente come sinagoga monumentale; soltanto che la comunità locale non riuscì a far fronte alle richieste finanziarie sempre più ingenti da parte dell'architetto Antonelli, con le sue ambizioni di virtuosismi tecnici.
Ancora incompiuta, la sinagoga fu ceduta alla municipalità di Torino.
Eccoci giunti al nostro secolo, anch'esso carico di due eventi che hanno, nel male e nel bene, stravolto il popolo ebraico. Da una parte lo sterminio voluto dai nazisti: sei milioni di ebrei scomparsi nelle camere a gas, nelle fosse comuni, nelle sale di tortura dei medici SS, negli eccidi dei ghetti. Sei milioni di persone e un mondo intero inghiottito dal buio: il 90 per cento dell'ebraismo polacco ad esempio, con i suoi borghi, i suoi libri, la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi maestri, le sue canzoni, non esiste più. E così, ovunque la furia nazista sia passata, ha annientato non solo vite umane, ma radici, luoghi, memorie, sentimenti. Romania, Ungheria, Bielorussia, Slovacchia, Galizia, luoghi un tempo assai significativi nel mondo ebraico, sono stati resi, per usare la terminologia nazista, judenfrei, «liberi da ebrei».
L'antisemitismo nazista è stato a lungo studiato, analizzato, esaminato: esso fu nella sostanza un velenoso amalgama di teoria della razza e della superiorità, strascichi d'antico antigiudaismo, demagogia, funzionalità esasperata. Alla soluzione finale, cioè il proposito di totale annientamento della stirpe ebraica (l'assurdo ha voluto che nella mente dei nazisti nascesse persino l'idea di raccogliere, schedare, immagazzinare oggetti e libri ebraici per un futuro, ma prossimo, museo della razza estinta. A Vilnius furono costretti a questo progetto degli studiosi ebrei, messi a parte di questo funerale anticipato del proprio popolo), parteciparono non solo le bieche SS con i loro cani feroci, i medici come Mengele e i suoi atroci esperimenti; parteciparono ad esempio anche le ditte coinvolte nella costruzione delle camere a gas, nella produzione delle sostanze velenose, e quelle che utilizzavano la manodopera dei campi di concentramento, nonché tutti coloro che sapevano, vedevano e tacevano, coloro che per un pugno di soldi denunciavano gli ebrei nascosti, come Anna Frank e la sua famiglia.
La Shoah, come in ambito ebraico viene chiamato l'Olocausto, termine a suo modo improprio, fu un evento senza precedenti perché mai era stato deciso a tavolino lo sterminio, l'annientamento di un popolo in quanto tale, non perché fosse un nemico in guerra o perché si fosse macchiato di colpe. I nazisti hanno eliminato un milione e mezzo di bambini ebrei, e al di là della tragedia umana, ciò spiega meglio di ogni altra cosa l'intento di questo immane progetto di sterminio: non un pretesto, né una ragione se non quella di far scomparire un popolo dalla faccia della terra. E' in questa totale mancanza di senso che va ricercata la necessità della memoria: non bisogna dimenticare, perché così come è accaduto può accadere di nuovo. L'ha detto Primo Levi: proprio perché è accaduto salgono le probabilità che possa ripetersi.
Lo sterminio nazista non ha eliminato solo ebrei: si cominciò con i malati di mente, e poi gli zingari, gli omosessuali. Nel 1943 Hitler dichiarò ebrei tutti i bambini negli orfanotrofi dell'Europa occupata, e li fece deportare. Quest'orrore fa parte della storia dell'occidente tanto quanto l'invenzione della stampa, la scoperta dell'America, la Rivoluzione francese.
Lo stato d'Israele non rinacque semplicemente sulle ceneri dello sterminio degli ebrei d'Europa. Il movimento sionista era sorto già alla fine del secolo scorso, nell'atmosfera immediatamente successiva all'emancipazione. Ne fu fautore Theodore Herzl, un giornalista ebreo nato a Budapest e pienamente immerso nella cultura mitteleuropea, laico e pressoché digiuno di tradizione ebraica. Di fronte al fallimento dell'assimilazione, al perdurare del sentimento antisemita (Herzl fu inviato da un giornale viennese a seguire l'affare Dreyfus, che lo colpì profondamente), non restava agli ebrei altra alternativa, secondo Herzl, che quella di ridiventare un popolo «come gli altri»: riconquistare autonomia politica e dignità territoriale. Egli teorizzò tutto ciò nella breve opera Lo Stato Ebraico, pubblicata nel 1896. Ma soprattutto si dedicò a un'intensa, frenetica attività diplomatica e organizzativa: è del 1897 il primo Congresso Sionista, a Basilea. Herzl morì ad appena quarantaquattro anni, senza forse immaginare che nel novembre di esattamente cinquant'anni dopo il suo primo congresso una mozione dell'Onu avrebbe sancito l'esistenza dello Stato ebraico.
In verità, la presenza ebraica in terra d'Israele non si era mai dileguata del tutto, seppur ridotta ai minimi termini; ma è solo con la seconda metà del secolo scorso che si assiste progressivamente a una serie di ondate migratorie di ritorno: i pogrom nell'Europa dell'Est, in Russia e Polonia soprattutto determinarono un movimento massiccio di ebrei. Che in parte andarono nel Nuovo Mondo, in America, e in parte decisero di fare la cosiddetta 'aliyah, la «salita», l'immigrazione in terra d'Israele, allora sotto i Turchi. Lentamente, in quella che dopo il primo conflitto mondiale divenne la Palestina sotto mandato britannico, si formarono organizzazioni ebraiche di vario tipo: scuole, villaggi agricoli, centrali elettriche, cooperative di lavoratori, imprese commerciali e industriali, milizie di difesa. Senza entrare nel merito di una vicenda politica e storica assai complessa, val la pena rilevare che, all'indomani della dichiarazione d'indipendenza, in Israele funzionavano già, ad esempio, un servizio postale che emetteva i suoi francobolli, una rete di trasporti pubblici, e una vasta serie di strutture parastatali frutto di anni di ishuv, cioè di insediamento ebraico.
La dichiarazione d'indipendenza dello stato d'Israele è del maggio del 1948: subito iniziò un lungo conflitto con i paesi arabi che non avevano accettato la mozione Onu, la quale prevedeva la nascita nella regione di due stati indipendenti, uno ebraico e uno palestinese. Ma iniziò anche un lungo flusso migratorio, che non si è ancora interrotto: prima le navi dei sopravvissuti alla Shoah, poi gli ebrei dello Yemen e in seguito di quasi tutti i paesi arabi, in tempi più recenti dall'Etiopia e dalla Russia, per arrivare alla Bosnia dei nostri giorni.
Che cosa rappresenta per gli ebrei lo stato d'Israele? Innanzitutto, la fine di duemila anni d'esilio. E poi la certezza che, qualunque cosa succeda, c'è un luogo al mondo dove si sarà sempre accolti, dove non ci sarà mai l'antisemitismo. Esso è anche l'unico paese del mondo dove il giorno di festa è il sabato, dove la vita scorre secondo i ritmi del calendario ebraico: Pasqua, Capodanno, Kippur e via di seguito. L'unico paese al mondo dove l'ebraico è lingua ufficiale, insieme all'arabo; l'unico paese al mondo che garantisce agli ebrei la cittadinanza nell'istante in cui vi mettono piede e decidono di fermarsi.
La nascita, o rinascita, dello stato d'Israele ha scardinato definitivamente la precarietà dell'esistenza ebraica, ha fornito nuove sicurezze, una nuova padronanza della propria identità. Ha fatto riflettere le comunità della Diaspora, e continua a farlo in una dialettica fra centro e periferia non priva di contrasti, di confronti aspri oltre che di moti di reciproco affetto. Ecco in breve sintetizzati i momenti cruciali della storia ebraica, quelli che sono entrati a far parte della coscienza di questo popolo, che ne hanno travolto le sorti.
Fra l'uno e l'altro di questi momenti, la storia ebraica ha ben poco di statico: movimenti migratori, correnti di pensiero, un perenne e mutuo scambio intellettuale con il mondo circostante, anche nelle fasi di maggior chiusura. La storia ebraica sfugge a ogni categorizzazione, è soggetta alle più varie dinamiche; ed è naturale, visto che di epoca in epoca, di anno in anno, si è confrontata con una serie quasi infinita di realtà diverse: dall'Italia all'India, dall'Argentina alla Persia, dalla Polonia al Caucaso, dal Marocco alla Bulgaria. L'identità ebraica ha assimilato lentamente tutto questo bagaglio di esperienze, di contatti, di scambi, oltre che di sofferenze.