XVII

1

Ragen pensava che Lebanon costituisse un miglioramento rispetto al Mansfield Reformatory. Era un luogo più nuovo, più pulito e più luminoso. Durante la seduta di orientamento del primo giorno, segui le lezioni sulle norme e i regolamenti e le descrizioni delle attività scolastiche e lavorative previste all’interno del carcere.

Un uomo imponente con le mascelle squadrate e un collo da giocatore di football si alzò e cominciò a dondolarsi avanti e indietro con le braccia incrociate.

«Bene», disse. «Sono il capitano Leach. Quindi voialtri vi credete dei gran fighi? Be’, d’ora in poi a voi ci penso io! Avete fatto le vostre cazzate, ma se fate casino qui, vi spacco la testa. Fanculo i diritti civili, i diritti umani e tutti i diritti del mondo. Quaggiù non siete altro che bestie da soma. Sgarrate di tanto così, e vi faccio a pezzi…»

Li tormentò con la stessa solfa per quindici minuti. Ragen decise che quell’uomo stava cercando di metterli in riga con le parole. Tutta aria fritta.

Poi notò che lo psicologo, un uomo minuto con i capelli color sabbia e gli occhiali, adottò la stessa tattica. «Adesso non siete più nessuno. Solo numeri. Non avete un’identità. Non importa a nessuno chi siete, né che siete qui. Non siete altro che criminali detenuti.»

Mentre il piccoletto li insultava, molti tra i nuovi prigionieri si innervosirono e si misero a rispondergli gridando.

«Chi cazzo sei per dirci delle cose del genere?»

«Che stronzate sono queste?»

«Io non sono un numero!»

«Sei fuori di testa, coglione!»

«Ficcatelo su per il culo, strizzacervelli!»

Ragen osservò le reazioni dei reclusi alle aggressioni verbali. Aveva il sospetto che lo psicologo li stesse provocando intenzionalmente.

«Visto?» disse lo psicologo, puntando l’indice su di loro. «Guardate cosa sta succedendo. Non riuscite a inserirvi nella società perché, quando siete sotto pressione, non siete in grado di mantenere il controllo. Reagite a una dichiarazione verbale con ostilità e violenza, senza riflettere. Forse adesso vi rendete conto del perché la società vi chiude in gabbia finché non avrete imparato a mettervi in riga.»

Gli uomini, rendendosi conto che stava dando loro una lezione, si rimisero seduti e cominciarono a scambiarsi dei sorrisi imbarazzati.

Quando i nuovi detenuti uscirono dall’aula, alcuni veterani che si trovavano nel corridoio principale li squadrarono e cominciarono a schernirli.

«Ehi, guardate. Carne fresca!»

«Ehi, puttane, ci vediamo più tardi.»

«Quella mi piace, è mia.»

«Che cazzo, l’ho vista prima io e me la faccio io.»

Ragen sapeva che si stavano riferendo a lui, e li fulminò con uno sguardo gelido.

Quella notte, in cella, discusse la situazione con Arthur.

«Sei tu il responsabile qui», disse Arthur, «ma vorrei sottolineare che una buona parte di tutto quel tormentare e fare battute non è altro che un modo per sfogarsi in una situazione di stress estremo. Qualunque cosa va bene per farsi due risate. Dovrai fare del tuo meglio per distinguere tra i commedianti e quelli che potrebbero essere davvero pericolosi.»

Ragen annuì. «Esattamente quello che sto pensando.»

«E ho un altro suggerimento.»

Ragen ascoltò con un mezzo sorriso. Lo divertiva sentire Arthur dare suggerimenti invece che impartire ordini.

«Ho notato che i detenuti con le uniformi verdi dell’ospedale sono gli unici - a parte le guardie - a cui sia consentito camminare in mezzo ai corridoi. Quando sarà il momento di fare domanda per un lavoro, potrebbe essere una buona idea che Allen facesse richiesta per l’ospedale della prigione.»

«Quale motivo?»

«Lavorare come paramedici potrebbe darci un margine di sicurezza, specialmente per i bambini. Vedi, in una prigione la comunità rispetta un paramedico, perché tutti sanno che un giorno potrebbero avere bisogno di un intervento di emergenza. Io potrei fare il lavoro, usando Allen per comunicare.»

Ragen convenne che fosse una buona idea.

L’indomani, quando le guardie parlarono con i nuovi prigionieri delle loro esperienze professionali e precedenti specializzazioni, Allen disse che pensava gli sarebbe piaciuto lavorare nell’ospedale della prigione.

«Hai fatto dei corsi?» chiese il capitano Leach.

Allen rispose seguendo le istruzioni che Arthur gli aveva dato: «Quando ero in Marina, c’era una scuola per farmacisti alla Great Lakes Naval Base. Ho lavorato all’ospedale laggiù».

Non era proprio una bugia. Arthur aveva studiato quegli argomenti per conto suo. Non aveva detto proprio di aver seguito dei corsi per paramedici.

La settimana dopo arrivò la chiamata dall’ospedale della prigione: il dottor Harris Steinberg, il direttore medico, voleva vedere Milligan. Camminando per gli immensi corridoi, Allen notò che la struttura di Lebanon assomigliava a quella di un granchio gigante con nove zampe. Lungo il corridoio centrale gli uffici si susseguivano uno dietro l’altro, ma a intervalli il corridoio emetteva rami in tutte le direzioni. All’ospedale Alien attese in una stanza esterna separata da pannelli di vetro infrangibile, osservando il dottor Steinberg, un uomo anziano dai capelli bianchi con un viso amichevole e rubicondo e un sorriso gentile. Allen vide che c’erano dei quadri alle pareti.

Finalmente il dottor Steinberg gli fece segno di entrare nel suo ufficio. «Ho sentito che hai esperienza di laboratorio.»

«Per tutta la vita ho desiderato essere un medico», rispose Allen. «Pensavo che con tutte le persone che ci sono in una prigione grande come questa, potrebbe esservi utile avere qualcuno che sa fare le analisi del sangue e gli esami delle urine.»

«L’ha già fatto prima d’ora?»

Allen annuì. «Certo. È stato parecchio tempo fa e può darsi che abbia dimenticato tante cose, ma posso imparare. Sono svelto. E come dicevo, lavorare in questo settore è la mia grande ambizione per quando sarò fuori di qui. A casa ho studiato dei testi di medicina per conto mio. Mi interessa particolarmente l’ematologia, e se lei mi volesse solo dare una possibilità, gliene sarei davvero grato.»

Capì che il dottor Steinberg non era colpito più di tanto dalla sua parlantina, così cercò altre strade per impressionarlo.

«Quei quadri sono affascinanti», disse Allen, dando un rapido sguardo alla parete. «Preferisco gli oli rispetto agli acrilici, ma chiunque abbia fatto questi ha un buon occhio per i dettagli.» Vide che Steinberg assumeva un’espressione interessata.

«Tu dipingi?»

«Da sempre. La medicina è la carriera che ho scelto, ma fin da quando ero piccolo, tutti hanno sempre detto che ho un talento naturale. Magari un giorno mi consentirà di farle il ritratto. Ha un viso importante.»

«Colleziono opere d’arte», disse Steinberg. «E io stesso faccio qualcosina.»

«Ho sempre pensato che l’arte e la medicina si completassero a vicenda.»

«Hai mai venduto qualcuno dei tuoi quadri?»

«Oh, più di uno. Paesaggi, nature morte, ritratti. Spero che avrò la possibilità di dipingere mentre starò qui.»

Steinberg giocherellava con la penna. «D’accordo, Milligan, ti offro l’opportunità di lavorare al laboratorio. Puoi iniziare passando lo straccio sul pavimento, e quando avrai finito, puoi mettere un po’ in ordine. Lavorerai con Stormy, l’infermiere di servizio. Ti mostrerà le tue mansioni.»

2

Arthur era felicissimo. Non lo disturbava per niente doversi alzare prima di tutti gli altri la mattina per fare i prelievi del sangue. Deluso da quelle che considerava cartelle cliniche inadeguate, cominciò a tenere le sue cartelle per i quattordici diabetici che ben presto prese a considerare come suoi pazienti. Trascorreva la maggior parte della giornata in laboratorio, lavorando al microscopio e preparando i vetrini. Quando tornava alla sua cella alle tre e trenta, stanco ma soddisfatto, prestava ben poca attenzione al suo nuovo compagno, un uomo magro e taciturno.

Adalana abbellì la cella spoglia stendendo asciugamani disegnati sul pavimento e appendendoli alle pareti. Allen cominciò presto a trafficare sottobanco, scambiando un asciugamano a fiori per una stecca di sigarette, poi dando via le sigarette con un interesse di due a uno e racimolando due stecche entro la fine della settimana.

Continuava a moltiplicare i suoi baratti. Oltre a quello che sua madre e Marlene gli mandavano o gli portavano, riusciva a comprare da mangiare allo spaccio, evitando così di dover andare in mensa la sera. Otturava il lavandino con un tappo di gomma preso in prestito dal laboratorio, lo riempiva di acqua calda e faceva scaldare una lattina di pollo con gli gnocchi, di zuppa o di carne di manzo finché non era abbastanza tiepida da essere piacevole.

Indossava orgoglioso la sua uniforme verde, godendosi il privilegio di poter camminare e persino correre per il corridoio principale, invece di dover strisciare contro le pareti come uno scarafaggio. Gli piaceva essere chiamato «Doc», e fece avere a Marlene i titoli di alcuni libri di medicina perché glieli procurasse. Arthur faceva sul serio con lo studio della medicina.

Quando Tommy venne a sapere che le ragazze di molti altri prigionieri risultavano sulla lista dei visitatori come mogli, in modo da avere il permesso di venire a trovarli, disse a Ragen che voleva registrare Marlene come sua moglie. Inizialmente Arthur si oppose, ma Ragen lo mise a tacere. In qualità di moglie di Milligan, avrebbe potuto portare in prigione delle cose.

«Scrivi lei», disse Ragen, «di portare arance. Ma prima di iniettare vodka con ipodermica. Molto buona.»

Fu a Lebanon che «Lee» uscì sul posto per la prima volta. Commediante, burlone e con la battuta sempre pronta, esemplificava la teoria di Arthur secondo la quale per la maggior parte dei detenuti ridere era una valvola di sfogo apprezzata. Adesso Lee faceva sue le battute pesanti, che all’inizio avevano spaventato Danny e irritato Ragen. Ragen aveva sentito parlare del padre di Billy, comico e cabarettista, che si era autodefinito «metà musica e metà spirito». Ragen aveva deciso che in prigione Lee avesse un suo ruolo.

Lee però andava oltre le storielle divertenti. Imbottiva le sigarette di Allen grattando via lo zolfo da un paio di fiammiferi, immergendo un bastoncino nell’acqua zuccherata e poi rigirandolo nello zolfo e nascondendolo nel tabacco. Ne metteva un paio nel pacchetto di Allen, e quando un prigioniero gli chiedeva una sigaretta, Lee gliene porgeva una carica. Faceva appena in tempo ad arrivare in fondo al corridoio o a uscire dalla caffetteria, che sentiva le grida furenti della vittima quando la sigaretta prendeva fuoco. Parecchie esplosero in faccia ad Allen.

Una mattina, dopo aver terminato i prelievi del sangue, Arthur, riflettendo sull’incidenza di anemia falciforme tra i detenuti neri, lasciò il posto. Lee, trovandosi senza niente da fare, decise di organizzare un piccolo scherzo. Aprì un vasetto di estratto di olio di cipolla, ci immerse un tampone e poi lo passò sui bordi degli oculari del microscopio.

«Ehi, Stormy», disse, porgendo al paramedico un vetrino, «il dottor Steinberg vuole questa conta di leucociti immediatamente. Sarà meglio che ti metti al microscopio.»

Stormy posò il vetrino sul tavolino portaoggetti del microscopio e mise a fuoco. Improvvisamente sollevò la testa di scatto, con gli occhi pieni di lacrime.

«Cosa c’è che non va?» chiese Lee con aria innocente. «È una cosa triste?»

Incapace di controllarsi, Stormy esplose in una risata con gli occhi ancora lacrimanti. «Maledetto figlio di puttana. Sei proprio un fottutissimo mattacchione, lo sai?» Si diresse verso il lavandino e si sciacquò la faccia.

Poco dopo, Lee osservò un prigioniero che entrava e dava cinque dollari a Stormy. Stormy prese il Flacone 11-C da uno scaffale pieno di medicinali, svitò il tappo e lo allungò all’uomo, che ne mandò giù un bel sorso.

«Che roba è quella?» chiese Lee dopo che il prigioniero se ne fu andato.

«Fulmine bianco. Una mia preparazione. Prendo cinque dollari a botta. Se per caso non fossi in giro quando arriva un cliente, puoi pensarci tu, e ti terrò da parte un dollaro.»

Lee disse che sarebbe stato felice di collaborare.

«Ascolta», continuò Stormy, «il dottor Steinberg vuole che sistemiamo l’armadietto del pronto soccorso. Potresti farlo tu?

Io ho un po’ di cose di cui occuparmi.»

Mentre Lee riordinava le scorte di materiale da pronto soccorso, Stormy prese il Flacone 11-C dallo scaffale, travasò l’alcol in un altro recipiente e riempì il flacone di acqua. Poi inumidì il bordo con dell’estratto di dulcamara.

«Devo vedere il dottor Steinberg per una questione», disse a Lee. «Occupati tu di tutto quanto, d’accordo?»

Dieci minuti dopo, un prigioniero - un nero gigantesco -entrò in laboratorio e disse: «Dammi l’11-C, amico. Ho pagato dieci dollari a Stormy per due sorsi. Ha detto che tu sai dov’è».

Lee gli porse il flacone, e l’uomo se lo portò velocemente alla bocca e lo inclinò verso l’alto. Improvvisamente spalancò gli occhi e si mise a sputare quasi soffocando.

«Maledetto figlio di una puttana bianca! Che cazzo mi hai dato?» Continuava a increspare la bocca facendo delle strane smorfie con le labbra, usando la manica per cercare di tirare via il sapore.

Afferrò il flacone per il collo e lo sbatté con violenza sul banco, mandando in frantumi il fondo e schizzando tutto il liquido sulla camicia verde di Lee. Poi gli brandì davanti un pezzo di vetro affilato. «Ti faccio a fette, stronzo d’un bianco!» Lee indietreggiò verso la porta. «Ragen. Ehi, Ragen.»

Lee, sentendo il panico crescere dentro di sé, si aspettava che Ragen arrivasse in sua difesa. Ma non si fece vedere nessuno. Si precipitò fuori della porta e poi di corsa per il corridoio, con il nero alle calcagna.

Ragen fece per prendere il posto, ma Arthur intervenne: «Lee ha bisogno di una lezione».

«Non posso lasciare che lui viene ferito», rispose Ragen.

«Se non gli si insegna a comportarsi come si deve», disse Arthur, «in futuro potrebbe costituire un pericolo maggiore.» Ragen accettò il suggerimento e non si mosse, mentre Lee correva lungo il corridoio gridando terrorizzato: «Dove cazzo sei, Ragen?»

Quando Ragen ritenne che Lee ne avesse avuto abbastanza e che la situazione fosse diventata troppo pericolosa, lo scaraventò fuori del posto. Mentre il suo inseguitore passava di fianco a una lettiga, Ragen si fermò e gliela tirò davanti sbarrandogli la strada. Il bestione ci sbatté contro e cadde sul flacone rotto, tagliandosi il braccio.

«Adesso finito!» sbraitò Ragen.

L’uomo balzò in piedi, tremante di rabbia.

Ragen lo braccò, lo spinse con violenza in sala raggi e lo scaraventò contro il muro. «Adesso basta. Se non smetti, io distruggo te!»

Il prigioniero sgranò gli occhi di fronte a quel cambiamento improvviso. Al posto del ragazzino bianco spaventato, si ritrovò messo al muro da un pazzo con un accento russo e uno sguardo selvaggio negli occhi. Una stretta poderosa lo teneva bloccato da dietro, con un braccio che gli schiacciava il collo.

«Adesso noi smettiamo», gli sussurrò Ragen in un orecchio. «Necessario mettere a posto questo casino.»

«Sì, sì, amico, tutto a posto, tutto a posto…»

Ragen lo lasciò andare. L’uomo si allontanò. «Me ne vado ora, amico. Nessun rancore, è tutto a posto…» Se ne andò a passo svelto.

«Un modo barbaro di gestire la situazione», disse Arthur.

«Tu cosa avresti fatto?» chiese Ragen.

Arthur scrollò le spalle. «Se avessi le tue doti fisiche, probabilmente la stessa cosa.»

Ragen annuì.

«E con Lee cosa si fa?» chiese Arthur. «La decisione è tua.»

«È indesiderabile.»

«Sì. A cosa serve una persona la cui vita è interamente fatta di scherzi grossolani? È un androide inutile.»

Lee fu bandito. Ma invece di vivere nel limbo oscuro che circondava il posto, incapace di affrontare un’esistenza priva di scherzi grossolani e di battute di spirito, fece in modo di sparire completamente.

E per molto tempo, nessuno più rise.

3

Nelle sue lettere, Tommy cominciò a manifestare imprevedibili sbalzi d’umore. Scrisse a Marlene: «Ho le nocche gonfie», e le raccontò di aver fatto a botte con alcuni detenuti che stavano rubando i suoi francobolli. Il 6 agosto giurò che si sarebbe suicidato. Cinque giorni dopo le scrisse di mandargli degli acrilici, perché potesse ricominciare a dipingere.

Arthur catturò quattro topolini che teneva con sé come animali domestici. Studiava il loro comportamento e cominciò a scrivere una lunga relazione sulla possibilità di trapiantare la pelle dei topi sugli esseri umani vittime di ustioni. Un pomeriggio, mentre era in laboratorio e stava prendendo degli appunti, si presentarono tre detenuti. Mentre uno stava di guardia, gli altri due lo affrontarono.

«Dammi il pacco», disse uno di loro. «Sappiamo che ce l’hai. Daccelo.»

Arthur scosse la testa e continuò a scrivere i suoi appunti. I due detenuti girarono intorno alla scrivania e lo afferrarono…

Ragen li mise entrambi a terra, prendendone a calci uno e poi l’altro. Quando quello che stava di guardia fuori del laboratorio entrò con un coltello, Ragen gli ruppe un polso. I tre se la diedero a gambe, mentre uno di loro urlava: «Sei un uomo morto, Milligan. Ti rompo il culo».

Ragen chiese ad Arthur se sapesse che cosa stava succedendo.

«Un pacco», rispose Arthur. «Dal loro comportamento, immagino si tratti di droga.»

Passò al setaccio il laboratorio e il dispensario. Alla fine, dietro ad alcuni libri e carte su uno degli scaffali più in alto, trovò un sacchetto di plastica con della polvere bianca.

«È eroina?» chiese Allen.

«Devo fare dei test per esserne sicuro», disse Arthur, mettendo il contenuto del sacchetto sulla bilancia. «Ce n’è mezzo chilo qui.»

Scoprì che si trattava di cocaina.

«Che hai intenzione di farci?»

Arthur aprì il pacco strappando il sacchetto e gettò la polvere bianca nel gabinetto.

«A qualcuno dispiacerà moltissimo», commentò Allen.

Ma Arthur aveva già ricominciato a pensare alla sua relazione sui trapianti di pelle.

Arthur aveva sentito parlare della depressione che prendeva i carcerati. Nel periodo di adattamento alla detenzione, la maggior parte dei detenuti attraversava una fase di ansia. Quando un detenuto doveva affrontare la perdita dell’indipendenza e dell’identità ed era costretto ad accettare misure repressive, spesso era trascinato dal drastico cambiamento di vita in uno stato di depressione e un crollo emotivo. Per Milligan la conseguenza fu un periodo di confusione.

Le lettere per Marlene cambiarono. Le oscenità e le vignette pornografiche di Philip e Kevin finirono: ora traspariva la paura di essere uscito di senno. Tommy scriveva di avere strane allucinazioni, e di studiare libri di medicina giorno e notte. Quando avrebbe ottenuto la libertà condizionale, diceva, avrebbe studiato medicina, «anche se ci volessero quindici anni». Le promise che si sarebbero sposati, che avrebbero avuto una casa, e che lui si sarebbe dedicato alla ricerca e si sarebbe specializzato. «Come suona?» scrisse. «Dottor Milligan e signora.»

Il 4 ottobre, a causa dell’episodio della cocaina, Milligan fu trasferito nel blocco C in isolamento protettivo. I libri di medicina e il televisore portatile gli furono requisiti. Ragen strappò le sbarre di acciaio del letto dalla parete e le usò per sprangare l’entrata. Alcuni operai dovettero smontare la porta per tirarlo fuori della cella.

Faceva fatica a dormire e si lamentava di vomitare spesso e di avere la vista offuscata. Di tanto in tanto il dottor Steinberg lo visitava e gli prescriveva dei blandi sedativi e degli antispastici. Benché avesse la sensazione che i problemi di Milligan fossero essenzialmente psicologici, il 13 ottobre ne ordinò il trasferimento da Lebanon al Central Medicai Center di Columbus, affinché fosse curato.

Mentre Allen si trovava là, scrisse all’American Civil Liberties Union per chiedere aiuto, ma non ottenne nessuna risposta. Dopo aver trascorso dieci giorni a Columbus, gli fu diagnosticata un’ulcera gastrica. Gli prescrissero la dieta di Sippy per l’ulcera e fu rispedito in isolamento protettivo a Lebanon. Venne a sapere che non avrebbe potuto ottenere la libertà condizionale ancora per un anno e mezzo, fino all’aprile 1977.

4

Natale e Capodanno arrivarono e se ne andarono, e il 27 gennaio 1976 Allen prese parte a uno sciopero della fame assieme agli altri detenuti. Scrisse a suo fratello:

Caro Jim,

mentre me ne sto qui sdraiato nella mia cella penso a quando eravamo bambini. Cori il passare del tempo mi cresce dentro l’avversione per la vita. Mi dispiace perché è colpa mia se la tua famiglia è a pezzi e di questa famiglia io sono stato a malapena una parte. Tu hai una vita fantastica davanti a te con un sacco di obiettivi. Non buttarla via come me. Se mi odi per questo mi dispiace. Ma io ti rispetto ancora come rispetto il vento e il sole. Jim, te lo giuro, Dio mi è testimone non ho fatto quello di cui mi accusano. Dio dice che ognuno ha un posto e un destino. Mi sa che il mio è questo! Mi dispiace per la vergogna che ho causato a te e a tutti quelli intorno a me.

BILL

Tommy scrisse a Marlene:

Alla mia Marvene,

OK, Marv, c’è uno sciopero della fame e sta per cominciare una grande rivolta. Ti sto scrivendo questa lettera nel caso i detenuti assumano il controllo. Se succederà, non uscirà di qui nessun tipo di posta. Le urla e il rumore di vetri rotti sono sempre più forti. Mi ucciderebbero se provassi a prendere del cibo dal carrello…

Qualcuno ha appiccato un incendio! Ma sono riusciti a spegnerlo. Le guardie stanno trascinando fuori la gente a destra e a sinistra. Il movimento è lento ma probabilmente i detenuti prenderanno il comando entro la metà della settimana prossima. Te l’avevo detto!!! Stanno fuori con i fucili ma neanche quello fermerà questi ragazzi. Mi manchi, Marvene! Voglio solo morire. Le cose si stanno mettendo male. Nei prossimi giorni questa cosa potrebbe finire nel notiziario delle 6. Adesso è solo sulla radio di Cincinnati. Se scoppia il caos totale non venire. Ci saranno migliaia di persone là fuori, non arriveresti mai al cancello d’ingresso. Mi manchi, Marvene, e ti amo. Fammi un favore.

I ragazzi qui mi hanno chiesto di mandare questa alla radio della mia città. Gli serve il supporto della gente per ottenere quello che vogliono. Mandala alla W.H.O.K, la stazione radio. Grazie da tutti i ragazzi. Bene, Marv io ti amo tanto tanto tantissimo, riguardati.

Con amore,

BILL

SE LE COSE SONO OK PORTA IL CACAO.

Durante l’isolamento, «Bobby» incise il suo nome sulla cuccetta di ferro. Lì poteva crogiolarsi nelle sue fantasie. Si vedeva come un attore in un film o in televisione, uno che viaggiava in posti lontani ed era protagonista di eroiche avventure.

Odiava essere chiamato «Robert» dagli altri e insisteva: «Mi chiamo Bobby!»

Soffriva di un complesso di inferiorità, non aveva alcuna ambizione, e viveva come una spugna, assorbendo idee e pensieri altrui, e facendoli passare per propri. Ma se qualcuno suggeriva che facesse qualcosa, lui rispondeva: «Non sono capace». Era l’unico a cui mancasse la fiducia nelle proprie capacità di eseguire un compito.

Quando Bobby sentì parlare per la prima volta dello sciopero della fame, immaginò di essere a capo del movimento, di essere d’esempio per gli altri prigionieri. Come il grande Mahatma Gandhi in India, con il suo digiuno avrebbe messo in ginocchio le autorità e le loro velleità repressive. Una settimana dopo, quando lo sciopero finì, Bobby decise che lui sarebbe andato avanti. Dimagrì moltissimo.

Una sera, quando una guardia aprì la porta della sua cella per portargli il vassoio con la cena, Bobby glielo tirò dietro, lanciandogli tutta quella brodaglia in faccia.

Arthur e Ragen erano d’accordo nel ritenere che nonostante le fantasie di Bobby fossero di aiuto per sopravvivere in quei lunghi mesi di prigione, il suo digiuno stava indebolendo troppo il corpo. Ragen lo dichiarò indesiderabile.

Un pomeriggio Tommy uscì dalla sala delle visite dopo aver incontrato la mamma di Billy, che era andata a trovare il figlio per festeggiare il suo ventunesimo compleanno. Si voltò indietro e, guardando attraverso la finestra, vide una cosa che prima non aveva notato: in diverse parti della sala, c’erano prigionieri che stavano seduti accanto alle loro donne, con le mani nascoste sotto i tavolini quadrati, senza parlare e addirittura senza guardarsi, ma con lo sguardo fisso davanti a sé, noncuranti, quasi come se avessero avuto gli occhi di vetro.

Quando menzionò la cosa a Jonsie, un prigioniero che stava nella cella di fianco alla sua, lui si mise a ridere. «Cazzo, non sai proprio niente? È San Valentino. Si fanno masturbare.»

«Non ci credo.»

«Bello, quando hai una donna che farebbe qualunque cosa per te, viene qui con una gonna invece che i pantaloni, e non si mette sotto niente. La prossima volta che abbiamo visite assieme, ti faccio vedere il culo della mia tipa.»

La settimana seguente, mentre lui stava entrando per incontrare la mamma di Billy, Jonsie e la sua splendida ragazza dai capelli rossi stavano uscendo. Jonsie fece l’occhiolino e sollevò il dietro della gonna, mettendole in mostra il sedere nudo.

Tommy arrossì e si voltò.

Quella notte, a metà di una lettera di Tommy per Marlene, la calligrafia cambiò, e Philip si intromise: «Se mi ami, la prossima volta che vieni, mettiti una gonna, ma non metterti le mutandine».

5

Nel marzo del 1976, Allen iniziò a nutrire qualche speranza di ottenere la libertà condizionale in giugno, ma, quando la commissione per la libertà condizionale rimandò l’udienza di altri due mesi, si preoccupò. Secondo voci di corridoio che circolavano in prigione, l’unico modo per garantirsi la libertà condizionale era quello di allungare qualcosa all’impiegato che presentava la richiesta all’ufficio centrale. Allen continuava con i suoi traffici; faceva degli schizzi a matita e carboncino, poi li vendeva ai detenuti e alle guardie in cambio di oggetti che potevano essere messi da parte e in seguito smerciati. Scrisse a Marlene, pregandola ancora una volta di portare arance iniettate di vodka pura con l’ipodermica. Una era per Ragen, le altre da vendere.

Il 21 giugno, otto mesi dopo essere stato messo in isolamento protettivo, scrisse a Marlene che era certo che il ritardo dell’udienza per la libertà condizionale fosse una sorta di test psicologico, «o altrimenti sono così fuori di testa che non so cosa cazzo sto facendo Da-da-da». Sempre in isolamento, venne trasferito nell’«area psichiatrica» del blocco C, un gruppo di dieci celle riservate ai detenuti con disturbi mentali. Poco tempo dopo, Danny si pugnalò e, quando rifiutò di farsi curare, fu portato di nuovo al Central Medicai Center di Columbus. Dopo una breve permanenza, lo rispedirono a Lebanon.

Durante il periodo che trascorse nel blocco C, Allen continuò a mandare a Warden Dallman messaggi ufficiali di protesta contro il suo isolamento protettivo, che - gli avevano detto - doveva essere volontario. Si stavano violando i suoi diritti costituzionali, scriveva, minacciando di fare causa a tutti quanti. Dopo qualche settimana, Arthur suggerì una nuova tattica: il silenzio. Non parlare con nessuno, né guardie né detenuti. Sapeva che questo li avrebbe fatti preoccupare. E i bambini rifiutarono di mangiare.

In agosto, dopo undici mesi di isolamento protettivo, continuamente dentro e fuori dell’area psichiatrica, gli annunciarono che poteva tornare a far parte della comunità del carcere. «Ti troveremo un lavoro dove non ci siano troppi pericoli», disse Warden Dallman. Indicò i disegni a matita sulle pareti della cella. «Ho sentito parlare del tuo talento artistico. Che ne dici di partecipare alle lezioni di arte del signor Reinert?»

Allen annuì felice.

Il giorno successivo Tommy si recò nell’aula di arti grafiche. Era un luogo fremente di attività, pieno di gente impegnata con serigrafie, incisioni, videocamere e una pressa per stampare. I primi giorni il signor Reinert, un uomo dal fisico esile e asciutto, osservò Tommy di traverso con un’espressione pensierosa mentre lui si sedeva qua e là senza mostrare alcun interesse per quello che succedeva intorno a lui.

«Che cosa ti piacerebbe fare?» gli chiese Reinert.

«Mi piacerebbe dipingere. Sono bravo con i colori a olio.» Reinert sollevò il capo e lo guardò. «Nessuno dei prigionieri fa dipinti a olio.»

Tommy scrollò le spalle. «È quello che faccio io.»

«D’accordo, Milligan. Vieni con me. Penso di sapere dove possiamo trovare qualcosa che fa al caso tuo.»

Tommy ebbe fortuna: il progetto di arti grafiche al Chillicothe Correctional Facility aveva chiuso da poco, e avevano mandato colori a olio, tele e comici a Lebanon. Reinert gli diede una mano a sistemare un cavalletto e gli disse di mettersi a dipingere.

Mezz’ora più tardi, Tommy gli portò un paesaggio. Reinert rimase senza parole. «Milligan, non ho mai visto nessuno dipingere a questa velocità. Ed è anche un buon lavoro.» Tommy annuì. «Ho dovuto imparare a dipingere in fretta se volevo riuscire a finire qualcosa.»

Nonostante la pittura a olio non facesse parte del programma e generalmente non fosse inclusa nelle sue lezioni, Reinert si rese conto che Milligan era decisamente più a suo agio con un pennello in mano; così, dal lunedì al venerdì, gli permetteva di dipingere tutto quello che voleva. I prigionieri, le guardie e persino qualche funzionario dello staff amministrativo ammiravano i paesaggi di Tommy. Dipinse alcuni quadri commerciali da usare per i suoi scambi, e li firmò «Milligan»; altri li fece per sé, e gli fu consentito di farli uscire dalla prigione quando sua madre o Marlene venivano a trovarlo.

Il dottor Steinberg cominciò a farsi vedere di tanto in tanto alle lezioni per chiedere consiglio a Milligan sui suoi dipinti. Tommy gli insegnò a servirsi della prospettiva, e a dipingere le rocce in modo che sembrassero sott’acqua. Nei suoi week-end liberi Steinberg andava in prigione e faceva portare Milligan fuori della cella perché potessero dipingere assieme. Sapendo che Milligan odiava il cibo della prigione, gli portava sempre panini con prosciutto e formaggio o bagel con formaggio e salmone.

«Vorrei poter dipingere nella mia cella», disse Tommy a Reinert un week-end.

Reinert scrollò la testa. «Non quando ci sono due prigionieri in una cella. È contro il regolamento.»

Ma quel regolamento non sarebbe stato applicato a lungo. Diverse sere dopo, due guardie andarono a ispezionare la cella di Milligan e trovarono della marijuana. «Non è mia», disse Tommy, temendo che non gli credessero e che lo mandassero nel «buco», una cella di punizione spoglia e isolata. Ma quando lo interrogarono, il suo compagno di cella crollò e ammise di averla fumata perché sua moglie l’aveva lasciato e lui era a pezzi. Fu mandato in isolamento, e per un po’ Milligan ebbe la cella tutta per sé.

Reinert parlò con il tenente Moreno, l’ufficiale responsabile di quel blocco di celle, proponendo che Milligan avesse il permesso di dipingere nella sua cella fino a quando non gli fosse stato assegnato un altro compagno. Moreno acconsentì. Così, ogni giorno dopo la chiusura dell’aula di arti grafiche, alle tre e trenta, Milligan tornava nella sua cella e dipingeva fino all’ora di andare a dormire. I giorni volavano; così era molto più facile far passare il tempo.

Poi un giorno una guardia gli accennò che gli avrebbero messo in cella un altro prigioniero. Allen si fermò nell’ufficio del tenente Moreno.

«Signor Moreno, se mette qualcun altro in cella con me, non potrò più fare i miei quadri.»

«Be’, vorrà dire che dovrai farli da qualche altra parte.»

«Posso spiegarle una cosa?»

«Torna più tardi e ne parliamo.»

Dopo pranzo, Allen tornò dall’aula di arti grafiche con un quadro che Tommy aveva appena terminato. Moreno lo guardò stupefatto. «L’hai fatto tu?» chiese. Il tenente sollevò il quadro e osservò il paesaggio verde cupo con il fiume che scorreva inoltrandosi nell’oscurità. «Ehi, mi piacerebbe davvero avere uno di questi.»

«Gliene farò uno», disse Allen. «Solo che non posso più dipingere nella mia cella.»

«Oh… be‘, aspetta un attimo. Faresti un quadro per me?»

«Gratuitamente.»

Moreno chiamò il suo assistente: «Casey, tira via il nome del nuovo prigioniero dalla casellina della cella di Milligan. Mettici una striscia bianca e facci sopra una X». Poi si voltò verso Allen. «Non preoccuparti. Hai ancora circa nove mesi, poi il tuo caso andrà alla commissione, no? Non ci sarà più nessuno con te in cella.»

Allen era al settimo cielo, e lui, Tommy e Danny dipingevano in ogni minuto libero, facendo attenzione a non finire nessun quadro.

«Dovete essere cauti», suggeriva Arthur. «Non appena Moreno avrà il suo quadro, potrebbe rimangiarsi la parola.»

Allen temporeggiò con Moreno per quasi due settimane, poi si presentò nel suo ufficio con un quadro che raffigurava un pontile a cui erano attraccate alcune barche. Moreno era al colmo della gioia.

«È sicuro che questo terrà lontano chiunque altro dalla mia cella?» chiese Allen.

«L’ho messo in bacheca. Puoi andare a vedere.»

Allen entrò nella camera di sicurezza, e sotto il suo nome vide il foglietto con la nota: «Non mettere altri detenuti nella cella di Milligan». Era coperta con del nastro trasparente e aveva l’aria di essere permanente.

Milligan dipingeva con un ritmo frenetico. Faceva quadri per le guardie e per il personale amministrativo, e anche per la mamma e Marlene, affinché li portassero a casa da vendere. Un giorno gli fu chiesto di farne uno per l’ingresso principale, e Tommy dipinse un’enorme tela da appendere dietro il banco delle registrazioni. Commise l’errore di firmarlo con il suo nome, ma prima di consegnarlo Allen se ne accorse, ci tirò una riga sopra e lo firmò «Milligan».

La maggior parte di questi quadri non gli dava soddisfazione. Erano fatti per essere scambiati o venduti rapidamente. Ma un giorno si ritrovò coinvolto in qualcosa che per lui era molto importante, l’adattamento di un quadro che aveva visto su un libro di arte.

Allen, Tommy e Danny fecero i turni per lavorare a La grazia di Cathleen. In origine era stato pensato per essere il ritratto di una dama del Settecento con un mandolino. Allen si occupò del viso e delle mani, Tommy dello sfondo e Danny dei dettagli. Quando arrivò il momento di metterle in mano il mandolino, però, Danny si rese conto di non essere capace di dipingerlo, così lo sostituì con uno spartito musicale. Si alternarono per quarantotto ore a lavorarci, senza mai fermarsi. E quando ebbero finito, Milligan crollò sulla sua cuccetta e si addormentò.

Prima di Lebanon, «Steve» non aveva passato molto tempo sul posto. Guidatore esperto e audace, quando era più giovane era stato qualche volta dietro il volante, e si vantava di essere il miglior guidatore del mondo. A Lebanon, dopo la messa al bando di Lee, poiché anche Steve aveva la capacità di far ridere la gente, Ragen gli concesse di uscire sul posto. A Steve piaceva darsi delle arie, diceva di essere uno dei migliori mimi viventi. Era in grado di imitare chiunque e di far piegare in due dalle risate una platea di detenuti. Le imitazioni erano il suo modo di prendere in giro la gente. Steve era l’attaccabrighe, il perenne impostore.

Ragen se la prendeva quando Steve imitava il suo accento iugoslavo, e Arthur andava su tutte le furie quando lo scherniva parlando con l’accento inglese imitando però la parlata degli operai. «Io non parlo così», insisteva Arthur. «Non parlo in dialetto.»

«Ci metterà nei guai», diceva Allen.

Un pomeriggio Steve era nel corridoio dietro il capitano Leach e, a braccia incrociate, imitava il suo modo di dondolarsi avanti e indietro sui talloni. Leach si voltò e lo colse in flagrante. «Benissimo, Milligan, puoi dedicarti alle tue performance nel buco. Forse dieci giorni di isolamento ti insegneranno qualcosa.»

«Allen ci aveva avvertito che sarebbe successo qualcosa», disse Arthur a Ragen. «Steve è inutile. Non ha ambizioni né talenti. È capace solo di far ridere la gente, e anche se le sue pagliacciate possono divertire gli spettatori, la vittima diventa un nostro nemico. Sei tu che hai il controllo, ma ti faccio presente che non è il caso di inimicarsi altra gente.»

D’accordo con Arthur sul fatto che Steve fosse indesiderabile, Ragen gli comunicò che era bandito. Steve rifiutò di lasciare il posto, e imitando l’accento iugoslavo di Ragen grugnì: «Cosa vuoi dire? Tu non esisti. Nessuno di voi esiste. Tutti invenzione di mia fantasia. Sono solo io qui, unica persona vera. Tutti altri voi solo allucinazioni».

Ragen lo scaraventò contro il muro facendogli sanguinare la fronte. A quel punto Steve lasciò il posto.

Incitato da Arthur, Allen fece domanda per essere ammesso ai corsi tenuti all’interno della prigione da istruttori del college della contea provenienti dalla sede del campus di Shaker Valley. Si iscrisse a inglese, disegno industriale, matematica di base e tecniche pubblicitarie. Ottenne A in arte e B+ in inglese e matematica. Le valutazioni che riceveva in arti grafiche erano sempre del massimo livello: «eccezionale», «altamente produttivo», «apprende velocemente», «molto preciso», «eccellenti relazioni», «fortemente motivato».

Il 5 aprile 1977, Allen si presentò davanti alla Commissione per la libertà condizionale e gli fu comunicato che entro tre settimane sarebbe stato rilasciato.

Quando finalmente ricevette la lettera di scarcerazione, Alien era talmente felice che non riusciva a stare seduto. Si mise a camminare avanti indietro per la cella. Poi prese la lettera e ci fece un aeroplanino di carta. Il giorno prima della data fissata per il rilascio, passò davanti all’ufficio del capitano Leach, fischiettando. Quando Leach sollevò lo sguardo, Allen lanciò l’aeroplanino sopra la sua testa e proseguì con un sorriso.

Il 25 aprile, il suo ultimo giorno a Lebanon, fu eterno. La notte precedente, Allen era stato sveglio fino alle tre del mattino a fare su e giù per la cella come un leone in gabbia. Disse ad Arthur che riteneva di dover avere maggior voce in capitolo su chi dovesse uscire sul posto e chi no, ora che sarebbero stati di nuovo fuori. «Sono io quello che deve avere a che fare con la gente», disse Allen, «quello che deve parlare per tirare tutti fuori dei guai.»

«Sarà difficile per Ragen cedere il potere che ha attualmente», rispose Arthur, «dopo due anni di controllo assoluto.

Non accetterà facilmente un triumvirato. Credo che abbia in mente di continuare a dettare legge.»

«Be’, nel momento in cui usciamo da qui, il capo sarai tu. Sono io quello che dovrà cercare un lavoro e preoccuparsi del nostro reinserimento nella società. Ho bisogno di avere una maggiore influenza sulle cose.»

Arthur strinse le labbra. «Non è una richiesta irragionevole, Allen. Anche se non posso parlare per Ragen, posso darti il mio supporto.»

Al piano inferiore, una guardia gli consegnò un abito nuovo, e Allen rimase a bocca aperta. Era di ottima qualità, e gli calzava a pennello.

«Be’, l’ha mandato tua madre», disse la guardia. «È uno dei tuoi.»

«Oh, certo», rispose Allen, fingendo di ricordare.

Un’altra guardia entrò con un documento contabile da fargli firmare. Prima di andarsene, doveva pagare trenta centesimi per una tazza di plastica che mancava dalla cella.

«Me l’hanno portata via quando mi hanno trasferito dall’isolamento», disse Allen, «e non me l’hanno mai restituita.»

«Io non ne so nulla. Comunque devi pagarla.»

«Be’, posso fare anch’io lo stesso gioco!» gridò Allen. «Non ho intenzione di pagare!»

Lo portarono di sotto nell’ufficio del signor Durine; il funzionario gli chiese quale fosse il problema, considerato che si trattava del suo ultimo giorno.

«Vogliono farmi pagare una tazza di plastica che mi hanno portato via loro. Non c’entro niente io se quella roba manca.»

«Devi pagare i trenta centesimi», disse Dunne.

«Neanche morto.»

«Finché non lo fai, non te ne puoi andare.»

«Posso accamparmi proprio qui», esclamò Allen sedendosi. «Non pago per qualcosa che non ho fatto. È una questione di principio.»

Alla fine Dunne lo lasciò andare, e mentre si dirigeva verso la cella di detenzione dove sua madre, Marlene e Kathy sarebbero venute a prenderlo, Arthur gli chiese: «Era proprio necessario?»

«Come ho detto a Dunne, è una questione di principio.» Bob Reinert andò a salutarlo mentre lasciava il carcere, e lo stesso fece il dottor Steinberg, che gli fece scivolare in mano dei soldi come ultimo pagamento per uno dei suoi quadri.

Allen era ansioso di uscire da quella porta, impaziente mentre la madre di Billy parlava con Steinberg. «Forza», disse Allen a Dorothy. «Andiamo.»

«Un minuto solo, Billy», rispose lei. «Sto parlando.» Rimase lì irrequieto, osservandola mentre non la smetteva più di parlare.

«Possiamo andare?»

«Certo, stai calmo solo un minuto.»

Camminava avanti e indietro, borbottando mentre sua madre continuava a chiacchierare. Alla fine, gridò: «Mamma, io me ne vado. Se tu vuoi restare, resta».

«Oh be‘, arrivederci dottor Steinberg. Voglio ringraziarla per tutto quello che ha fatto per il mio Billy.»

Allen si diresse verso la porta e lei lo seguì. La porta di acciaio sibilò dietro di loro, e Allen si rese conto che quando era arrivato non aveva sentito la seconda porta che si chiudeva.

Nel tempo che Kathy impiegò per andare a prendere la macchina, Allen non riuscì a sbollire l’irritazione. Quando un uomo esce di galera, pensava, tutto quello che devi fare è aprirgli la porta e lasciarlo correre fuori. Non lo tieni dentro ad aspettare mentre tu te ne stai lì a ciarlare. Era già abbastanza dura quando era la legge a chiuderti là dentro, ma che fossero le ciance di tua madre era proprio troppo. In macchina tenne il broncio.

«Passa dalla banca di Lebanon», disse infine. «È meglio che incassi l’assegno della prigione qui piuttosto che a Lancaster, dove tutti saprebbero che sono appena uscito di galera.» Entrò, girò l’assegno e lo mise sul banco. Quando il cassiere gli porse i cinquanta dollari, mise le banconote nel portafogli assieme ai soldi che gli aveva dato Steinberg. Ancora arrabbiato, adesso si stava innervosendo perché era arrabbiato. Allen non aveva proprio voglia di gestire questa cosa…

Tommy si guardò intorno e si chiese perché mai si trovasse all’interno di una banca. Stava entrando o uscendo? Aprì il portafogli, vide quasi duecento dollari e se li ricacciò in tasca. Immaginò che stesse uscendo. Sbirciando fuori della grande finestra, vide sua madre e Marlene che lo stavano aspettando in macchina, e Kathy dietro il volante, e capì che giorno doveva essere. Controllò il calendario sul banco del cassiere. Era il giorno del suo rilascio.

Corse fuori della porta della banca, fingendo di tenere qualcosa stretto tra le mani. «Presto, diamocela a gambe. Nascondetemi, nascondetemi.» Diede una strizzata a Marlene, rise e si sentì bene.

«Mio Dio, Billy», disse lei. «Imprevedibile come sempre.»

Cercarono di aggiornare Billy su tutto quello che era successo a Lancaster negli ultimi due anni, ma a dire il vero a lui non gliene fregava niente. Tutto quello che voleva era di riuscire a passare un po’ di tempo con Marlene. Dopo tutti gli incontri nel parlatorio del carcere, non vedeva l’ora di stare un po’ da solo con lei.

Quando raggiunsero Lancaster, Marlene disse a Kahty: «Fammi scendere al Plaza Shopping Center. Vado al lavoro».

Tommy la fissò. «Lavoro?»

«Sì. Mi sono presa la mattina libera, ma adesso devo tornare.»

Tommy era incredulo. E si sentiva ferito. Aveva pensato che avrebbe voluto passare con lui il suo primo giorno fuori di prigione. Mentre ricacciava indietro le lacrime, non disse niente, ma il vuoto che provava dentro di sé faceva così male che lasciò il posto…

Quando fu di nuovo nella sua stanza, Allen disse ad alta voce: «Comunque, io ho sempre saputo che non era alla sua altezza. Se davvero le fosse importato qualcosa di Tommy, si sarebbe presa tutta la giornata libera. Secondo me non dovremmo avere più niente a che fare con lei».

«Questa», disse Arthur, «è stata la mia posizione sin dall’inizio.»