8.
Stamattina comincio con un paio di negozi in centro. Consegno e ricevo incartamenti, mi faccio firmare ricevute, deposito pratiche invitando i clienti a leggere e firmare. Poi rientrerò in ufficio per archiviare tutto.
Finito con i negozi, taglio per le Riviere e passo sotto porta Altinate reprimendo il desiderio di un gelato. Adesso che guadagno qualche soldo in piú, ogni tanto mi concedo un minuscolo lusso e me lo godo come un premio. Ma ho troppa roba in mano. Non voglio correre il rischio di macchiare nulla, e neppure di dimenticare qualche pacco in giro, visto che mi è già capitato.
Al secondo piano di uno stabile signorile di via Santa Lucia suono al campanello di un centro estetico. Mi apre un tizio massiccio in camice bianco, è la persona che stavo cercando. Lo so perché ha il nome ricamato sull’etichetta appena sopra il risvolto del taschino. Devo fargli firmare un pacco di carte alto cinque centimetri, e so già che ne avremo per mezz’ora. Non mi sembra molto lucido, e senza fargli fretta gli indico il primo foglio della pila.
Lui si mette a scrivere d’impegno, la cosa gli viene difficile. Tiene stretta la penna con le dita contratte. Ha bicipiti cosí grossi che non riesce a tenere il braccio abbastanza vicino al busto per scrivere decentemente. Uno dopo l’altro tira via dei ghirigori che potrebbero essere qualsiasi cosa. Mi domando quale valore legale possa avere una firma cosí, ma non posso obbligarlo a fare di meglio. Se la Callegari mi dirà che non va bene, mi toccherà tornare. Non sembra cattivo, e nemmeno il tipo che potrebbe innervosirsi per una richiesta simile. Però non si può mai sapere.
La cosa va per le lunghe, mi guardo intorno.
Da una porta accostata si intravede una sala foderata di pannelli in legno che arrivano fino al soffitto. Al centro sono allineate diverse capsule, grandi abbastanza da contenere un corpo umano. Due sono occupate da donne distese in orizzontale. Se i piedi fuoriuscissero dal capo opposto sembrerebbero pronte per essere tagliate in due da un prestigiatore. Ma i piedi sono dentro, come tutto il resto, eccetto la testa. Entrambe guardano il soffitto senza parlare tra loro. Una è giovanissima, l’altra avrà forse cinquant’anni.
I volti hanno un aspetto che ricorda i santini dei protomartiri da portafoglio: mansueti e immobili, lo sguardo rassegnato e rivolto verso l’alto. All’interno delle capsule qualche meccanismo arranca, si agita, sbuffa ed emette una leggera cortina di umidità. L’aria è satura di un’essenza dolciastra, fa pensare al sandalo.
Torno a guardare il culturista in camice bianco che va avanti a firmare, un foglio dopo l’altro. Dietro di lui c’è una bilancia professionale a colonna, grossa e cromata, che si riflette su una grande specchiera a parete.
Il telefono non ha smesso di squillare da quando sono entrata, l’uomo non ci fa caso. Continua a firmare, concentrato, la lingua che spunta tra i denti. Calca cosí forte sul foglio che l’inchiostro passa da parte a parte. In qualche modo riesce ad arrivare fino in fondo. Chiude la cartellina con un sorriso soddisfatto e me la restituisce. Mentre esco lo vedo avviarsi verso la sala sul retro e urlare sopra il rumore a stantuffo delle macchine: – Allora, ragazze, come andiamo?
Quando mi libero è già trascorsa buona parte della mattinata. Controllo l’orologio. Forse, se faccio in fretta, riesco a passare dall’officina meccanica prima dell’ora di pranzo. Ho dei documenti da consegnare anche lí.
Ci arrivo in dieci minuti. Entro, ma non vedo quasi niente, troppo buio. Poi comincio a intravedere il profilo delle auto parcheggiate. Ce ne sono un paio con il cofano aperto, e un’altra, piú vicina, di cui distinguo a malapena la sagoma. Un meccanico lavora sdraiato tra le ruote posteriori, sbucano solo le gambe.
A parte l’uomo sotto l’auto non vedo nessun altro, quindi mi avvicino a lui e mi schiarisco la voce sperando che mi noti. È inutile. Non mi sente. Oppure mi ignora.
Provo ad avvicinarmi alle auto con il cofano aperto. Una delle due ha il motore collegato a un computer portatile appoggiato a un tavolino di metallo. Sul monitor scorrono grafici in sequenza rapidissima. Intorno ci sono due uomini e un ragazzo molto giovane in tuta da lavoro che in un primo momento non avevo notato perché sono appena fuori dal cono di luce che cade dall’alto. Fissano in silenzio il computer, ipnotizzati. Il raggio della lampada li investe come una composizione sacra e si riflette sulle loro espressioni concentrate. Sembra un quadro: adorazione dei pastori con radiatore.
Nessuno di loro dice una parola oppure alza la testa per guardarmi.
Va bene, non posso passare qui tutta la giornata. Prendo fiato:
– Il signor Marcato? – sussurro con la sensazione di interrompere un rito.
Uno dei tre alza la mano. Ma non perché è Marcato. Lo fa per zittirmi. Prima porta il dito davanti alla bocca e poi lo punta verso la parte posteriore dell’officina.
Guardo nella direzione che mi indica. C’è un ufficio dietro una parete a vetri che però è vuoto. Non importa, immagino sia il posto migliore dove aspettare il titolare, ammesso che non sia uno di quelli che ho visto finora.
Busso e apro la porta chiedendo permesso. Lo faccio solo per abitudine alle buone maniere. La parete è trasparente, so benissimo che dentro non c’è nessuno. Ne approfitto per mollare i documenti sul tavolo e sciogliere le braccia anchilosate. Suppongo che qualcuno dei meccanici avviserà il titolare.
Il buio qui è meno pesto che in officina. Sulla parete di fondo una porta di vetro smerigliato affaccia su un cortile interno e fa passare la luce. Osservo i poster sui muri tanto per fare qualcosa. Suppongo siano pubblicità di lubrificanti o batterie. Poi mi avvicino di piú e realizzo che sono calendari pornografici.
Faccio un passo indietro. Cerco di ignorarli, non è facile, coprono ogni centimetro quadro disponibile. E hanno qualcosa di dissonante. Rialzo gli occhi a fatica e intuisco subito cos’è: il piú recente sarà del 1985, il resto invece risale almeno agli anni Settanta. È cosí cambiato il modo di rappresentare l’erotismo, che in un certo senso sembrano foto da oratorio. Se non fosse per tutto quel pelo che stride con la pornografia che circola oggi, direi che sono immagini che hanno perfino un certo candore.
Quasi non ti accorgi che sono donne nude. Eppure lo sono. Nude, e magari anche a gambe aperte, su un divano in tessuto sintetico leopardato, contro un muro coperto da carta da parati optical. Sorridono senza nessuna carica allusiva, oppure al contrario con arie da panterona caricaturale. L’unica cosa che riescono a evocare è l’immagine di una bambina che gioca a infilare le scarpe col tacco della madre senza riuscire a riempirle.
Alcuni poster sono a fumetti. «Zora la Vampira», c’è scritto sotto il disegno di una donna nuda seduta a cavalcioni di uno zombie adagiato in una tomba. Le enormi braccia viola del mostro strizzano il seno della donna.
Sul tavolino di fronte al divano sono sparse riviste dello stesso tipo. Mi siedo, mi guardo in giro per accertarmi che nessuno mi veda e ne raccolgo un paio. La prima è un «Playboy» del 1974 con una donna che dice: «Quello che non posso farvi vedere in tv». Accanto c’è un nome, io però non so chi sia. È in piedi, fotografata di profilo, indossa solo un lungo boa di struzzo e un panama che tiene fermo sulla testa con la mano. Tutto quello che si vede del suo corpo nudo è un accenno di pelle e a malapena il profilo del culo. Oggi con una cosa cosí non pubblicizzerebbero nemmeno uno sciroppo per la tosse.
Poi c’è un numero di «Playmen». Sembra un reperto. In copertina c’è una donna bionda, avvolta in uno scialle bianco che lascia scoperte solo le spalle. Anche lei deve essere stata famosa perché il nome campeggia come un richiamo accanto alla foto, ma a me non dice nulla. La cosa piú erotica che fa è sporgersi in avanti, ammiccando. Il seno però non si vede. In alto a destra c’è scritto: «Lire 4000».
D’improvviso la porta che dà verso l’officina si apre. Getto la rivista sul tavolino e scatto in piedi, anche se sono quasi certa che sia troppo tardi. Il titolare mi ha vista mentre la sfogliavo.
Cerco di riprendere il controllo recuperando la cartella di documenti che ho appoggiato sulla scrivania.
L’uomo non è uno di quelli che ho già visto lavorare in officina. Sulla sessantina, grosso come un armadio, con i basettoni e i baffi alti tre dita. La testa è tinta di un nero scurissimo, e lisciata con il gel. Il colore è fatto cosí male che una lunga striscia nera spicca sulla fronte all’attaccatura dei capelli. È molto in linea con l’estetica dei calendari sui muri, sembra uscito anche lui dagli anni Settanta. Porta la tuta da lavoro come gli altri, e si rigira tra le mani uno straccio lurido con cui si toglie il grasso. Non dice nulla, però mi guarda con insistenza.
Mi presento cercando di non farfugliare, e gli spiego perché sono lí. Lui fa dei grugniti di approvazione e si avvicina mentre indietreggio verso il divano. Quando le mie gambe toccano il tessuto in pelle e non ho piú alcuno spazio di manovra, metto tra me e lui l’incartamento con i documenti, piazzandoglielo all’altezza dello stomaco per tenerlo a distanza.
– Ecco, – dico, – è tutto qui. Nel folder rosso trova copia dell’atto depositato che può tenere per il suo archivio. Nella cartella piú piccola, qui sotto, ci sono solo un paio di certificati da firmare. È una cosa da un minuto, me ne vado subito, anche perché immagino che siate in chiusura per la pausa pranzo, – concludo guardando l’orologio.
Dico sempre a tutti che è una cosa da un minuto, e non è vero quasi mai. Lo faccio per non innervosire il cliente. È la prima volta che sono io quella che non vede l’ora di andarsene.
– Qui non si chiude, – mi risponde lui, – i ragazzi fanno a turno –. Si accarezza i baffi e butta sulla scrivania la cartella, che atterra con un rumore sordo. – Non mi ricordo di te. L’ultima volta è passata un’altra. Bionda, capelli lunghi, occhi scuri.
Per un istante ho paura che voglia mimare con le mani la circonferenza delle tette per completare la descrizione. Gli leggo negli occhi tutto il potenziale di volgarità che serve per fare un gesto del genere con una perfetta sconosciuta. Invece si trattiene.
– Sí. Era Giovanna, – rispondo fredda. – Che però non lavora piú per lo studio. La sostituisco io.
Lui mi scruta dalla testa ai piedi come se fossi un pezzo di carne inerte. Dietro il suo sguardo ottuso intuisco l’avvio di un processo di comparazione fra me e Giovanna, anche perché non fa nessuno sforzo per nasconderlo. Non so se il risultato lo soddisfi.
Alla fine riprende in mano l’incartamento. Non mi toglie gli occhi di dosso, si inumidisce l’indice sulle labbra, e comincia a sfogliarlo.
Il gesto mi disgusta. Faccio qualche passo per allontanarmi, con la scusa di lasciarlo leggere prima di firmare. Soltanto allora mi accorgo che fuori dal box ci sono i quattro meccanici, gli stessi che avevo visto in officina. Guardano di sottecchi verso di noi facendo finta di essere impegnati in qualche attività. La parete a vetri che ci divide mi fa sentire un animale in uno zoo. A parte l’età, sembrano copie carbone l’uno dell’altro. La stessa tuta blu scuro del titolare, la stessa stazza massiccia, e tre su quattro hanno anche gli stessi baffi. Solo il ragazzino, il piú giovane, ha il viso glabro.
Non ho bisogno di sentire quello che dicono. Nemmeno loro si sforzano di fingere. È probabile che non ne vedano la ragione. C’è una corrente diretta che unisce la smorfia compiaciuta del titolare e i loro sguardi aggressivi, e punta verso di me. Uno scanner collettivo che mi attraversa misurando culo, tette, gambe, e produce un giudizio mediocre che gli leggo in faccia come tutto il resto. Per loro valgo quello che mostro, o che mi posso permettere di esporre, quindi pochissimo. In questo caso la mia modestissima passata di trucco non impressiona nessuno. Resto comunque troppo piccola, troppo magra, troppo poco appariscente, specie per uomini con un immaginario erotico cosí vintage.
Non so dove girarmi. Se do le spalle a loro devo guardare il titolare. Se faccio il contrario, il problema è lo stesso a parti invertite.
Poi per fortuna l’uomo finisce di firmare, e l’agonia in qualche modo si conclude. Rimetto insieme in fretta i documenti e li caccio nella cartella, senza controllare che siano in ordine. Ci penserò piú tardi in ufficio. Mi riprendo la borsa, sollevo la mano per salutare ed esco dal box a vetri.
Fuori da lí i quattro meccanici continuano a ridacchiare. Nessuno mi si avvicina troppo ma, come se quella fosse una cerimonia di umiliazione abituale messa in atto ogni volta che se ne presenta l’opportunità, mi seguono a distanza mentre mi avvio verso l’uscita. Non posso mettermi a correre, sarebbe imbarazzante e non ne ho nessun reale motivo. Faccio uno sforzo per non accelerare il passo. Quando finalmente esco mi prende un moto di rabbia. Afferro la porta e me la sbatto alle spalle facendo tutto il rumore possibile. Mentre mi allontano li sento ridere di pancia come iene sguaiate, orgogliosi di far parte del loro piccolo clan di molestatori seriali.
Giro la chiave nella toppa dell’ufficio pregando che non ci sia nessuno. Mi resta solo l’energia per lasciare i documenti e andarmene. Fossi stata un po’ piú coraggiosa me li sarei portati direttamente a casa, ma ho fatto uno sforzo. Preferisco sistemarli al sicuro e pensare ad altro.
Non riesco a sbrigarmi come vorrei. Nell’officina ho ammucchiato i documenti in disordine per la fretta di andare via, e ora mi servono dieci minuti solo per metterli a posto. Altri dieci li perdo per archiviarli senza errori.
La Callegari è nel suo studio, la sento parlare al telefono in inglese, una cosa che le viene naturale, come quasi tutto quello che fa. Io invece ne so talmente poco che non riesco a capire se sta facendo una chiamata personale oppure di lavoro. Il tono è freddo e asettico, lei però parla sempre cosí.
Se accelero forse riesco a defilarmi senza che si accorga che sono passata e mi scarichi qualcosa da fare. Sono quasi convinta di essere fuori quando Lepore compare di fronte alla mia scrivania. Non l’ho sentito entrare.
Sobbalzo, la mano al petto. Lui non sorride, neppure un accenno.
– Quant’è che è qui?
– Venti minuti, circa.
– No. Intendo da quanto lavora qui.
Rifletto velocemente. – Poco piú di due mesi, all’incirca.
– E allora perché continua a reagire alla mia presenza come se fossi Faust? Chi altro pensa che potrebbe entrare con le chiavi oltre a me, lei o Renata, che è già qui?
– Ha ragione. Ero sovrappensiero. Stavo sistemando delle cose prima di andare via.
Lui mi interrompe con un gesto annoiato della mano.
– Resti ancora un paio d’ore. Le crea qualche difficoltà?
Il primo pensiero è di rifiuto. Ho bisogno di mettere una distanza protettiva fra me e loro. Tutti loro. Poi ricordo che includere qualche straordinario faceva parte degli accordi che avevamo preso dall’inizio, e che fino a oggi Lepore non me l’ha mai chiesto. Non posso dire di no.
Chino la testa.
– No, certo. Nessun problema.
– Ho una coppia di clienti in arrivo. Stanno divorziando. Due belve. Non vedono l’ora di entrare qui e sbranarsi con metodo. Il mio studio li spinge a dare il peggio di sé, e la cosa mi disturba. Ho scoperto che quando ci sono cibo e caffè sul tavolo la situazione migliora. Mentre bevono o mangiano è meno ostico fare qualche progresso. Passi da Baessato e prenda qualcosa –. Sfila venti euro dal portafoglio e me li lascia sulla scrivania. – Porti tutto con il caffè. Alle due e mezzo.
– Da Baessato, bene. Salato o dolce?
Lui fa una faccia disgustata. – È irrilevante. Io non mangio e non ho preferenze, e loro non si accorgono di cosa mettono in bocca. Scaricano la tensione e basta. Prenda quello che si presenta meglio. Si tratta di distrarli, nient’altro.
Di fronte a me c’è l’agenda degli appuntamenti aperta. La Callegari segna sempre in rosso, in cima alla pagina, i clienti da cui devo andare. Gli appuntamenti di stamattina sono in bella mostra. Lepore la gira verso di sé e legge con calma.
– È stata da Marcato? – chiede.
Annuisco. Di sicuro lui non è mai stato in quell’officina, non riesco a immaginarlo. Tengo gli occhi bassi.
– Un ambiente interessante, no? – mi domanda.
Ecco, mi sbagliavo. Lo sa. Forse interrogava Giovanna, oppure lei si è sfogata con la Callegari, che gliel’ha riferito.
In ogni caso, dal modo in cui cerca di stanare una mia reazione, è evidente che ha un’idea abbastanza precisa di quello che può capitare a una donna in quel posto.
Sguscio via e vado a prendere la giacca. La infilo. Lui mi segue con lo sguardo.
– Va bene, – dice quando sono già sulla porta, – ora non abbiamo tempo. Ne parleremo piú avanti con calma –. E si allontana lungo il corridoio.
Vado di corsa a procurarmi quello che mi ha chiesto e torno. I clienti arrivano e li accompagno subito da lui.
Passano meno di cinque minuti e comincio a sentire una certa confusione provenire dall’ufficio di Lepore.
Sistemo i pasticcini sul vassoio e riempio le tazzine, ma le voci non calano di tono. Distinguo con chiarezza quella di lei, quella del marito, infine una sull’altra. Ogni tanto la nota grave di Lepore che riporta la calma. Qualche secondo di silenzio, poi tutto da capo.
A un certo punto il rumore è cosí forte che la Callegari si affaccia alla porta del suo ufficio in cerca di una spiegazione.
– I Trevisan, – le dico sottovoce. Lei alza gli occhi al cielo e torna dentro.
Aspetto che si facciano le due e mezza e busso discretamente alla porta dello studio.
Devo battere almeno tre volte prima di ricevere un segnale di risposta.
Alla fine Lepore viene ad aprire e rimane in piedi con le dita sulla maniglia mentre entro. Potrebbe passare per un gesto elegante, invece è solo un modo per segnalare che devo togliermi dai piedi in fretta. Faccio piú veloce che posso.
I Trevisan si fronteggiano ai due lati del tavolo in pausa tecnica, guardandosi con un odio cosí cristallino che ne percepisco la sostanza come se qualcuno avesse diffuso uno spray urticante nell’aria.
Respirano in leggero affanno, sembra che abbiano fatto le scale a piedi, e non si dicono nulla.
Appoggio il vassoio al centro del tavolo, non lo guardano nemmeno. Il caffè invece ha piú successo. Tutti e due reagiscono all’aroma con un leggero calo di tensione.
Lepore mi fa un gesto rapido, e io me ne vado portandomi dietro il vassoio vuoto.
Poco dopo la donna esce di fretta, l’orecchio incollato al cellulare. Dieci minuti piú tardi va via anche il marito infilandosi i guanti di pelle con lo sguardo stralunato.
Si accende la spia telefonica della linea interna. Il cuore comincia a battermi piú rapido. Alzo la cornetta.
– La aspetto, – mi dice Lepore, e basta.
Riattacco senza rispondere, mi avvio verso il suo studio, e mi viene in mente solo madame du Barry sul patibolo.
Lepore sorride. Sembra molto soddisfatto.
– Sono sicuro che non li vedremo piú. Manca una firma in calce all’accordo, ma sono dettagli, – dice. – Cosa pensa della signora Trevisan? – mi chiede in tono affabile.
Non l’avevo mai vista prima, e non ho nessuna idea. Però mi sembra il caso di condividere con lui il successo professionale. Non capita tanto spesso di vederlo allegro.
– Capisco il sollievo. Si sentiva tutto, di là. Sarebbe stato imbarazzante se ci fossero stati altri clienti.
Lui dà brevi boccate alla pipa. Il sorriso adesso è meno esplicito, come se lo stesse risucchiando via mentre aspira dal bocchino.
– Lei ha un talento elusivo che mi disturba, – dice.
Rimango perplessa. Credevo volesse parlare dei Trevisan.
– Io? – domando.
Annuisce. – Una sorta di vocazione alla letizia che rasenta l’ottusità. Non è la prima volta che lo noto. Porto la sua attenzione su un fatto oggettivo, in genere sgradevole, e lei cerca comunque di darmene una versione edulcorata. Forse crede che questo basti a far dissolvere il fumo nell’aria.
Se intendevo conservare la sua soddisfazione, non ci sono riuscita.
– Non volevo eludere niente, ma non so nulla della signora Trevisan, e non so cosa rispondere.
– Questo non è un tribunale e io non le ho chiesto una perizia. Mi accontento di un’impressione. Cosa le dice l’intuito?
Ripenso alla donna che attraversava lo studio nel suo cappotto di camoscio slacciato che le arrivava fino alle caviglie. Portava una borsa al gomito, e stringeva in una mano il cellulare e nell’altra un’agenda in pelle rossa e lucida dello stesso tono dello smalto. Attirava l’attenzione, e uscendo non mi ha salutato. Non so nemmeno se si sia resa conto che c’ero.
– Direi che è bella.
Lepore fa una smorfia. Non arrivo al punto.
– Questo è ovvio e inutile. Cos’altro?
– Appariscente. Altezzosa, forse. È difficile capire dove sia davvero. Quanto a fondo si nasconda, intendo.
Lui ci pensa su. Forse sta solo trattenendo il nervosismo. Infatti alla fine scuote la testa.
– Una battaglia persa. Non riesce a osare un’opinione personale nemmeno protetta dal piú assoluto anonimato. Va bene, – dice, come se avessi manifestato il minimo interesse, – si sieda. Le racconto chi è Irene Trevisan.
Ubbidisco di malavoglia.
– Si ricorda di Annamaria Pincherle, vero?
Mi ricordo, certo. La cliente a cui ho consegnato documenti durante la prima settimana di lavoro. Sembra dieci anni fa. Annuisco.
– Bene. Rispetto alla Pincherle, e a tutte quelle come lei che nascono ricche e viziate, qui si gioca in un’altra categoria –. Si sporge in avanti con i gomiti sulla scrivania e le mani intrecciate. – Le missionarie unghiute dell’arrampicata. Quelle che partono dal basso e devono fare piú fatica. E arrivate in cima fanno terra bruciata.
Chiudo gli occhi cercando di raccogliere le energie. Stavolta voglio avere l’opportunità di rispondere.
– La conosco da molto tempo, – riprende, – anche se appartiene a un ambiente diverso dal mio. L’ho osservata da lontano, è sempre stata capace di attirare l’attenzione. Suo padre e lo zio erano ottimi restauratori, se la portavano dietro da bambina. Me la ricordo che girava per casa, trent’anni fa. Guardava i mobili e l’argenteria con una frenesia rapace. Chiedeva permesso, poi prendeva gli oggetti dalle mensole e li osservava con una cura sorprendente per una ragazzina di quell’età. Ma non era senso estetico. Piuttosto sembrava che pensasse: questa cosa dovrebbe essere mia –. E fa una risatina che suona come un colpo di tosse, secca e compiaciuta. – Perché una ragazzina di quattordici anni si siede sul divano ad aspettare, mentre il padre e lo zio sistemano una consolle o una cassettiera appena restaurata?
Corruga la fronte alla ricerca del termine piú appropriato. Lo trova: – Per catalogare. Sí, catalogava. Le case. E le persone. Registrava ogni possibile accesso permanente. Voleva entrare a ogni costo, non dalla porta di servizio accompagnando un artigiano. Voleva entrare per rimanere. Poi la natura l’ha aiutata, non c’è dubbio. È bella, e soprattutto è tenace. Se non lo fosse stata, sarebbe riuscita a diventarlo. Si sarebbe smaterializzata attraverso un muro se fosse servito. E a sua discolpa devo dire che il mondo non offre molte possibilità per quel genere di talento. È sveglia, ma non particolarmente intelligente. Di sicuro non era fatta per una carriera tradizionale. La strada piú prevedibile era quella classica. Manipolare l’erede di un patrimonio e farsi sposare. In quegli anni ha preso in considerazione chiunque, perfino me, la differenza di età non la spaventava. Bisogna essere attrezzati di gran pelo sullo stomaco per certe vocazioni. Anni dopo ha cercato di convincermi che le attenzioni di allora erano state solo una forma di pietas filiale, perché la conosco da quando era una ragazzina. Io fingo di crederle e sto al gioco. Mi segue, Rosita? Questa storia le interessa?
Annuisco, in fondo sto mentendo solo in parte. Vorrei non essere qui, ma la donna non mi è affatto simpatica. Il resoconto della sua scalata solletica i miei istinti peggiori. Che è molto piú di quanto ricavo normalmente da queste chiacchierate.
– Alla fine ha trovato Trevisan, – continua. – Che era abbastanza giovane, abbastanza imbecille, e abbastanza ricco per farla arrivare dove voleva. Per un po’ sono stati anche appagati, ognuno con quello che credeva di avere comprato sposando l’altro. Poi lui ha aperto gli occhi. Forse si è innamorato di un’altra, non so, questo non me l’ha detto e io non gliel’ho chiesto.
Sono sorpresa. – Cioè, ha deciso lui di separarsi? Strano. Non ci vuole molto a capire che la moglie non è un tipo malleabile.
– Infatti è inconsueto, dico anch’io. È piuttosto raro che siano gli uomini a chiedere il divorzio, soprattutto a questo livello. Anche in presenza di un’altra donna le disponibilità economiche consentono sempre alternative piú discrete. Invece lui l’ha fatto, e ha offerto alla moglie un’uscita molto generosa. Lei non ha nemmeno voluto sentirne parlare. Quindici anni per costruire il palco, e poi finire cosí? Quindici anni sono sufficienti per capire che la ricchezza è irrinunciabile, ma di sicuro non può renderti felice. E se Irene Trevisan era riuscita a fare a meno della felicità, chi era il marito per pensare di potersela permettere?
Gli ha reso la vita un inferno. Non per una questione di soldi, perché quelli li avrebbe avuti comunque. È diventata una questione di principio. Non poteva permettergli di sganciare la catena. Dovevano soffrire insieme, fino all’ultimo. Del resto, per la mia esperienza, lo scopo del matrimonio è solo quello di potersi odiare con tutto l’agio necessario. Un progetto di disfacimento a lungo termine. È impressionante la rabbia che si scatena in una donna abbandonata, quando il compagno decide di sottrarsi al patto implicito di mutua sofferenza.
Raccontando si infervora, e la mia bolla di divertimento esplode quasi subito. È cosí determinato a suscitare la mia rabbia che mi sfugge un sorriso di compatimento. Mi intristisce sapere che per poter dare senso alla vita si debba rimestare nel torbido in questo modo.
Lui lo nota. – Cosa la diverte?
– Niente, – rispondo. – È una storia interessante.
Se devo stare qui senza poter reagire, lo farò difendendo la posizione.
– È piú che interessante. È esemplare. Tra le arrampicatrici Irene Trevisan è un campione della categoria, oltre ai soldi difende un ideale. Molti dei divorzi che vedo hanno le stesse caratteristiche, d’altronde questo è uno studio con un tariffario impegnativo.
– Quindi lei dice che le donne che sposano uomini ricchi lo fanno solo per interesse. Nessuna che l’abbia fatto per amore, o almeno convinta di provare qualcosa? Perché non mi pare realistico che siano tutte degli avvoltoi.
Mentre parlo mi accorgo di non avere cosí tanta paura di lui come mi capita se sto zitta. Lepore sembra dare un peso a quello che dico.
– No, nessuna. L’unica cosa che varia è il grado di consapevolezza, – dice lui, – ci sono quelle che si raccontano favole. Credono di metterci qualcosa di profondo perché sono state educate a sentirsi in colpa quando agiscono senza coperture sentimentali. Ma è un alibi. E tra l’altro pericoloso, quando poi i nodi vengono al pettine vogliono essere risarcite sia dell’investimento che del sogno.
Mi osserva con malizia. Aspetta che gli dia ragione.
– Invece lei conosce donne sposate a grandi patrimoni che abbiano dato prova di devozione disinteressata? – chiede.
Mi alzo, forse con troppo slancio.
– No, non credo di avere mai conosciuto donne sposate a uomini ricchi. Né devote, né ingrate.
– Quelle devote senza un secondo fine non esistono. Mi creda.
– Gli uomini invece sono tutti innocenti?
Mi guarda come fosse una domanda insensata.
– Cosa c’entra questo?
– È che la sua interpretazione mi sembra forzata. Non è la prima volta che cerca di dirmi che è sempre colpa delle donne. È possibile che sia cosí semplice? Succederà anche il contrario, no? Ci saranno uomini che tentano una scalata sociale attraverso donne piú ricche.
– Ovviamente sí. Non ho mai detto il contrario.
– Allora perché mi parla solo di comportamenti femminili deviati?
– Non certo per difendere gli uomini. Però la natura maschile è piú lineare. L’uomo è un fesso abitudinario, meno incline a cercare assoluzioni sulla base del genere. Le mie riserve sulle donne, invece, dipendono dal fatto che peccano avendo la pretesa di uscirne con la coscienza pulita. Questo le rende piú interessanti. Piú ridicole. E piú perverse. Mi limito a prenderne atto. Per il resto, il mondo è pieno di idioti di entrambi i sessi, e io penso male di tutti allo stesso modo.
– Ma perché lo dice a me: perché sono una donna? Cosa vuole, che le dia ragione? Non mi sembra che abbia a che fare con il mio lavoro.
Lui si appoggia con la schiena alla sedia.
– Vuol dire che non si diverte con le nostre piccole incursioni nell’antropologia del diritto di famiglia? Se la cosa le crea disagio possiamo interromperle in qualsiasi momento. Pensavo che potessero essere istruttive per lei. Il punto di vista disincantato di un uomo anziano con qualche esperienza del mondo.
Cambia le carte in tavola. La butta sul piano dello scherzo inoffensivo che io fraintenderei perché magari sono permalosa o perché il mio equilibrio ormonale è precario.
Intravedo il sottotesto di sfida. Dillo che mi odi, che mi disapprovi. Dillo, se hai coraggio. Ma tu non ne hai. Lo so.
Sono ancora in piedi di fronte alla scrivania, esitante. La mia rabbia si smonta e retrocede. Lui aspetta una risposta.
– No, certo, non ho nulla in contrario, non volevo dire questo, – rispondo.
Sorride. – Bene. Comunque per oggi abbiamo finito.
E mi lascia libera di andare.
Esco dall’ufficio stanca e frustrata. Spalanco il portone del palazzo con tanta energia che mi sfugge e devo riprenderlo al volo in modo che non sbatta contro la parete. Appena metto il naso fuori mi trovo una donna davanti.
– Scusi, – le dico scivolandole a fianco per non urtarla.
Lei si sposta con me. Penso a uno di quegli stupidi errori involontari e sorrido debolmente. Ripeto ancora: – Scusi, – e passo dalla parte opposta. Lei mi segue di nuovo.
A quel punto alzo gli occhi. È bionda, ha gli occhiali da sole. – Rosita Mulè? – chiede.
Mi disturbano quelli che non si presentano. Siamo sotto lo studio, sarà una cliente dell’avvocato che non ho riconosciuto. Strano però che sappia il mio nome.
– Lei cerca l’avvocato Lepore, immagino.
– No, cerco lei.
La piazzetta in questo momento è deserta, a parte una sagoma dall’altro lato della strada, parzialmente nascosta dall’ombra del porticato. Non vedo la faccia, eppure lo riconosco subito. È Maurizio.
Lei segue la traiettoria del mio sguardo, e annuisce con una smorfia. – Cosí adesso immagina chi sono, no?
Non dico niente, guardo meglio la donna. È alta, massiccia, trema, e non sembra spaventata.
– Mi scusi, non la conosco, – le dico, e mi avvio cercando di restare calma.
Lei mi si affianca, fa qualche passo accanto a me, all’improvviso scarta di lato e mi dà una spinta leggera. Niente di particolarmente aggressivo, però mi costringe a fermarmi e a fissarla. Con la coda dell’occhio intravedo Maurizio. Si è spostato con noi quando abbiamo iniziato a muoverci. Non accenna a intervenire.
Lei si toglie gli occhiali. È stravolta, spettinata, senza borsa. In mano tiene un mazzo di chiavi. Sta boccheggiando.
– Chi crede di essere? – mi sibila a un centimetro dal viso. – Pensa di potermi scaricare cosí?
– Io non penso niente, – le dico. – E non so cosa vuole da me.
– Voglio che lasci stare mio marito. Che si trovi un uomo suo, e smetta di ossessionare quello delle altre!
Ossessionare? Penso al rapporto stentato e saltuario che c’è tra me e Maurizio. Se la situazione non fosse estrema credo che le riderei in faccia.
– Io non ossessiono nessuno, – dico a bassa voce.
– Scommetto che pensa di essere speciale. Magari lui le ha raccontato che siamo in crisi. Le ha promesso che con me è finita, vero?
Mai detto niente del genere.
Poi alza la voce:
– Ce ne sono state cento prima di te, – e passa a darmi del tu. – Ce ne sono cento anche assieme a te. È un patetico seriale! – Indica Maurizio. – È bravissimo solo a trovare delle coglione. Non avrai mai niente da lui, lo capisci? Niente! – e mi strattona per le spalle.
Non ho mai avuto niente da lui, se è per questo. A parte qualche occasionale momento di compagnia. Forse anche bello. Ma non abbastanza per farmi delle illusioni.
Mi domando se Maurizio riesca a sentire quello che diciamo. Provo un’amarezza infinita per questa scena cosí meschina, perché fra noi segna un confine da cui non si ritorna. Lui che mi abbandona in balia di sua moglie, come se quello che è successo fosse solo colpa mia. Baratta la sua unica speranza di salvezza con la mia testa sul ceppo. La nostra storia che muore stasera mi affligge, ma mi fanno molta piú tristezza loro che magari hanno perfino un futuro.
L’idea che il possesso sia una cosa da affermare con la forza, come tra gli oranghi, è già uno spettacolo penoso. Che poi lui se ne resti a guardare senza intervenire, dopo avere vuotato il sacco, mi dice che questo teatrino con ogni probabilità è un copione fisso del loro matrimonio, recitato chissà quante volte, forse con un certo successo, perché sono ancora insieme e quindi in fondo il cerimoniale funziona, riesce a tenerli legati. Insoddisfatti, amareggiati, ma insieme. Una catarsi al contrario. Li seppellisce invece di liberarli.
Un attimo dopo il tono cambia di nuovo. Si vede che il registro emozionale deve fare il giro completo. Gli occhi della donna si riempiono di lacrime. Mi afferra il braccio destro e china la testa in una sorta di supplica.
– Per favore, mi deve giurare che non lo vedrà piú. Per favore.
Adesso riprende a darmi del lei. Si copre la faccia con le mani e comincia a piangere sommessamente, una bambina sconsolata, le spalle che sussultano sotto la giacca.
Maurizio è uscito dall’ombra, mantiene una ragionevole distanza, però lo vedo meglio. Anche lui ha una faccia stravolta, sembra che preghi. «Signore, fammi uscire vivo da qui». Si rivolge a me o a lei? È cosí diverso dall’uomo che conosco, e che era una creatura al di sopra del giudizio, inafferrabile e indefinibile. Mi stanno implorando entrambi, ognuno a modo suo, di aiutarli a tenere in piedi la baracca, come se il loro matrimonio dipendesse da me.
– Sono sicura che dopo stasera lui non mi cercherà piú. In ogni caso, se dovesse farlo, io non risponderò.
Lei abbassa le mani e scopre il viso, le lacrime si fermano. Forse non è abituata a questo genere di resa incondizionata. Per un momento pare che la attraversi una specie di lampo di riconoscenza. Poi mi dà uno spintone con tutte e due le mani e mi fa cadere.
Incombe sopra di me e urla: – Ti conviene, stronza! Altrimenti giuro che ti ammazzo! – Poi scappa lungo il portico. Maurizio mi dà un’ultima occhiata, fa come per dire qualcosa, ci ripensa, e si mette a correre dietro di lei.
Resto seduta per terra, senza riuscire a muovermi per lo stupore. A malapena registro un rumore di passi dietro di me. Una mano mi afferra sotto il braccio.
– Lei ha delle strane amicizie, Rosita, – mi dice Lepore spazzolandosi il cappotto, che ha sfiorato il selciato mentre si chinava per aiutarmi a rimettermi in piedi.
– Non era un’amica, – rispondo. L’idea che possa avere assistito alla scena aggrava la situazione che è già abbastanza penosa.
– La signora era piuttosto arrabbiata.
Spero che non mi chieda cosa è successo, o perché la donna ce l’avesse con me. Non potrei sopportare anche questo, dopo la scenata, specie da uno che ha il talento di parlare solo di argomenti che mi mettono in difficoltà.
– Da qualche tempo lei mi sembra diversa, – dice invece con convinzione.
Lo guardo stupita.
– Vedo che torna a casa volentieri con i vestiti che prima non portava mai fuori dall’ufficio, – continua, – e che a volte li indossa anche prima di arrivare. Ha una diversa cura di sé.
Ci penso. È vero. Ma cosa c’entra questo adesso?
– A volte, – sussurra, – un certo tipo di metamorfosi, e una situazione difficile come quella da cui è appena passata, – e indica in modo vago nella direzione in cui sono scomparsi Maurizio e sua moglie, – possono essere collegati.
Resto interdetta.
Aspetto che mi spieghi cosa diavolo intende. Ma lui si gira e se ne va. Si allontana con lentezza, leggermente zoppicante. Un odioso, vecchio sadico stanco e claudicante.
Mi lascia in mezzo alla strada senza chiedermi se sto bene, o se ho bisogno di qualcosa. È stato solo uno spettacolo per il suo personale divertimento.
Potrei perfino pensare che la messa in scena sia stata opera sua. Ma non è cosí, non ne ha bisogno, e me l’ha anche spiegato. «La partita rimane sempre nelle mani dei giocatori, io resto fuori». La forza del suo cinismo produce merda anche senza che lui faccia niente di specifico per provocarla.
Sento che le mani mi vanno a fuoco. Le guardo: sono rosse, infiammate. Ancora la dermatite. Comincio a grattarmi tra il pollice e l’indice della mano sinistra, poi in mezzo alle dita. Il prurito non passa, insisto. Non mi fermo nemmeno quando la mano mi si riempie di minuscole stille di sangue.