15 luglio 1959.

Poco dopo le nove di sera la corriera arriva al capolinea e Ludovico e Guido scendono a Volterra. Guido è sereno, e pare piú allegro del solito.

Ludovico lo sa con certezza perché passa la notte a guardarlo senza chiudere occhio. Lo sente girarsi appena un paio di volte, poi respirare pesantemente un minuto dopo essersi coricato sul letto accanto al suo, e infine crollare in un sonno di pietra, mentre lui, seduto con la schiena contro la spalliera del letto, continua a fumare per ore. Per accorciare l’agonia si alza prestissimo, prima delle sei, buttandosi alle spalle le lenzuola che sono un groviglio di sudore.

Ha dovuto lottare tutta la notte contro la tentazione di saltare sul primo mezzo pubblico e scappare, e ha resistito solo perché è certo che in una cittadina come quella, al buio, non ci sia alcuna opportunità per andarsene se non allontanarsi a piedi, che è una prospettiva melodrammatica e ridicola.

Al mattino lascia che Guido dorma fino a tardi, non lo sveglia. Ma appena possibile ha intenzione di dirgli che ha deciso di ripartire subito, e da solo.

Quando Guido si decide a scendere è cosí imperturbabile che Ludovico all’improvviso non sa piú cosa fare. Guido continua a comportarsi come se non fosse successo nulla. Se Ludovico gli annunciasse la sua decisione, dovrebbe spiegare il perché, e a quel punto spetterebbe a lui l’obbligo di riparlare dell’accaduto. Questo gli pare inaccettabile, e profondamente ingiusto.

Guido esce dall’albergo e si avvia lungo la strada respirando a pieni polmoni, come se il mondo fosse suo. Ludovico lo segue smarrito.

– Dove vai? – gli chiede accelerando il passo per raggiungerlo.

– Non hai fame? Voglio mangiare, andiamo.

Percorrono i vicoli del paese alla ricerca di un bar per mettere qualcosa sotto i denti. L’atmosfera è cosí surreale che Ludovico comincia a immaginare di avere sognato. Due ore dopo ne è quasi certo. Quando Guido gli sfiora il braccio camminandogli accanto si irrigidisce appena. Ma l’amico è talmente pacificato che Ludovico riprende fiato.

Nel pomeriggio entrano nella bottega di un antiquario. L’interno è scarsamente illuminato, umido, con un leggero sentore di muffa e di legno.

Si dividono, ognuno attratto dalle proprie curiosità. Ludovico si avvicina a una consolle dove è disposto un gruppo di figurine femminili scolpite in alabastro. Ne prende in mano una che rappresenta una donna inginocchiata e seminuda che solleva un braccio dietro la testa esaltando la forma del seno. La mette in controluce sotto una lampada. L’alabastro è bianco, opalescente, attraversato da sottili venature grigie, vellutato al tatto.

– Ti piace? – gli chiede Guido che compare alle sue spalle. Ludovico pensa si riferisca alla statuina, ma l’altro indica invece una credenza in noce. Rimette al suo posto l’oggetto che ha in mano e si avvicinano insieme.

Sullo scaffale piú alto della credenza c’è una scultura in bronzo di medie dimensioni, isolata, come se non ammettesse compagnia. È sottilissima, alta all’incirca sessanta centimetri. Rappresenta una figura efebica maschile con arti e busto allungati in modo innaturale, ritta e immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Le uniche parti del corpo che rispettano le corrette proporzioni sono le estremità: le mani, i piedi, il volto, che è quello di un adolescente scarnificato dal tempo, tumefatto, i tratti camusi, specie se visto di fronte. Di profilo invece sembra piú naturale, e anche molto piú giovane, quasi un bambino, con il naso minuto e una ciocca di capelli che si raccoglie a punta sulla guancia.

L’antiquario si avvicina alle loro spalle e non dice nulla. Lascia che si facciano attirare dalla malia dell’efebo. Poi accenna a voce bassa: – L’Ombra della sera.

Ludovico e Guido non dànno segno di avere sentito.

– È cosí che si chiama, – aggiunge l’uomo.

«Il nome perfetto per questa figura stilizzata», pensa Ludovico.

– Non è il vero nome. Quello non lo conosce nessuno. Fu un’idea di D’Annunzio chiamarlo cosí. L’originale è etrusco, e si conserva qui, al Museo Guarnacci. I signori l’hanno visitato?

I due scuotono la testa per dire che no, non hanno visto musei di recente, né lí né altrove. Il loro non è un viaggio di cultura. Hanno cose piú importanti da capire.

L’antiquario si sposta e li affianca. È piccolo e scuro, fa pensare a un sensale di matrimoni.

Afferra la statua e la rovescia per mostrare il numero di serie.

– È una copia autorizzata dell’originale, da un calco in cera, realizzata con un procedimento unico e in un numero limitato di esemplari. Ha il suo certificato, – dice. E la porge a Guido per invitarlo a verificare.

Guido la afferra e la fa ruotare tra le mani.

– Allora, ti piace? – insiste. Ludovico non sa cosa pensare.

L’efebo ha il suo fascino siderale, ma anche una carica maligna che lo disorienta. Non c’è nulla che sia piú distante da lui della superstizione, eppure è quasi certo che quell’oggetto porterà sfortuna a tutti e due.

Finge che non gli importi, sapendo che nascondere qualcosa a Guido è quasi impossibile. Conosce la sua vena provocatoria.

Guido se ne accorge, infatti, e dichiara entusiasta: – La prendo.

La porge sorridendo all’antiquario, che si affretta a portarla via per imballarla.

– Se ti dispiace tanto la terrò io. Mi sembrava un bel ricordo del viaggio. È evocativo, in qualche modo.

– Evocativo di cosa? – chiede Ludovico, preoccupato.

– Del lato visibile delle cose, e di quello nascosto. Mi piace l’idea che getti un’ombra lunga. Un’ombra sproporzionata. Come se ciò che nasconde fosse molto piú vasto di quello che mostra.

Ludovico si sente di nuovo in difficoltà, stavolta non deve farsi prendere di sorpresa, tanto piú che sono di nuovo soli.

– Se lo dici tu, – conclude. E si gira in fretta verso l’uscita.

Il resto del viaggio procede senza intoppi e senza allusioni. Rimangono fuori qualche giorno, poi si avviano di nuovo verso casa. In corriera, e poi piú tardi in treno, la statua riposa in mezzo a loro avvolta nell’imballaggio, troppo grande per entrare nelle sacche da viaggio.

Nascosta e invisibile li separa già, in modo impercettibile, impedendo che le braccia si sfiorino quando la corriera prende una buca e sobbalza. Avvolta nella carta da pacchi, a Ludovico sembra ancora piú maligna e pericolosa.

Al rientro Guido mantiene la parola e la prende con sé.

Si separano un giorno appena, il tempo di farsi rivedere in famiglia. Hanno già preso accordi per partire di lí a ventiquattro ore per una vera vacanza. Che sarà l’ultima prima dell’università.