9.
Guardare Dina ha sempre avuto un effetto calmante su di me. È in piedi nella sua minuscola cucina e prepara una tisana.
Mi ha chiamata ieri sera mentre ero nel mezzo di una crisi di pianto. La visione di Maurizio che rimaneva laggiú, senza il coraggio di coprire la distanza fra me e lui o di dire una parola, continuava a tornarmi in mente. Appena mi sono chiusa in camera le lacrime hanno preso a scendere giú senza un singulto, come una perdita d’acqua.
Ho creduto che fosse per la rottura inevitabile, per averlo perso all’improvviso, e senza poterlo salutare. Poi ho capito che piangevo per lui. Non per noi, per lui. Per l’imbarazzo che provavo all’idea di aver creduto che fosse un altro genere di uomo, invece della creatura impotente che è. E piangevo anche per quell’assurdo gesto di Lepore. Farmi capire di aver assistito alla scena senza nemmeno chiedermi se stavo bene, se avevo bisogno di qualcosa.
Dina mi ha telefonato in quel momento e non sono riuscita a nasconderle le lacrime. Ero talmente sollevata al pensiero che non fosse mia madre, che appena mi ha chiesto «Come stai?» ho mollato il colpo e le ho detto tutto.
Le ho raccontato ogni cosa di Maurizio. Non l’avevo mai fatto prima, ma lei aveva intuito anche da sola. Se lo ricordava bene nel periodo in cui frequentava il supermercato. Poi l’aveva rivisto ogni tanto, quando veniva a prendermi, e non mi aveva mai fatto domande.
Credo di avere avuto paura che mi giudicasse. Ieri però non ce l’ho fatta. Le ho detto di lui, dello scontro con la moglie nel pomeriggio, e di Lepore, dei sermoni malati che mi costringe ad ascoltare, perfino della dermatite, e tutto senza smettere di piangere.
Lei mi ha ascoltata in silenzio e alla fine ha detto: «Sabato mattina sono di riposo. Vieni qui. Ci beviamo una cosa e mi racconti meglio». Avrei dovuto studiare, ma tanto sapevo che non sarei stata capace di concentrarmi e quindi ho accettato.
La guardo che spegne il fuoco sotto il bollitore, infila due bustine nella teiera e mi parla delle ultime novità del supermercato. Storie qualsiasi sui clienti abituali, i fornitori, i ragazzini delle consegne. Banalità che mi tranquillizzano.
Mentre chiacchiera, ogni tanto in cucina passa un ragazzino e chiede qualcosa. Dina ha tre figli, di quattordici, sedici e diciannove anni. Maschi. Indipendenti. Oggi non vanno a scuola, hanno tutti qualcosa da fare. Uno passa a salutare e poi esce con gli amici. Un altro rientra dal calcetto e va a farsi la doccia. Dina non ha mai un tono imperativo o infastidito. Ascolta, accoglie, dà qualche suggerimento. Stringe forte solo il piú piccolo perché è lui che va a cercarsi un abbraccio, ma appena accenna a sganciarsi lo lascia andare. Non esercita nessuno sforzo per aprire le braccia o per chiuderle. Fluisce fra i suoi figli concava, accogliente e spontanea.
Mi versa la tisana, poi accompagna il figlio piú grande alla porta mettendogli in mano un biglietto da dieci euro.
Chissà come sarebbe stato avere una madre cosí. Affettuosa e indomita. Una che non confonde l’istinto materno con l’impulso a colonizzare gli spazi interiori dei figli. Una con cui puoi parlare di tutto senza timore che le tue parole possano essere usate contro di te.
– Stanotte ti ho pensato, – dice mettendosi a sedere. – Mi fai preoccupare.
Abbozzo un sorriso, questo mi dispiace. – Per cosa in particolare? Per Maurizio? Oppure l’avvocato?
Lei scrolla le spalle. – Il coglione si può considerare una cosa superata, no? Spero che tu non abbia intenzione di rivedere uno che racconta tutto alla moglie come se fosse stato stuprato contro la sua volontà, e resta lí fermo mentre lei ti aggredisce.
Cerco un modo diverso per descrivere quello che è successo. Lo faccio per me, per la mia dignità. Però è cosí che sono andate le cose, ed è inutile girarci intorno.
– Non posso dire che mi abbia aggredito. Non voleva picchiarmi. Credo avesse solo intenzione di farmi paura. Magari se la situazione fosse degenerata Maurizio avrebbe fatto qualcosa, non so.
– Per carità, ti prego. Non parliamone piú. Promettimi solo che cancelli il numero dalla rubrica e se prova ancora a cercarti non rispondi, – dice premendo la sua mano sulla mia. Io esito. Lei stringe: – Prometti.
Faccio segno di sí con la testa. – Tanto non chiamerà. Anche lui sarà imbarazzato.
– Questo è quello che immagini tu perché al posto suo ti vergogneresti. Ma al posto suo non ci sei tu, c’è lui. E comunque dimmi solo che se succede non rispondi. Piuttosto è l’altro che mi preoccupa. L’avvocato. Prima ti sequestra in studio per tenerti prediche paranoiche e poi, fuori, invece di aiutarti, cos’è che ti ha detto, ripetimelo un po’?
Ripenso alle parole precise, non le ricordo.
– Qualcosa sul fatto che ora mi trucco, e mi vesto con piú attenzione.
Dina mi accarezza una guancia: – È vero, sai? – dice con affetto. – Mi fa piacere vederti cosí. Sei carina.
– E che questo aveva a che fare con la cosa che era appena successa.
Dina chiude la tazza con entrambe le mani, e ci appoggia sopra il mento, pensierosa. Resta qualche secondo a riflettere.
– In pratica ha detto che se ti vesti con cura è normale che gli uomini ti notino. Se però le mogli si incazzano non ti devi lamentare perché vuol dire che te la sei cercata. Giusto?
La guardo. – Piú o meno.
– Quindi prima ti dice che sei una zotica ciabattona e ti impone di vestirti in un certo modo per il buon nome dello studio. E dopo che l’hai fatto, ti dà della troia.
Non rispondo.
– E ogni tanto ti convoca nel suo ufficio, senza nessuna ragione particolare, e comincia a insultare le donne. Anche se tu non hai nessuna voglia di restare lí.
– Non so. Forse è colpa mia che non riesco a fargli capire che sono a disagio.
– Non mi piace.
– Nemmeno a me. Ma è il lavoro migliore che potessi trovare. Riesco a studiare anche quattro ore al giorno, e a frequentare le lezioni. Ho ancora una settimana prima dell’appello di Fisiologia. È la quinta volta che provo a passarlo, ma la prima in assoluto in cui sento di avere qualche possibilità. Non posso farmi cacciare. È troppo importante.
– Lo so, però non mi sembra a posto. Sei sicura che non sia il genere di schifoso che prima o poi ti mette le mani addosso?
Ci penso. È meschino ed egocentrico. Ma non mi ha mai dato l’idea di essere attratto da me.
– Non lo so. È cosí diverso da quello che sembrava quando l’ho conosciuto che non posso essere sicura. Però non credo. Dubito di piacergli in quel senso. E comunque fino a oggi non mi ha mai sfiorata.
Ripasso mentalmente i nostri sporadici incontri, sono davvero tutti molto formali. Nessuna allusione viscida, nessun contatto fisico involontario. Alla fine non ha neppure sfruttato la visita all’officina meccanica. Se mi avesse obbligata a fargli un resoconto avrebbe avuto un appiglio per lasciar cadere qualche commento pesante. Però non è successo.
– No, da quel punto di vista è innocuo. Non credo che mi farebbe niente del genere.
Sono giorni ormai che dormo a fatica poche ore per notte, e mi sveglio con la pressione sotto i piedi. Ogni tanto riaffiora qualche ricordo sgradevole della scenata sotto i portici, per fortuna ho poco tempo per pensarci. Dopodomani ho l’esame di Fisiologia, oggi è l’ultimo giorno di lavoro prima dell’esame. Ho chiesto di restare a casa domani, per un ripasso generale. A sorpresa la Callegari mi ha autorizzata.
Quando entro in studio sono lí tutti e due, Lepore e la Callegari, e parlano in piedi, davanti alla mia scrivania. Si girano appena sentendo aprire la porta, poi riprendono a discutere.
Dopodiché Lepore esce, e la Callegari mi aggiorna. La mattinata sarà piena. I Trevisan hanno deciso all’ultimo momento che vogliono concludere oggi la transazione. Ma c’erano già diversi appuntamenti in agenda, e per riuscire a infilarli serviranno tatto e molta discrezione. Qualcuno sarà costretto ad aspettare.
Apre l’agenda e fa scorrere il dito sui primi due appuntamenti.
– Questo, e anche questo. Telefona e spostali avanti di mezz’ora. Il primo alle dieci e il secondo alle undici meno un quarto. Questo invece, – indica un cognome accanto al quale c’è un punto interrogativo, – era comunque in attesa e aspettava una conferma. Chiamalo e digli che l’unico buco libero è in pausa pranzo. Se accetta, quando arriva lo mandi da me.
In lista ci sono un altro paio di nomi. Riconosco l’ultimo: Jarmolenko. A meno che non sia un’omonimia, è l’ucraina che lavora da Lepore. Chiedo alla Callegari: – E questi due? Non telefono per spostarli?
Fa una smorfia. – Come vuoi, comunque sono postulanti. Se dipendesse da me non li farei nemmeno entrare, ma non sono io che decido. In ogni caso in tarda mattinata i ritardi sono fisiologici. Questa, in particolare, – indica il cognome della slava, – ha chiamato ieri sera tardi e non può avere troppe pretese. Se è necessario aspetterà. Lo fa sempre.
I Trevisan arrivano in leggero ritardo, seguiti da un codazzo di gente di cui fatico a immaginare il ruolo. La Callegari li accoglie e li accompagna in sala riunioni. Cinque minuti dopo rientra Lepore. Faccio appena in tempo a chiedergli se devo procurarmi da mangiare anche stavolta.
– No, quella fase è superata. Ormai è tutto nero su bianco. Li voglio fuori di qui in mezz’ora, – dice, e li raggiunge.
Il corteo dei Trevisan esce quasi puntuale e dopo di loro arrivano altri clienti in agenda che smisto tra Lepore e la Callegari, secondo le indicazioni.
La mattinata passa veloce.
Quando suona la Jarmolenko però, poco prima di mezzogiorno, la scaletta ha già subito parecchi ritardi.
Apro la porta, sembra non riconoscermi. Mi passa accanto diretta verso la sala d’aspetto.
– Le porto qualcosa da bere? L’avvocato è in leggero ritardo.
– No, grazie, – mi risponde frugando nella borsa, – aspetto –. Poi alza lo sguardo e a quel punto si ricorda di me: – Come stai? – mi chiede sorridendo. – L’avvocato mi aveva detto. Lavori qui ora. Ti piace?
Ci penso un momento di troppo prima di rispondere. Non so se posso davvero fidarmi di lei. Poi mi ricordo che loro due vivono sotto lo stesso tetto e che lo conosce senz’altro meglio di me. Magari è obbligata a sua volta a subire monologhi senza contraddittorio, almeno io la sera torno a casa.
Infatti non aspetta la risposta. Prende una rivista dal contenitore accanto al divano, tira fuori un paio di occhiali rossi dalla borsa, e comincia a sfogliarla. – Aspetto, – mi ripete guardandomi da sopra le lenti, – io aspetto qui.
La lascio seduta sul bordo del divano, le gambe serrate, il busto chino in avanti. Sono costretta a farle passare davanti una persona che arriva dopo di lei perché queste sono le disposizioni ricevute. La scavalca anche una donna che si è presentata senza appuntamento. Ogni volta che entro la trovo seduta nella stessa posizione, con la rivista in mano. Alza gli occhi, capisce che non è il suo turno, li riabbassa e riprende a leggere.
All’una Lepore mi chiama al telefono interno. – Larisa è andata via? – mi chiede.
– No, è ancora in sala d’aspetto.
Sospira innervosito. – Non si scoraggia mai. Mi porti il suo fascicolo, ma la lasci dov’è.
Quando entro nello studio afferra la cartella, la apre e la sfoglia di fretta.
– Non so se avrò tempo di vederla oggi, qui c’è tutto, ci pensi lei.
– Cosa? – rispondo preoccupata.
– Dia uno sguardo alle carte, – insiste, e fa scivolare il fascicolo sulla scrivania verso di me.
Non riesco a capire come gli venga in mente una cosa del genere.
– Ha a che fare con il furto del portafoglio? – chiedo per guadagnare tempo.
Mi risponde irritato: – È successo quattro mesi fa. Per cose come quelle basta andare in commissariato. No, è un’altra faccenda. Legga gli appunti e la denuncia, è piú che sufficiente per farsi un’idea. Poi la porti a pranzo al bar qui sotto, e le dica qualcosa di consolatorio. E non mi guardi cosí: se parlasse con me non cambierebbe nulla. Non c’è altro da fare se non aspettare che la vicenda segua il suo corso. L’unica ragione per la quale continua a presentarsi è perché ha bisogno di conforto. Le visite sono un rito. A volte aspetta ore per vedermi. Crede che questo dia alla faccenda una sorta di autorevolezza… – sospira annoiato, – oggi però non ho tempo di starle dietro.
– Non so niente di questa storia! – insisto.
Il suo cellulare suona. Lepore taglia corto. – Se ho tempo, vi raggiungo quando mi libero. Se non mi vede, inventi una cosa qualsiasi per mandarla via. Prenda qualche iniziativa, andiamo! Può raccontare quello che vuole –. Dopodiché risponde e mi liquida.
Esco dallo studio infuriata. Mi mortifica dover raccontare storie alla Jarmolenko. È difficile immaginare che Lepore farebbe lo stesso se lei non fosse anche la sua donna di servizio. Mi sembra di una scorrettezza inaudita.
Mi siedo e sfoglio le carte. È una causa di lavoro. Mi pare si tratti di una denuncia contro un dermatologo presso cui la donna ha lavorato anni fa senza uno stipendio adeguato, forse in nero. C’è tutta una terminologia tecnica che mi sfugge. Vedo richieste di contributi, straordinari, liquidazione, ferie non pagate. Gli appunti di Lepore non aggiungono molto, oltre a quello che si deduce dalla denuncia. Qualsiasi altra considerazione tecnica è del tutto al di fuori della mia portata. Non ho idea di cosa raccontarle.
La raggiungo in sala d’aspetto. Lei abbandona subito la rivista sul divano e alza lo sguardo. Vedo bene che non ha pretese, che potrebbe aspettare ancora fino a stasera, se necessario. La rivista è quella che aveva preso in mano al momento in cui si è seduta, quasi un’ora e mezzo fa. Magari sbaglio, ma sembra anche aperta alla stessa pagina.
– L’avvocato si scusa per il ritardo. Ha fame? Mi ha chiesto di portarla al bar a prendere qualcosa. Ci raggiunge appena possibile.
Si rannuvola. Per lei deve essere una prassi venire qui dentro per farsi umiliare. Per un secondo mi consola sapere di non essere l’unica vittima di Lepore. Poi penso che, oltre alla Jarmolenko, anche la Callegari riceve la sua parte, e magari ce ne sono altre di cui non so nulla, e mi vergogno per la mia meschinità.
La Jarmolenko intanto raccoglie la borsa e la giacca dall’attaccapanni, e mi segue a testa bassa fuori dall’ufficio.
Alla fine tutto si rivela semplice. Lepore deve averla trattata cosí già cento volte prima di oggi, e ormai è rassegnata al ruolo di cliente di terza categoria. Avevo paura che mi sottoponesse a un fuoco di fila di domande cui non avrei saputo rispondere, invece si accontenta della possibilità che lui passi di persona, piú tardi, mentre noi mangiamo due tramezzini tristi, ripieni quasi solo di maionese insipida.
Non devo raccontarle storie, non se le aspetta. Sa già che non ho nulla di importante da dirle. Probabilmente sono la centesima segretaria a cui Lepore la scarica. È lei, semmai, che per passare il tempo si sente in obbligo di darmi i dettagli.
– Ho lavorato lí dodici anni. Infermiera, segretaria, contabilità, pulizia. Tutto quello che serviva. Arrivavo alle sette e mezzo e andavo via anche alle otto di sera. Bello studio, all’Arcella, sai dov’è?
Annuisco, conosco il quartiere, anche se non è centrale.
– E un giorno il dottore mi butta fuori senza spiegazione. Cosí, puf. Un venerdí chiudo l’ufficio, e lunedí, quando apro, la chiave non entra nella serratura. Sulla porta c’è un cartello: lo studio chiude per ferie dal 14 al 27 settembre. Ma io non so di nessuna chiusura, – il ricordo la immobilizza, si blocca con il tramezzino in mano. Poi si riscuote: – Il padrone del bar lí di fronte mi vede, esce, mi dà una lettera. Da parte del dottore, dice. E nella lettera c’è scritto che lui non ha piú bisogno. C’è anche un assegno, con l’ultimo stipendio. Non completo, perché settembre era ancora a metà. Basta. Nemmeno grazie. Nemmeno buona fortuna.
Fa un sospiro incredulo fissando un punto oltre le mie spalle. Si china verso di me, mi afferra un braccio, mi costringe a piegarmi in avanti come se volesse confessare qualcosa di riservatissimo, e sibila: – Allora l’ho denunciato, quel maledetto! – Si rialza di scatto sbattendo il palmo aperto sul tavolo. I bicchieri sobbalzano.
Mi guardo intorno.
Un ragazzino seduto lí accanto, che stava facendo scorrere il pollice sull’iPhone, si è girato e ci fissa. È assieme a un altro ragazzo con un giubbotto in pelle nera e gli auricolari, che muove la testa al ritmo delle percussioni. Anche lui guarda il telefono, ma a differenza dell’altro non ha sentito il colpo. L’amico gli dà un calcio leggero per attirare la sua attenzione. Indica con il mento verso di noi. Quello col giubbotto si toglie un auricolare di malavoglia, e avvicina la testa per ascoltarlo. Parlano sottovoce. Ridacchiano. Poi vengono inghiottiti di nuovo dai telefoni, ognuno nel suo pianeta, assorbito da un passatempo non condivisibile.
La Jarmolenko va avanti. – Ho cercato un avvocato, ho chiesto in giro, non volevo uno qualsiasi. Io volevo il migliore. Il piú cattivo, e cosí ho trovato Lepore.
– Lavorava già per lui?
– No, lui mi ha assunto dopo. Sapeva che stavo cercando un posto, come te.
Un benefattore, penso. Forse spero che dica una cosa del genere, senza il sarcasmo che ho usato io nel formulare il pensiero. Perché magari cosí posso illudermi di essere io quella che esagera, e che lui sia migliore di ciò che sembra.
Invece non aggiunge una parola. La loro convivenza dev’essere difficile come la mia. Lei però è diversa. Non esita, non si pone nemmeno il problema. Vuole vendetta, e Lepore può procurargliela. Non importa se questo la obbliga a vivere accanto a un uomo ostile, forse neppure se ne accorge.
Però non mi torna il resoconto dell’intervento legale di Lepore, almeno fino a oggi. Perché la Jarmolenko accenna a una serie di trattative con il medico di cui non ho visto traccia nella cartella. È vero che non ne so un accidente, ma negli appunti non vedo riferimenti a operazioni successive alla prima denuncia, che ormai risale a quattro anni fa.
Non voglio correre rischi, quindi non sollevo il problema e lascio che continui a parlare. Mi racconta della sua vita in Ucraina, e dei primi tempi in Italia. Al posto del caffè che bevo io, lei ha una birra, la terza dall’inizio del pasto. Piccole, tutte e tre, e sufficienti a renderla malinconica.
Il passato riaffiora a sprazzi in modo disordinato. Prima il marito che ha lasciato a casa senza nessun rimpianto, e di cui non ha piú notizie da allora. Poi il dermatologo con lo studio all’Arcella. Ancora un salto indietro, i figli. Non ne ha avuti e non le mancano. I genitori, morti anni fa. E piccoli eventi sconnessi e frammentari, lavoretti, amicizie superficiali, nessuna relazione stabile dopo il matrimonio.
– Ucraini, italiani, non fa differenza. Tutti uguali. L’italiano sembra piú gentile i primi tempi. Poi alla fine è come gli altri. E per me è difficile, perché non sono una che accetta tutto. L’italiano con una slava pensa questo, che può fare quello che vuole. Perché l’italiana pretende. L’ucraina invece viene da un Paese dove gli uomini ti picchiano, ti rubano i soldi. Basta che tu non picchi, e sei meraviglioso –. Le si annacquano un po’ gli occhi, forse pensa a qualcuno. Se però c’è stata una storia su cui si era fatta qualche illusione non me la racconta.
Ogni tanto, in mezzo a ricordi che emergono a fiotti, la rabbia esplode improvvisa. Quando le torna in mente il dermatologo ricomincia a tirare manate sul tavolo. Lo fa senza preavviso, non riesco mai ad anticiparla. Per fortuna ormai la pausa pranzo è passata e nel locale siamo rimaste solo noi.
– È colpa sua! Io non ero venuta a fare la badante! Avevo un lavoro vero, anche prima di partire. Volevo altro, sono diversa da quelle che arrivano qui. Tutte ignoranti, disoccupate, abbandonate dal marito con cinque o sei figli da mantenere a casa. Poi i bambini crescono, loro spendono tutti i soldi per farli venire in Italia, e gli schiaffi che non avevano ancora preso dal marito, li prendono dai figli!
Le copro una mano con la mia sperando che si calmi.
Lei guarda le nostre mani sovrapposte, poi alza gli occhi umidi e mi fa una carezza: – Ti sembro una badante, io? – Ma non aspetta la mia risposta. – Invece, dopo che il dottore mi ha licenziato all’improvviso, è quello che ho dovuto fare. Le badanti sono tutte stupide. Donne stupide. Lavorano quindici, venti anni in Italia, per costruirsi delle villette orribili al loro Paese. Di cemento, senza luce, in periferia, col giardino pieno di erbacce, l’orto, i cani che abbaiano tutta la notte. Sembrano prigioni. Sono donne che non hanno progetti veri, non vogliono imparare niente. Finché stanno in Italia si riuniscono e parlano solo della casa che stanno costruendo, e che vanno a vedere d’estate. Ci vogliono anni a tirarne su una. Anni, e per cosa? Per fare una villetta brutta dove io non vivrei mai. Oppure parlano delle famiglie italiane, del vecchio che seguono. Si lamentano. Dicono che sono vittime. Gli piace essere vittime. Io non mi sono mai mischiata con loro. Mai. Ho studiato, sapevo l’italiano anche prima di venire. Ho cercato e ho trovato un lavoro diverso. E dopo potevo fare tante cose, se il dottore era onesto, se mi pagava il prezzo giusto e mi metteva in regola. Avevo progetti. Invece mi ha cacciato, non mi ha dato quello che mi spettava, e sono finita anch’io a fare la badante, questo mestiere schifoso.
– Ma ora dall’avvocato fa qualcosa di diverso, no?
Lei conferma, inclinando la testa. – Sí, lí non ci sono vecchi.
No, mi dico. Malgrado tutto è difficile pensare a Lepore come a un vecchio.
– Quindi è una specie di governante. In una casa cosí grande serve una persona di fiducia.
L’immagine evocata dal suono di quella parola le piace. Non so se esistano piú, le governanti, e dubito che Lepore le abbia mai presentato la questione in termini simili. Mi pare molto piú plausibile che faccia cose di basso profilo – lavare e stirare camice, passare l’aspirapolvere, rifare letti. La prospettiva però le mette allegria. Sono contenta di averle risollevato l’umore.
– Governante, sí –. Il sorriso però non dura. Si incupisce di nuovo. – Comunque diverso da quello che potevo fare –. Stavolta le vedo lo schizzo di rabbia negli occhi e riesco ad anticipare la manata sul tavolo. Le afferro il braccio e rallento la traiettoria prima che sbatta sulla superficie di metallo.
Lei mi guarda sorpresa.
– Quando è finita con il dottore? – chiedo per distrarla.
Ci pensa un po’: – Sette anni.
Sette anni sono tanti. Sette anni fa mi sono iscritta a Medicina andando via da casa. Un’altra vita.
– E ha ottenuto qualcosa, finora?
– Prima dell’avvocato? No. Con il dottore non potevo parlare al telefono. Non rispondeva. Dopo ho deciso di fare la denuncia. Adesso Lepore parla con il suo avvocato e aspettiamo l’udienza –. Poi stringe gli occhi. – Dodici anni ho lavorato. Dodici anni come una serva. Io voglio quello che è mio.
È granitica. Nessun cedimento. Non insisto perché non voglio che riprenda a battere sul tavolo pugni o bicchieri di birra, tanto piú che quello che beve è il quarto.
Guardo l’orologio. Siamo qui da piú di un’ora. Includendo il tempo che ha perso ad aspettare in studio, sono due ore e mezza della sua giornata trascorse senza concludere niente. Manda giú l’ultimo sorso di birra e vuota il bicchiere, lo mette sul tavolino. Non sono sicura che sia in grado di reggersi in piedi.
– Vuole che la accompagni a casa? – le chiedo, pensando che Lepore non si farà piú vedere.
Lei rifiuta. Restiamo in silenzio un paio di minuti. Forse sarebbe il caso di andare. Però quando alzo gli occhi vedo Lepore superare la porta e venire verso di noi.
La sua sola comparsa trasforma la Jarmolenko in una creatura intimidita. Mi stupisce, considerando la familiarità quotidiana che devono avere in casa. In un contesto ufficiale si fa impressionare. Del resto, anche mentre aspettava in sala d’attesa, dava l’idea di essere in difficoltà.
Lui non si siede, ci osserva accigliato, incombente. Non sembra bendisposto. Nemmeno un accenno di scuse a Larisa per averla fatta aspettare tutto quel tempo.
– Non pensavo di trovarvi ancora qui –. È l’unica cosa che sente il bisogno di dire.
La Jarmolenko lo guarda: – La scadenza di maggio, – mormora.
– L’udienza? Rimandata a ottobre. L’ho saputo stamattina. Avrei potuto dirtelo stasera a casa. Non so che gusto ci provi a venire qui a perdere tempo.
La donna china il capo. – Scusi, – dice. – Non importa. Il tempo si trova.
Lepore non aggiunge altro, la Jarmolenko capisce che il colloquio è finito e si alza a fatica. Saranno tutte quelle birre. Le do una mano a tirarsi in piedi. Raccoglie la giacca, il foulard, la borsa, ma senza indossarli, vuole togliersi di mezzo in fretta. Mi fa un sorriso mortificato e ci lascia soli. Si ferma un attimo accanto alla cassa e comincia a rivestirsi. Stringe il foulard beige intorno al collo, chiude la zip della giacca. Poi carica la borsa sulla spalla sinistra con slancio, come se fosse pesantissima. Infila la porta e se ne va.
La seguo con lo sguardo attraverso la vetrata. Appena prima che svolti l’angolo, un ciclista che corre come un matto sul marciapiede le sbuca davanti. Indossa un’attrezzatura professionale, la tuta nera e azzurra aderentissima, il caschetto allacciato, e gli occhiali da sole a specchio con i riflessi arancioni. Inchioda per non investirla e lei si porta una mano al petto per lo spavento.
Rimangono fermi per qualche secondo, uno di fronte all’altra, ansimando. Poi lei si fa da parte, lentamente. Il ciclista le sfila accanto a un’andatura piú contenuta, scarta il marciapiede e si immette nella ciclabile. Larisa riprende a camminare e sparisce dietro l’angolo.
Solo allora mi accorgo che Lepore si è seduto, e mi sta guardando.
Da qualche tempo mi sembra diverso, piú sottile, come se procedesse velocemente verso qualche forma di disincarnazione dalla materia.
– Lei mi giudica, – dice sorridendo. – È perché non sa. Se nella vita si fosse annoiata a lungo quanto me, saprebbe che le mie motivazioni sono valide come tante altre. Mi concedo qualche diversivo per passare il tempo.
Io non ammicco, nemmeno per educazione. E non abbasso gli occhi.
– È un essere umano, – dico, indicando verso la porta da cui è appena uscita la Jarmolenko, – non una sorta di intrattenimento sociale.
Non è sociale l’aggettivo che ho in mente. È senile. All’ultimo momento però mi manca il coraggio.
– Lo so, – risponde. – Ed è una persona per cui mi impegno, nei limiti delle mie possibilità. Alla fine otterrà quello che vuole, quando sarà il momento. Potrà contare sullo stesso supporto che ha avuto Renata. O tutte le clienti che ha conosciuto in questi mesi. Nel caso di Larisa, metta in conto che lo faccio anche quasi gratis.
– Gratis non direi.
– Perché non sono affettuoso e partecipe mentre seguo la faccenda? O perché non mi intenerisco e non le sorreggo quando si ubriacano? Sarebbe inutile, per loro fa lo stesso. Lei sottovaluta la resistenza delle donne, la loro ostinazione. Una virtú che non finisce mai di stupirmi. L’accanimento con cui inseguono quello che credono di volere senza mai domandarsi se lo vogliono davvero. Una stupidità inossidabile, – conclude.
Si gira, attira l’attenzione del cameriere, e si fa portare un tè.
– La resistenza è un limite? – gli chiedo. – Non è una qualità? Non è l’unico modo per superare una crisi?
– Dipende. In certi casi. Ma solo se durante il tragitto ci facciamo qualche domanda. Altrimenti cos’è che la distingue da un’ossessione? Diventa qualcosa che va oltre l’intento di ottenere un risultato, è semplicemente il desiderio di trascinare un altro in fondo al burrone assieme a noi, per il gusto di distruggere entrambi.
– Le donne non sono tutte uguali, e neppure gli uomini. Io direi che… – esito, lui fa un gesto ampio per invitarmi a procedere, – … direi che ragionare per categorie è sempre scontato. E riduttivo.
– Dice questo perché non ne ha osservate tante da vicino, a differenza di me. Le posso dire una cosa con certezza. Sono sempre le donne che pretendono di piú dalla vita. Hanno il culto ottuso della felicità, della pienezza dell’esistenza.
– E cosa c’è di sbagliato? Gli uomini invece non vogliono essere felici?
– Naturalmente. Ma la felicità di un uomo è proiettata su un orizzonte quotidiano, non metafisico. Una cosa fatta di piccoli punti d’appoggio, di certezze disseminate nel corso della giornata. E se oltre a questo hanno un interesse piú serio, non lo delegano a una relazione. Vanno a prenderselo da soli.
– È la stessa cosa che serve alle donne! Non è sull’appoggio, sulla stabilità che contano? Quella della famiglia, degli affetti, del lavoro?
– Neanche per sogno. La felicità di una donna non è mai quello che c’è. È sempre quello che potrebbe essere. Un tempo al futuro, un ideale cui bisogna tendere. Ma sono d’accordo con lei, non ci sarebbe niente di male, l’ambizione non è un difetto. Il difetto è cercare le cose nel posto sbagliato. Avere desideri per sé, e pretendere che diventino il fine condiviso della relazione. Perlopiú senza chiedere il parere della controparte. E poi si stupiscono se quella non collabora.
Guardo fuori dalla porta da cui è sparita la Jarmolenko. – Cosa c’entra tutto questo con Larisa? È stata sfruttata per anni. Non aveva sposato quell’uomo, era il suo datore di lavoro.
– Non parlavo di lei, infatti. Quella di Larisa è una storia particolare, ma è un caso piú raro. C’è in effetti uno sfruttatore classico, non ingenuo come un marito medio, che di norma non capisce nemmeno cosa succede fino a quando non è troppo tardi. Lo schema però è identico. Larisa non è stupida, aveva dei soldi da parte quando il rapporto di lavoro si è interrotto – un po’ bruscamente, lo ammetto. Avrebbe potuto ricominciare comunque in un posto diverso, presentando una denuncia, se necessario, e se proprio ne vogliamo fare una questione di giustizia. Senza però rinunciare a vivere. Invece ha preferito incatenarsi al passato e investire tutto quello che le restava per rovinarlo. Si è consacrata allo scopo di rimanere l’unica superstite sulle macerie. Le faccio un favore ritardando l’esito della causa, mi creda. Perché, quando avrà ottenuto quello che vuole, non le resterà piú niente da desiderare.
Tutto quello che dice mi sembra al tempo stesso gretto, massimalista, riduttivo e ragionevole. Perfino io l’ho pensato, mentre Larisa mi raccontava la sua storia. Quelle manate sul tavolo mi dicevano di un’ossessione morbosa, un boccone impossibile sia da sputare che da inghiottire.
E se succedesse a me, sarei capace di non farmi inquinare l’esistenza da un insulto cosí grave? È possibile, è giusto, è equo assolvere un carnefice e passare oltre quando siamo certi di avere subito un’ingiustizia?
Il cameriere porta il tè. Mi chiede se voglio qualcos’altro, scuoto la testa. Ho lo stomaco contratto. La vicinanza di Lepore è sempre indigesta, perfino fuori dai confini dello studio.
D’improvviso mi ritrovo a pensare che non c’è nessun motivo per cui dovrei rimanere qui seduta ad ascoltarlo. Parlare con lui non è mai stato un piacere. E anche oggi sono saltate fuori almeno due ore di straordinario non calcolate. Ormai all’appello manca un giorno. Non ho tempo da perdere con le sue stronzate paranoiche.
Mi giro a prendere la borsa e faccio per alzarmi.
Lepore deposita una fetta di limone in fondo alla tazzina e mi guarda mentre metto insieme le mie cose.
– Non vuole sapere invece che tipo di donna è lei? – mi chiede versandosi il tè.
– Me l’ha già detto, – rispondo secca, – una che si sopravvaluta.
– No, in quel caso mi riferivo a uno stile di comportamento. Quello delle persone rigide che si esprimono per assoluti: «Io non sono cosí. Non farei mai questo. A me non potrebbe accadere». Non dice niente sulla sua natura. Si sieda –. Mi sorride.
Rimango con la borsa in mano per un paio di secondi. Poi l’appoggio di nuovo sulla sedia accanto. – Immagino che ora mi dirà che dentro di me c’è un’arrampicatrice. Una persona incapace di ottenere dei risultati con le sue forze e di assumersi una responsabilità. Una che aspetta di trovare un uomo da manipolare.
Lui ridacchia, molto divertito. – Figuriamoci, certo che no. Lei è il tipo opposto. Credo che statisticamente sia un campione piú numeroso, sebbene io ne veda poche. Il mio studio catalizza solo gli esemplari davvero avvelenati.
– Opposto in che senso? – chiedo io.
– Le vergini sacrificali, – mi risponde. E posa con prudenza le labbra sull’orlo della tazza bollente. Poi la appoggia di nuovo sul tavolino. – Quelle che subiscono e che si fanno carico dei peccati degli altri. Molto piú facili da controllare. Assorbono passivamente il condizionamento ambientale, la famiglia, la scuola, la parrocchia, tutto quello che serve a spegnerle, a cancellare ogni libera iniziativa, ogni desiderio di sperimentare, ogni istinto a immaginarsi libere. Poi, se appena si azzardano ad alzare la testa, basta far calare dall’alto un giudizio negativo, o solo minacciare di farlo, e non riescono piú a muovere un passo. Si paralizzano, e diventano marionette radiocomandabili a distanza, anche in assenza del carnefice originario. Basta manipolare la colpa immaginaria che si portano dietro. Guardi lei, per esempio: una ragazza intelligente. Eppure, cosa abbiamo qui? Sette anni di studi stentati, con risultati mediocri, a un passo dall’abbandono, e perché? Perché la mamma ha sabotato la nostra autostima e non ha mai creduto in noi.
Devo fermarlo.
– Lei non può parlarmi cosí. Non mi conosce abbastanza per dire una cosa del genere.
Ma lui ignora e prosegue: – So quello che occorre, che in ogni caso non è molto. È bastata la scena sgradevole cui ho assistito anch’io qualche giorno fa per cancellare mesi di sforzi. Parlo della signora piuttosto aggressiva che sembrava avere pessime intenzioni nei suoi confronti fuori dal mio studio, non può averla dimenticata. Quell’episodio ha risvegliato il demone del senso di colpa. Lei aveva preso l’abitudine, magari anche il piacere, di vestire in un certo modo, no? Ho notato che da allora il suo stile ha subito una battuta di arresto, diciamo cosí.
Mi guardo. Non porto una gonna oggi, ma un paio di pantaloni blu, e so di non essere truccata. Stamattina sono uscita di fretta. Non ho avuto tempo di farci caso e non ricordo com’ero vestita negli ultimi giorni. Sono cosí concentrata sull’esame da dimenticare tutto il resto.
– È una coincidenza! Oggi andavo di corsa.
– Quindi non è perché si sente a disagio a vestirsi da donna, come le hanno insegnato a pensare?
Balbetto. – Credo che siano affari miei.
– Non discuto. Se la cosa non le crea problemi, perché non si confida con sua madre? È una donna adulta, si mantiene da sola, è capace di decidere per sé, può fare quello che vuole. Dimostri di essere impermeabile al giudizio. Vada fuori, la chiami e le dica: sono l’amante di un uomo sposato.
Mi manca il respiro. Scatto in piedi, prendo la borsa ed esco dal bar correndo. Appena arrivo nella mia stanza mi butto sul letto con la faccia sotto il cuscino. Premo il viso contro il materasso e sprofondo al centro della Terra. Non riesco a pensare altro se non che odio quell’uomo. E che devo trovare a tutti i costi un modo per lasciare l’ufficio.
Ieri ho fatto l’esame.
Un quiz a risposta multipla da quaranta domande in due ore di fronte al computer. Un massacro. Se l’ho passato, l’orale fra due settimane sarà poco piú di una formalità. Serve solo per alzare il voto, se proprio uno ci tiene. Superato lo scritto è fatta.
L’unica nota positiva è che la correzione dei risultati è automatica e l’esito esce oggi, entro le dodici.
È mezzogiorno e un quarto. Ho aperto e chiuso il portatile almeno cinque volte, finora, ma mi è sempre mancato il coraggio.
Ci riprovo ancora, stavolta spero di farcela.
Il link al sistema informatico di gestione del curriculum è sulla barra dei preferiti. Lo clicco, mi autentico, ed entro.
Il mouse schizza ai quattro angoli del monitor. Mi trema la mano. La blocco, la tengo ferma e la sposto lentamente fino ad arrivare al pulsante che dice: «Esiti delle prove sostenute».
Clicco. Un solo risultato in attesa.
Chiudo gli occhi. Respiro. Li riapro e leggo.
«Fisiologia. Prova scritta sostenuta il 20 aprile. Esito: ventotto».
L’incredulità dura un paio di secondi. Poi dal centro del petto parte una sferzata di gioia che si allarga come un fuoco d’artificio. Mi formicolano le mani. Sento il carrozzone scricchiolante della mia vita che si stacca dal fango e si rimette in moto. Esco da un coma vigile, da uno stato di paralisi senza orizzonte. Il segnale che aspettavo.
Scatto in piedi spingendo via la sedia. L’entusiasmo mi catapulta al centro della stanza. Mi metto a vorticare a braccia spalancate.
E proprio in quel momento si affaccia un pensiero, un grumo di detriti che oscilla in bilico sullo specchio d’acqua della mia allegria e poi frana con un tonfo, si espande, e satura di pece ogni spazio mentale disponibile.
C’è un unico motivo per cui ho ottenuto questo risultato. Il mio lavoro, e le opportunità che mi concede. Non posso andarmene, ho troppo da perdere. Sono diventata anch’io una prigioniera di Ludovico Lepore.