Come il passato è nel presente, così lo è anche il futuro: i pianeti che colonizzeremo e le stelle che scopriremo. Il tempo umano è così confuso, così impreciso, che ci obbliga a sognare per viaggiare nella sua profonda oscurità, e chissà che non sogniamo ciò che abbiamo già fatto nel futuro. L’immaginazione indicibile è l’unica capace di addentrarsi nel tempo indicibile. I goffi marchingegni alati inventati dai nostri antenati erano il sogno di un aereo contemporaneo, perché nei sogni non distinguiamo con precisione ciò che stiamo vedendo. Non siamo stati noi a ideare la nostra intrinseca capacità, per questo non la conosciamo. Non sembra paradossale che non nasciamo con la consapevolezza esatta almeno di come siamo fatti? Fino a cinque secoli fa non avevamo identificato una cosa tanto semplice come la circolazione del sangue e ancora oggi possiamo dire soltanto di esserci approssimati vagamente a noi stessi. Siamo soltanto delle creature fra le tante, anche se meravigliate. La meraviglia è la nostra anima. Quella che ci porta più in là, dove prima o poi ci ritroveremo con il presente, dice Alien con una voce molto mascolina, molto pacata, molto malinconica. Prima di congedarsi ci guarda per qualche istante con la tristezza di chi è appena tornato da un viaggio attraverso il tempo vero e proprio. Il silenzio della sala è emozionante. Tutti aspettiamo che dica l’ultima parola per poter applaudire.

Aspetto all’uscita per salutare Alien. Stormi freddi di uccelli neri attraversano il cielo azzurro. Sono venuto fino al centro culturale pensando a Yu e a quanto cambiano le cose e a come, ciononostante, ci aggrappiamo a esse come se non dovessero cambiare mai. Il Veterinario la chiama continuità. Il complesso residenziale è continuo, instancabile, perché la sua apparenza si rafforza con ogni nuova costruzione, con ogni aggiunta. Al tramonto è investito da ondate di punti luminosi che a mezzanotte circa si vanno estinguendo, lasciando macchie buie qua e là. All’alba, però, iniziano a ergersi per magia i contorni delle costruzioni delle case a due piani e i comignoli delle villette e i rami spogli degli olmi, a schiarirsi fino a diventare nitidi, così visibili da non essere più reali. E con la luce i suoni della luce, come il buio ha i suoi, più distinti, più perfetti, più soli.

Una voce della luce, una di quelle che si confondono con le altre voci, con il vento e le potatrici elettriche, mi parla alle spalle. Mi giro e scopro Marina, più indefinita, più magra e se possibile più bionda. Ha gli occhi più belli che abbia mai visto dopo quelli di Sonia. Le esprimo la mia sorpresa per il fatto di trovarla alla conferenza di Alien.

«Mi danno sollievo le parole di quest’uomo», dice. «Non so perché, ma sono una consolazione. Mi fanno pensare che non tutto è perduto, che non perché una cosa scompare dalla nostra vista scompare realmente, soprattutto se non la dimentichiamo.»

«Capisco», replico per non dover aggiungere altro.

Mi mancano i baci di Yu. I suoi baci sono come trasfusioni di sangue. È stata necessaria tutta un’umanità passata, milioni di milioni di bocche per ottenere le labbra di Yu, la sua saliva, la sua lingua, i suoi denti delicati, piccole pietre attraverso cui l’acqua passa costantemente e nelle quali mi piace inciampare. Mi fa un po’ vergognare sentire davanti a Marina che la vita è meravigliosa. Non voglio ricordare il momento in cui la vedrò andare via, perciò non la guardo quando si gira, perché quello che si vede, anche solo una volta o senza l’intenzione di vederlo, può essere che non lo si dimentichi più.

«Al centro polisportivo hanno bisogno di un impiegato che si occupi degli abbonamenti della piscina», mi dice Alien all’improvviso. Con questo mi sveglio del tutto.

«Vedo che non ti entusiasma l’idea», aggiunge.

«Be’», faccio io.

«Senti, è un’attività che non comporta nessun impegno, nel frattempo puoi pensare ad altro. Quando registri gli abbonamenti, quando li vidimi, non devi per forza stare a pensare agli abbonamenti, ma a quello che ti interessa davvero, capisci?»

«Potrei pensare a una sceneggiatura», ribatto senza convinzione.

«In fondo ti pagherebbero per pensare. Sarebbe come una borsa di studio.»

«Vista così...» dico. «Tu, invece, non devi pensare ad altro che a ciò che pensi. Per questo quello che dici ha il tuo marchio. Sei riuscito a elaborare un prodotto assolutamente spirituale. La gente ti segue. La madre di Eduardo ti segue.»

«La madre dello scomparso?»

«Dice che le tue parole le danno un gran sollievo. Vedi? Quello che fai serve a qualcosa.»

«È necessario che la gente ti creda. Non si può fare niente se non risulti convincente. Anche quando vidimi gli abbonamenti, loro dovranno sentire che quel timbro vale, che sai che li stai vidimando, che ricorderai sempre di aver messo davvero quel timbro sul loro abbonamento.»

«Sembra difficile che tutto quello che si fa durante il giorno possa essere fatto in questo modo», osservo.

«Non se sei convinto di quello che fai. Non è necessario che tu ci creda, né che ti piaccia in modo particolare, semplicemente lo fai perché è ciò che fai al posto di tutto quello che potresti fare. Non devi pensare che se potessi non lo faresti: questo è la morte.»

Dico a Alien che penserò alla storia del centro polisportivo. La serata si è fatta ancora più fredda e decido di andarmene al cinema. Prendo l’autobus, passo rapidamente davanti al conducente e mi siedo nelle file posteriori in modo che non possa parlarmi. Sono circondato da una banda di quindicenni che, visto che è venerdì, sono incredibilmente eccitati. Le ragazze sono truccate pesantemente e tutti, maschi e femmine, hanno i capelli al massimo e i dettagli dell’abbigliamento analizzati al microscopio. Non appena partiamo, iniziano a sedersi uno in braccio all’altro e a dire parolacce. Persino io mi sentirei provocato se non fossero il frutto naturale di noi che adesso abbiamo vent’anni, osservati con fredda curiosità da loro quando tornavamo da Madrid in questo stesso autobus piuttosto sbronzi, soprattutto Edu, che dovevo trascinare fino a casa mia in uno stato pietoso. Quasi tutti gli amici del liceo ora lavorano, non come me, ma sul serio, a Madrid, in aziende con il capo del personale e vari piani di uffici. A volte li vedo scendere o salire su macchine nuove che non arrivano ai quindicimila euro, con completi nuovi che non superano i cento e le facce da tartassati. Ci diciamo ciao e arrivederci. Se fossi riuscito ad andare in Cina e fossi tornato, sarei quello che è stato in Cina e questo gli si leggerebbe nello sguardo, nel saluto. Così sono quello che è rimasto nel posto che loro si sono stufati di vedere per tanto tempo e che praticamente hanno abbandonato. Noto il loro disprezzo involontario. Mi disprezzano anche gli studenti universitari. Non possono evitarlo. Faccio parte della truppa di fannulloni che non sono usciti dal complesso residenziale perché non sono stati in grado di fare il salto, e ai quali per gran parte mi sono uniformato: gli spazzini sono vestiti d’arancione e gli aiutanti dei giardinieri di verde, quelli che sono impiegati all’Híper di bianco. Questi ultimi portano un cappellino tipo barchetta per evitare che cadano capelli sul pane, la carne o la frutta. Vado per esempio nei reparti di ferramenta o di giardinaggio, i miei preferiti in passato, e mi ritrovo davanti la faccia imbambolata di qualcuno dei miei ex compagni che mi chiede cosa desidero. Gli dico molto seriamente che sto dando un’occhiata oppure mi faccio spiegare come si installa l’impianto di irrigazione automatica. Siccome sono un cliente, non ha più le palle. Prende un foglio bianco e un grosso pennarello, da vero professionista, e inizia a fare confusione. È uno che da piccolo fece finta di violentare una sua amichetta, gli venne il ghiribizzo di giocare a questo e i genitori della bambina denunciarono i suoi, e quelli del resto delle bambine della nostra classe delle elementari raccomandarono alle loro figlie di non avvicinarsi a una bestia simile. Adesso lo vedo sempre con una ragazza che lavora in una boutique dell’Apolo e che ha i capelli castani, lunghi, lucidi e lisci che le arrivano al sedere.

Gli dico che non capisco niente, che è impossibile che l’irrigatore funzioni se seguo quelle istruzioni. Lui si innervosisce un po’ e mi dice che va a chiamare il capo in modo che me lo spieghi meglio. Gli rispondo che non importa, che ci sto pensando, che non vedo l’utilità dell’irrigazione automatica. Rimane lì con l’espressione di chi ha perso una vendita. Pensa di essere stato sul punto di accaparrarsi l’installazione di un impianto di irrigazione automatica e che questo sogno sia appena svanito. Ancora non è capace di riconoscere quelli che, come me, non lo comprerebbero mai. Gli hanno fatto credere che siamo tutti consumatori nati e che, in quanto possessori di un pezzo di terra, siamo potenziali compratori di qualunque utensile per il giardinaggio, che bisogna solo convincerci. Glielo si legge nella desolazione dello sguardo.

Anche tra le cassiere riconosco ex alunne del liceo. L’uniforme che indossano è composta da una camicia a strisce rosse e bianche e un fiocco al collo e si truccano come se dovessero partecipare a un casting. Sono molto belle, ognuna a modo suo, anche se adesso tutte si disegnano una spessa riga nera sulla palpebra, si mettono ciprie che danno loro quel tocco vellutato sulla pelle e matita per le labbra di un qualsiasi colore, indipendentemente dal rossetto che usano. Mi piace moltissimo guardarle. Quasi nessuna sfoggia il suo colore naturale di capelli – non va di moda – ma arancioni artificiali, platino, rossi e neri. Mi guardano come per dire: guarda che sfaticato. Per la loro disperazione tiro fuori gli articoli dal carrello con grande calma facendo attenzione a tutti quei dettagli troppo abbaglianti per stare in mezzo ad abiti a buon mercato, cartoni del latte, montagne di arance, bagnoschiuma giganti e promozioni di tegami e padelle.

Si può dire che la nostra sia stata la prima generazione giovane della zona. Quando ero piccolo, da queste parti quasi non si vedevano ragazzi tra i quattordici e i vent’anni. Solo genitori e bambini. Così, a mano a mano che siamo cresciuti, il volto della città più pigra del mondo si è andato coprendo di capigliature sgargianti, di teste rapate, di tatuaggi sulle caviglie, le spalle, i seni, i sederi e i polsi; di piercing sulle labbra, le sopracciglia, gli ombelichi e le orecchie, sia nei giardinieri sia negli spazzini sia in quelli dell’Híper, come anche in quelli in giacca e cravatta che, anche se più discretamente, si sono comunque disegnati qualcosa. Io stesso mi sono tatuato un serpente sulla spalla su cui Yu passa la lingua molto piano mentre mi stringe con le gambe. So che per lei è più sexy che per me il pigiama cinese. Le chiedo di tatuarsi il mio nome in un posto che possa vedere solo io. E lei mi sorride tristemente senza dire niente, cosa che mi allarma e che mi obbliga a stare ormai sempre allerta. Che cosa vuol dire non dire niente?

Lo studio dove mi sono fatto il serpente pensando così di far eccitare Yu è decorato come se fosse una grotta piuttosto affollata, alla fine della quale, dietro a delle tende nere, si sente un apparecchio elettrico che potrebbe far pensare alle pulizie dei denti dell’ambulatorio di mia madre. Cerco di concentrarmi sulle illustrazioni appese al muro per non sentire i rumori e gli odori, fin quando arriva il mio turno e opto per il serpente nero, che penso possa stare molto bene su una scapola, cosa confermata dal tizio dell’ago, che porta pantaloni e polsiere di pelle e una zazzera molto fitta. Ma la vita è così, un tatuaggio non te lo farà uno schizzinoso, perché fare un tatuaggio deve essere piuttosto schifoso. E non si può neppure circondare la faccenda di pareti bianche e di un’atmosfera asettica, perché l’opera deve essere caricata di una certa energia primitiva e psichedelica, in modo che quando Yu lo vedrà, vedrà una cosa fatta in uno stanzino nascosto dietro una tenda nera alla fine di una grotta con le pareti di cartone, avvolto nel calore e nell’odore della mia pelle bruciata e di quella del capellone.

Di ritorno dal cinema, dopo essere passato dall’appartamento per lasciare il riscaldamento acceso, incontro di nuovo la banda di quindicenni, molto più eccitati di sei ore prima. Si ammassano nell’ultima fila fumando e gridando. Tutta quell’energia è assordante. Non ricordo che noi ne avessimo tanta. Dove li condurrà? Non è difficile indovinarlo perché loro presuppongono la continuità dei campi da tennis, della piscina coperta, dei giardini, delle abitazioni unifamiliari, degli asili e delle scuole, dell’ufficio postale, dei centri commerciali, dei contratti capestro, di un orizzonte illuminato dalla mano dell’uomo verso il quale ci dirigiamo tra i veli che l’universo lascia cadere a poco a poco.

Dalla fermata il tragitto a piedi verso casa è silenzioso. Si accendono e si spengono alcune finestre, si sente qualche suono proprio dell’oscurità, ovvero isolato e preciso, contundente. Chilometri e chilometri di questo stesso tragitto un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro. La maggior parte della mia vita l’ho lasciata in questo tratto che va dalla pensilina rossa accanto al terreno non ancora del tutto edificato fino a calle Rembrandt, leggermente scoscesa, e lungo i suoi marciapiedi fino al numero sedici, casa mia, dalla facciata marrone e dalle finestre bianche, con il vecchio porticato dalle piastrelle rosse che tutti gli altri hanno cambiato con buona pietra di cava rosa o con ardesia o terracotta, che hanno chiuso con vetrate affinché d’inverno il freddo non entri in casa e che hanno riempito di piante.

Mia madre dice con un’allarmante intonazione nasale che ha voluto aspettarmi alzata, anche se a essere più precisa avrebbe dovuto dire: stesa sul divano e con una coperta addosso.

Le chiedo se è raffreddata, affinché si renda conto delle trasformazioni che si stanno verificando in lei.

«Ah, sì», risponde. «È l’aria secca. Il riscaldamento secca molto l’ambiente.»

«Già», dico io, togliendomi il giubbotto tedesco, i guanti, la sciarpa lunga che mi arriva quasi ai piedi, e il berretto tipo Che Guevara con cui potrebbe sposarsi molto bene un po’ di barba.

«Come mi starebbe un po’ di barba?» le chiedo. «Non folta, ma di quelle che sembrano di due giorni.»

«Prova», risponde lei, «sempre che non sembri uno zozzone malato. Non penso che tu possa essere più bello di quanto sei già.»

«Davvero pensi che io sia bello?» domando, pensando che Yu non mi ha mai detto che sono bello né che mi ama, neanche in quei momenti nei quali si può dire qualunque cosa.

«Senti, da quando sono arrivata oggi pomeriggio non ho smesso di sentire ululare il cane della casa accanto. È come se piangesse. Forse è solo da tanto tempo e nessuno è venuto a prendersi cura di lui. Magari il vicino è morto in uno dei suoi viaggi e nessuno sa che a casa sua c’è un cane che lo aspetta. Non so, ho iniziato a pensarci e ripensarci e a preoccuparmi tanto che ho dovuto...»

«Fare cosa, mamma?» chiedo.

«Penso che sto invecchiando. Fino a qualche anno fa non mi sarebbe importato neanche un po’ di cosa succedeva al cane della casa accanto.»

Forse ci troviamo davanti a un altro sintomo della sua dipendenza, ma come d’abitudine sto zitto. E dedico tutta la mia attenzione ad ascoltare il povero Ulises.

«Sembra che abbia fame. È senz’altro solo. Forse dovremmo fare qualcosa», commento.

«Per esempio cosa?»

Innanzitutto esco e vado a suonare al cancello.

Ulises, sentendo le scampanellate, emette i suoi ben noti latrati rauchi. Gli parlo attraverso il battente. Gli dico: «Ulises, hai fame?». Un solo latrato come se assentisse, come se avesse riconosciuto la mia voce.

Torno a casa mia intirizzito per il freddo. La luna emana il vapore gelato che copre le macchine, il suolo e il ferro dei cancelli. Perciò mi metto il giubbotto e dico a mia madre: «Salto nel giardino del vicino. Non ho intenzione di lasciare quella povera bestia così».

«Non dovremmo chiamare la polizia o i pompieri? Pensa se ti aggredisce.»

«Gli darò da mangiare. Lui mi conosce. Non ti preoccupare», replico senza essere sicuro.

Faccio quel che ho pensato con la difficoltà che comporta la materializzazione di qualsiasi atto immaginativo. Mi costa fatica arrampicarmi lungo il muro e poi scendere. Nelle tasche ho messo il pane e una torcia che tiro fuori quando atterro dall’altra parte. Il fascio di luce della torcia cade sull’erba non tagliata, su una fontana, sulla vegetazione che si schiaccia contro le pareti in fondo, sugli alberi dai rami spogli e su tutte le foglie cadute in autunno imputridite per terra. Poi illumina la figura fiera di Ulises dietro le vetrate del salotto. A mano a mano che mi avvicino a lui, dà sempre più in escandescenze. Lascio la torcia in un posto in cui illumina anche me. Faccio scorrere un po’ la porta di vetro e mi lascio annusare. Gli parlo, gli do un pezzettino di pane e poi un altro ancora. Gli dico: «Ulises, bello, non voglio farti male. Ti ricordi quando ti tiravo il pane dal muro di cinta?». Faccio dei rumori affettuosi che a Hugo piacevano tanto. Alla fine apro di più la porta per sondare le sue intenzioni e gli accarezzo il muso. Quando vedo che scodinzola lo faccio uscire e correre intorno a me e lascio che abbai. Gli do dell’altro pane. Cerco di accarezzarlo e lo accarezzo. Mia madre dall’altra parte mi chiede se va tutto bene. Ulises abbaia in direzione della sua voce. Le chiedo di lanciarmi una bottiglia di latte e cerco un sottovaso per versarcelo. Spezzetto il pane nel latte e quando lo sta mangiando gli accarezzo la testa.

«Ulises, è buono, vero?»

Continua a mangiare con i suoi grandi canini e la sua lingua agile. E quando finisce mi lecca la mano e io gliela passo di nuovo lungo il pelo tanto corto e tanto morbido, sul rilievo delle ossa del cranio e del muso. Mi avvicino alle porte a vetri e lui mi segue. Dentro si sente cattivo odore. Ulises deve averci fatto i suoi bisogni per vari giorni. Con la torcia illumino le pareti in cerca di un interruttore della luce, ma lui avanza deciso lungo il corridoio, entra in una stanza e abbaia rivolto a terra accanto a una libreria. Credo di sapere, da quel poco che ho avuto a che fare con Serafín Delgado, che gli farebbe piacere che mi preoccupassi del suo cane e della sua casa. Trovo un interruttore, ma non funziona. Probabilmente hanno staccato l’elettricità. Punto il fascio di luce sulle piastrelle che annusa Ulises.

«Qui non c’è niente, Uli.»

Davanti alla sua insistenza passo la mano sulla superficie e trovo una fessura in una delle piastrelle, così ci infilo le unghie e la alzo.

«E questa cos’è, una botola?»

Non c’è niente di cui meravigliarsi. Salvo casi eccezionali, come quello di casa mia, in quasi tutte le villette è stata realizzata una botola attraverso cui si scende in cantine fresche dove si conservano bottiglie e arnesi che non entrano in garage e un letto per fare un riposino d’estate. E qui abbiamo quella del vicino, della cui costruzione non ci siamo accorti, anche se magari parte del baccano notturno che abbiamo sopportato per un periodo era dovuto a questo. Illumino verso il basso con la torcia e Uli si precipita giù per le scale. Lo seguo con un po’ di cautela perché in fin dei conti una cantina è sottoterra, non è visibile, diciamo che non è sulla superficie del complesso residenziale, destinata a che niente cambi la sua apparenza, ma sepolta sotto i salotti, le cucine e i bagni, sommersa nella vita dei suoi abitanti, che di tanto in tanto possono aprire la botola e scendere per le scale verso quanto c’è di più remoto nella loro forma di esistenza. A quest’ora già dovrebbe essere stata fatta una mappa del mondo sotterraneo di questa città, dove magari si potrebbe cogliere la vera personalità dei vicini. Alcune cantine sono collegate tra loro da passaggi, per poter entrare in casa del vicino casomai si dimentichi le chiavi o semplicemente come sfoggio di fiducia o perché i bambini corrano e giochino senza i pericoli della strada. Hanno le forme più strane e i colori più diversi e tutti se ne sentono orgogliosi, come dimostra il fatto che te le mostrano alla prima occasione. A loro piace che ti sorprenda quando indicano l’ingresso nascosto degli inferi sotto una poltrona o la bilancia del bagno o un tappeto. Se è già eroico entrare in una casa e imbatterti negli odori, nei gusti, nelle manie e nel passato distribuito qui e là dei proprietari, scendere in cantina implica vedere il luogo nascosto.

Uli mi guida attraverso un labirinto di corridoi inquietante. Non sono lunghi ma intricati, con infinite svolte a destra e a sinistra. Sembra un labirinto per topi della mia stazza e inizia a preoccuparmi il pensiero di non ritrovare l’uscita. Mi preoccupa anche che Uli non sappia dove va. A volte si ferma un istante, e questo mi fa dubitare del suo senso dell’orientamento e mi provoca una certa angoscia. Ho l’impressione che stiamo girando sempre intorno allo stesso punto. È incredibile tutto quello che può succedere in un momento reale per me e inesistente per mia madre, che, per quanto adesso stia pensando a me, non se lo immaginerebbe mai. Entri nella casa accanto, identica alla tua, e ti ritrovi in un labirinto dal quale può essere che tu non esca mai. E se fossi entrato qui senza che nessuno lo sapesse? Per esempio, un pomeriggio sono solo in casa e faccio ciò che ho appena fatto e non trovo l’uscita e resto qui per sempre e non posso andare mai più all’appartamento né vedere Yu. Sarei scomparso come Eduardo. Noi esseri umani possiamo perderci facilmente. Se non potessimo perderci, i labirinti non esisterebbero. Uli si mette ad abbaiare in un modo che mi sorprende.

«Che succede, Uli?» gli chiedo mentre sbuchiamo in una stanza in cui si sente, per dirla in qualche modo, una puzza tremenda. C’è un giaciglio, e sul giaciglio un uomo. Lo illumino bene dall’entrata perché all’inizio mi fa molto schifo avvicinarmi. L’uomo apre un po’ gli occhi.

«Siete già qui?» sussurra.

Uli gli lecca la faccia e scodinzola, e questo mi porta a pensare che si tratti del suo padrone, di Serafín Delgado in persona.

«Serafín Delgado?» chiedo.

«Ci avete messo un sacco, coglioni, a trovarmi», dice con interruzioni imposte da una terribile fatica.

«Serafín, sono il vicino. Si ricorda di me? Il ragazzo della casa accanto.»

«Li hai portati tu?»

«Non ho portato nessuno. Vengo da solo, glielo giuro. Ci siamo solo io e Ulises.»

Mi avvicino con cautela, come se l’odore che emana potesse accoltellarmi.

«Non mi rompere le palle con quella luce», esclama sempre con le stesse interruzioni di cui ho parlato prima.

Uli aspetta seduto e con la lingua penzoloni e sgocciolante, come i cani felici.

Lascio la torcia in un angolo della stanza affinché illumini come se fosse una lampada.

Serafín si lamenta cercando di tirarsi su e questo mi fa pensare che dovrei aiutarlo, cioè che dovrei toccarlo. Do la colpa a mia madre per il fatto di essere tanto schizzinoso. È lei che mi ha fatto così, con la sua mania per gli uomini sbarbati e perché usa spesso le parole «ripugnante», «schifoso» e «puzzolente» riferite alle persone. E do anche la colpa alla domestica per essere così impeccabilmente pulita – salvo quando si tratta di cambiare le lenzuola del mio letto e di stirarmi i vestiti – e per insistere sul fatto che non ha mai visto porcherie peggiori che nelle cucine dei ristoranti, anche i migliori, né sudicioni peggiori dei cuochi, che a volte non si lavano le mani dopo aver urinato. E questo mi ha impedito di godermi appieno i pasti fuori casa, in modo che tutte le fette di pizza che mi sono fatto fuori all’Híper le ho mangiate con la convinzione che il tizio che le impastava fosse stato un attimo prima in bagno tenendoselo in mano. E lo stesso nei bar o nelle salumerie quando cadono nel palmo della mano le fette di prosciutto cotto. In queste occasioni non mi resta che pregare tra me e me che il dipendente non abbia alcuna malattia.

Il suo stato è pietoso. È molto magro, sporco, come già si capiva da lontano, e naturalmente con l’espressione di non essere molto sano di mente.

«E allora, non sono con te?»

«Qui non c’è nessuno a parte noi. Adesso la aiuto ad alzarsi, d’accordo?»

E lo prendo sotto le braccia pensando che dopo questo qualunque bar, cameriere e bagno pubblico mi sembreranno sufficientemente igienici. Riesco a farlo mettere seduto sul giaciglio con i piedi a terra e gli infilo le scarpe.

«Qui fa molto freddo ed è umido», gli dico. «Adesso usciamo, d’accordo? Anche di sopra non c’è nessuno. È sera e siamo soli. Glielo giuro. Ulises non mi avrebbe portato fin qui se avesse visto qualcosa di strano.»

«Sto per morire», dice.

«Ma non sarà qui dentro», replico io.

Con una mano prendo la torcia e l’altro braccio lo metto intorno alla vita del vicino. Seguiamo Ulises, che a volte deve essere richiamato perché non vada troppo in fretta. Alla fine troviamo le scale, la cui salita per Serafín presenta qualche difficoltà, ma ancora conserva la forza sufficiente per chiedermi di chiudere la botola.

«Senza questo sono morto», dice.

Cerco un letto dove farlo distendere. Gli tolgo le scarpe e lo copro con tutto quello che trovo. Sui letti ci sono coperte leggere estive e questo vuol dire che per tutto l’inverno non ha dormito su nessuno di essi. Gli dico che gli porterò qualcosa di caldo. Gli dico che ha bisogno di riprendersi. Gli dico che nessuno ha neanche la minima idea che sia salito al piano di sopra né che prima fosse di sotto, che può stare tranquillo.

«E allora perché tu mi hai trovato?» mi chiede.

«Per caso. Ero preoccupato per Ulises e lui mi ha portato da lei.»

Prendo un mazzo di chiavi ed esco dalla porta come se fossi il padrone di casa. Mia madre è preoccupata. Non sapeva cosa fare vedendomi tardare. È stata anche lei lì lì per saltare il muro di cinta e venire a cercarmi. Ha immaginato che il cane mi avesse ammazzato. È stata mezz’ora carica di angoscia.

«Solo mezz’ora? Mi sono sembrate ore», dico.

In cucina preparo del latte caldo e ci aggiungo miele e limone. Prendo biscotti, cioccolata, delle arance e del pane per Ulises.

«Il vicino è malato. Gli hanno staccato la corrente e non ha né luce né riscaldamento.»

«Poveretto», commenta mia madre. «Pensi che dovrei venire anch’io?»

«Penso di no. E penso che nessuno dovrebbe saperlo. Ha paura di qualcuno.»

«Capisco», dice. «Se ormai è tutto a posto, vado a letto. Domani devo andare a vedere cinque appartamenti.»

«Ah», esclamo. «Ancora con questa storia.»

Devo costringere il vicino a svegliarsi per fargli bere il latte. All’improvviso mi viene in mente che la prima cosa che farò domani è fargli la barba. Metto l’acqua per Uli in un pentolino e gli lascio il pane a terra, così, anche se non ha fame, potrà succhiarlo e mordicchiarlo e non si sentirà abbandonato.

A casa mi faccio una doccia prima di mettermi a letto, semplicemente per separare gli ambienti. E quando al mattino la domestica mi scuote e mi sveglia con le sue solite frasi ingiuriose, mi torna in mente tutta la faccenda della casa accanto, una faccenda terrorizzante propria dell’oscurità, che alla luce del giorno non risulta altro che penosa. Ho ancora la possibilità di non farmi coinvolgere ulteriormente, di dimenticare, ma la realtà è che a parte vedermi con Yu non ho di meglio da fare.

Nonostante sia sabato, mia madre ha già iniziato il suo periplo di case in vendita. È tranquillizzante e preoccupante allo stesso tempo che alimenti questa fantasia con tanta forza.

Faccio in modo che nessuno mi veda entrare nella casa accanto, anche se è una cosa di cui non si può essere mai sicuri nella città più pettegola del mondo. Può sempre esserci qualcuno che sta guardando da una finestra, le finestre sono molte e, secondo i dettami dell’architettura moderna, molto grandi, in modo che anche se non si vuole guardare si vede. Io per esempio non ho alcun interesse a contemplare la famiglia di fronte completamente nuda eppure, mio malgrado, li vedo. Il padre panzone, la madre tettona e i figli scheletrici. All’inizio mi sorprendevo tutte le volte che mi comparivano davanti, perché non avrei mai voluto vedere i seni enormi di quella signora né tutto quello che sono stato costretto a vedere. Adesso però cerco di fare in modo che facciano parte dei paesaggi indifferenti, di quelli che non mi fanno né caldo né freddo, come l’autobus che passa o la fabbrica di gesso dall’altro lato dell’autostrada. Mia madre dice che devono essere nudisti o qualcosa del genere e che non hanno problemi a mostrarsi svestiti. Per questo non si prendono il disturbo di tirare le tende né di coprirsi quando sono in casa. Per loro mettersi comodi è togliersi tutto. Spero solo che non mi invitino mai a casa loro per non dovermi sedere sulle loro sedie.

Arrivo provvisto di caffellatte per Serafín e di mezza tortilla di patate che è avanzata ieri sera e di altro pane per Ulises. Serafín è sempre a letto, anche se è sveglio.

Gli dico: «Le faccio la barba, poi pulisco la casa e accendo il camino. Poi lei si fa la doccia, si cambia i vestiti e lunedì faremo riallacciare la corrente».

«Io non posso uscire di qui, mi dispiace.»

«Bene, ci andrò io. Non c’è problema.»

«E se ti seguono? Non hai idea di quanto sia pericoloso.»

«Mi porterò anche Ulises per farlo correre un po’ sul sentiero.»

«Ulises non esce di qui. Non fare il furbo.»

«Va bene. Va bene», dico. «Voglio solo aiutare.»

«E hai l’abitudine di aiutare così per niente?»

«Una volta l’ho aiutata a tirare fuori delle casse dalla macchina e a metterle qui.»

«Ti avrò pagato, no?»

«Sì, mi ha pagato. Ma adesso non voglio che mi paghi. Non voglio niente, davvero.»

«In questo modo non diventerai ricco.»

Se sapessi come diventare ricco, lo farei. Se sapessi come sistemare la vita di mia madre, la sistemerei. Se sapessi come entrare nell’industria del cinema, ci entrerei. L’unica cosa che mi viene in mente adesso è dare una mano qui. Lo faccio per Ulises, perché ha bisogno di un padrone e di una casa.

«Voglio che tu sappia che periodicamente mi nascondo. Faccio finta di partire per un viaggio, ma in realtà mi nascondo in cantina. Quella costruzione, parlo del labirinto, è stata l’idea migliore della mia vita. Sono venuti a cercarmi già varie volte. Hanno messo sottosopra tutta la casa, ma non mi hanno trovato. A volte ho assunto qualcuno perché venisse a pulire la villetta e a dare da mangiare a Ulises. In altri casi ero io stesso che salivo di notte a occuparmi di queste cose.»

«È terribile vivere così», dico.

«È ancora più terribile essere morto. Anche se in questi ultimi giorni non mi sarebbe importato di morire. Non avevo più voglia di uscire. Mi manca stare laggiù senza paura.»

«Questo non può essere. È come se lei si fosse autosequestrato. Non è sano.»

«Ah, no? E cos’è sano, fare jogging e non fumare? Credi che quelli non diventino pazzi?»

È evidente che mi trovo davanti un chiaro caso di alienazione mentale. Penso che magari Serafín sia stato rinchiuso in qualche ospedale psichiatrico e che sia dei medici e delle infermiere che ha paura, che immagina lo perseguitino.

«Ragazzo, meno sai, meglio è per te. Pensa quello che vuoi.»

Faccio uscire Uli in giardino, inizio a pulire e guardo quello che lascio pulito con un piacere tale che immagino che aver osservato la domestica per tante ore mi abbia lasciato un’impronta molto profonda, una specie di scienza della pulizia che fa sì che senza averlo mai fatto io sappia rendere i pavimenti immacolati, i vetri lucidi e i bagni e la cucina come specchi. Solo perché il povero Serafín non è in condizioni; se lo fosse, gli chiederei di comprare prodotti al profumo di pino e limone. Gli dico che gli lascerò qualcosa da mangiare perché forse non potrò venire fino a domani.

«Per favore, non si nasconda, non verrà nessuno. Cerchi di farsi una doccia, le farà bene.»

«Se credi di stare facendo un gesto caritatevole, ti sbagli di grosso. Non sarai uno di quelli che vogliono farsi preti?»

Che idea completamente sbagliata ho avuto del mio vicino, finora. Una di quelle idee che si hanno senza volerle avere, senza mettercisi mai a pensare, di quelle che porta il vento così come porta fili di paglia, polline e i granelli di sabbia che ti si infilano negli occhi. Serafín Delgado era l’uomo d’affari generoso che viaggia in continuazione, che fa la ristrutturazione più imponente di tutto il complesso residenziale e che sgancia cinquanta euro a un ragazzino che lo ha aiutato a tirare fuori delle casse dalla macchina. E adesso si scopre che è un vecchio meschino e spaventato.

Voglio proporre a Yu di passare la notte insieme. Potremmo fare l’amore fino a crollare esausti e addormentarci. Mi entusiasma questa prospettiva. Potremmo cenare nei dintorni o, meglio ancora, se accetta, potrei scendere in un baleno a comprare qualunque cosa e non dovremmo più uscire fino al giorno dopo quando lei lo volesse: io non ho fretta. La mia unica responsabilità, ora come ora, è quella del vicino e del cane, alla quale nessuno mi costringe, da cui posso prescindere quando voglio. In realtà non è un’autentica responsabilità. Come tutto in questa città, sembra una prova generale della reale responsabilità. Come gli studi sembravano una prova generale di quelli veri e il lavoro alla videoteca un’approssimazione infantile di quello dei tizi in giacca e cravatta e accessori di marca. Come neanche le conferenze di Alien sono conferenze autentiche, rigorose e documentate. E forse è per questo che mi piacciono tanto, perché sono molto educato all’inautentico.

Arrivo prima di Yu, e questo mi sconforta un po’. Mi piace, quando entro, che mi venga incontro per ricevermi da dovunque si trovi, perché in quel momento mi invade una grande ondata di lussuria e non penso più a nient’altro se non a mangiarmela sotto la luce del lampadario che pende dal soffitto illuminando il grande spettacolo del mio banchetto. Al solo pensiero mi riscaldo abbastanza, perciò aspetto con un’ansia smisurata che si senta il rumore della serratura. Quel piccolo rumore che apre la porta del paradiso. Il paradiso è nel corpo di Yu. Anche se sembra che io abbia imparato poco, ho imparato che in fondo tutto ciò che non abbiamo e che desideriamo è in un altro corpo, nel quale sprofondo perché tutto ciò che in quella persona non sono io e posso provare con la bocca mi produce un grande piacere.

Sto più o meno un’ora così, mezzo disperato, finché finalmente lei non compare preceduta dal meraviglioso suono della chiave. Si toglie il cappotto, il cappellino, i guanti. Resta con un maglione e una gonna neri su calze anch’esse nere. I capelli raccolti in una coda di cavallo lucida. Mi guarda da quel suo mondo lontano dove vivono rinchiusi i suoi occhi. Le chiedo di spogliarsi. Voglio vedere come resta nuda. Sono così eccitato che credo di essere sul punto di sentirmi male. Mi dice che non può perché deve andarsene subito.

«Come sarebbe a dire che devi andartene?»

«Sì, è venuto mio marito da Taiwan.»

Svanisce il delirio. La carne torna al suo stato naturale. Il sangue si calma. Ricevo i suoi baci, ai quali rispondo quasi meccanicamente. Si è seduta sopra di me e mi abbraccia il collo.

«Non lo aspettavo. È stata una sorpresa. Sono scappata solo un attimo per dirtelo. Vuole che torni a casa con lui.»

«E che farai?»

«Non lo so. C’è la questione dei soldi. Dice che non me ne manderà più. Io non ho soldi. Non ho lavoro. Cosa posso fare?»

«Per il lavoro non c’è problema, possiamo trovare qualunque cosa.»

«Sì, ma c’è un fatto, sai? Non voglio fare un lavoro qualunque. Non sarei felice.»

«Già», dico pensando che sarà molto peggio perderla che non averla mai incontrata.

«Lui partirà fra due giorni», aggiunge. «Io fra quindici, alla fine del mese. Fino allora abbiamo tempo di vederci.»

Faccio il caffè e lo beviamo in silenzio, seduti sul divano davanti a un televisore invisibile. Penso alla grande gabbia degli uccelli, alla serra e allo stagno, ai pesci dello stagno, alla luna che si riflette nello stagno, ai rami degli alberi che scuriscono l’acqua, all’acqua dorata dal sole.

«A cosa pensi?» mi chiede.

«A te.»

Ci troviamo un po’ a disagio così, insieme e vestiti, e questo mi obbliga a spegnere il riscaldamento e a metterle il cappotto, il cappello e i guanti. Le sistemo bene la coda di cavallo fuori dal cappotto. Mi fermo qualche secondo a osservare la mia opera conclusa e usciamo, percorriamo il labirinto di porte come la nostra, scendiamo le scale e ci ritroviamo già nel mondo dove c’è un posto a cui appartiene Yu e un altro molto più vago, più impreciso, al quale si suppone che appartenga io.

Ritorno a questo luogo miserabile completamente sfiancato, in totale solitudine. Strade estranee, semafori estranei, una civiltà estranea. Prima di uscire dall’autostrada con la macchina, passo davanti all’enorme banda di quindicenni che scende dall’autobus del complesso residenziale. Non hanno ancora subito un numero sufficiente di delusioni e magari non le subiranno mai, perché non tutti vengono scacciati dal paradiso. Se ne parla molto, ma solo alcuni di noi sentono il calcio nel sedere. Anche Serafín Delgado deve averlo sentito, forse è questo che abbiamo in comune senza assomigliarci in niente in assoluto.

Chiedo a mia madre com’è andata con le case e dice che una non è male. Duecento metri, quinto piano affacciato sull’esterno, cinque stanze, di fronte al parco del Retiro, palazzo signorile, garage.

«Sembra buona, no?» commento.

«Magari ce ne sono altre migliori che non ho ancora visto», replica. «Se esiste questa, devono essercene necessariamente altre uguali e migliori. Non vorrei prendere una decisione affrettata.»

Perché preoccuparsi per la storia di mia madre? Non c’è niente da fare. Si è lanciata in un’impresa impossibile perché non esiste qualcosa che non sia migliorabile. L’arredamento non migliorabile non esiste e neppure i sogni non migliorabili. Le chiedo se ha notato movimento nella casa accanto.

«Si sente il cane in giardino. Nient’altro», dice.

Apro il cancello ed entro in quello del vicino per distrarmi e non pensare a Yu. Ulises arriva dal giardino correndo come un pazzo, mi fa cadere a terra e mi lecca la faccia. Voglio bene a questo cane. Prima di occuparmi del padrone gli cambio l’acqua nel pentolino e tiro fuori dalla tasca delle crocchette che ho preso dal ripiano della mia cucina e che ho avvolto in un foglio di alluminio.

«Sono di prosciutto, amico mio», gli dico.

Serafín non è nel letto, che è rifatto perfettamente, di nuovo con il copriletto estivo. Non c’è neanche traccia che sia stato qui. Ha fatto sparire persino il rasoio. Ma ha avuto l’accortezza di lasciare aperta la porta che dà sul giardino per Ulises. Apro la botola e Uli è indeciso se continuare con le crocchette o scendere giù per le scale. Opta per la seconda ipotesi e questo mi dà conferma del suo valore canino. Accendo la torcia e inizia il percorso, umido, buio, spiazzante. Devo tenere Ulises stretto al guinzaglio affinché non mi lasci solo e questo risulta molto scomodo perché devo procedere mezzo chinato. Quando arriviamo alla stanzetta mi fanno male i reni. Questa volta Serafín è sceso provvisto di torce e candele, che ha acceso, creando un ambiente che colpisce.

«Serafín, tutto questo fa paura. Non se ne rende conto?»

«Che ne sai tu della paura?»

«Ma perché la cerca, la gente che la cerca?»

«Voglio chiederti un favore, amico mio», dice. «Sarai disposto a prenderti cura del cane se mi succede qualcosa?»

«Ho sempre voluto avere un cane. Questa è la pura verità. Ma non sarà il suo perché non le succederà niente.»

«Ah! Quanto mi fai ridere. Pensi di sapere tutto. Quasi non mi conosci e credi di poter dire la tua su quello che mi succede, non è vero?»

«Be’, non lo so. È che mi sembra esagerato.»

«Non è neanche abbastanza, stanne certo.»

«Ho portato delle crocchette. Le potremmo mangiare di sopra. Adesso siamo al sicuro.»

«Non mi arrischio», dice Serafín, «perché anche se dopo lasceremo tutto sistemato e ci sembrerà di aver cancellato tutte le tracce, ne resterà sempre qualcuna. Si trova sempre il particolare che tradisce.»

«Perché non se ne va in un’altra città, in un altro paese?» gli suggerisco. «Potrebbe cambiare identità e vivere come tutti.»

«Sono più al sicuro qui, sottoterra, dove non incontro nessuno. Tieni conto che noi esseri umani dobbiamo mangiare, dormire, vestirci, parlare e che siamo tutti diversi. Lasciamo tracce della nostra esistenza qui e là. Ci si scopre facilmente.»

«Non sempre», replico. «Un mio amico è scomparso e non c’è modo di ritrovarlo. È svanito.»

«Perché è sparito veramente. Non ci sono indizi perché non esiste più», dice.

Serafín non mente. Gli credo. Ho appena perso Eduardo. Anche se solo per un attimo, provo un grande sconforto e sento la perdita della sua vita nella mia vita passata e anche nel futuro, perché ormai tutto quello che succederà da qui in avanti succederà senza di lui.

Apparentemente non cambierà nulla. Nel precipitarsi degli eventi quotidiani non ci sarà assenza. Ma ci sarà nel complesso di ciò che so. Nella Grande Memoria. Nella mente del tempo.

«Sono stanco di discutere», dice Serafín. «Andiamo di sopra. So che è l’inizio della fine.»

«Lunedì mattina andrò a far riallacciare la corrente affinché stia più comodo quaggiù, se è questo che vuole.»

Spegniamo le candele e raccogliamo le torce. Non devo più aiutarlo a camminare, cosa di cui sono felice perché, tra i numerosi segnali che effonde, il più potente è quello di non essersi fatto la doccia come gli avevo consigliato.

Per quanto tenti di concentrarmi, non sono capace di registrare le svolte a destra e a sinistra. Mi perdo. Una volta fuori riesco a convincerlo a farsi una doccia mentre io preparo la tavola. Accendo lo scaldabagno a gas e lo accompagno fino alla porta del bagno. Gli prometto che i vestiti che si toglierà li butterò in un contenitore lontano dalla nostra strada. Ulises è contento.

«Un giorno di questi faccio il bagno anche a te», gli dico. E mi viene in mente di portarlo fuori per fargli fare un giro.

«Non puoi uscire», gli dico. «Il tuo padrone non vuole. Mi dispiace, bello.»

Quando Serafín si siede a tavola con i capelli bagnati e pettinati e profumato di colonia sembra che il mondo cominci a mettersi a posto. Si alza e tira fuori una bottiglia di vino da qualche parte. Mi chiede cosa faccio, a parte mettere lui in pericolo di vita. Gli rispondo che sono pazzamente innamorato di una ragazza che si chiama Yu.

«Con quel nome sarà orientale», dice.

«Adesso deve tornare a Taiwan con suo marito. È venuto a cercarla. Perché le cose belle sono impossibili?»

«Non posso fidarmi di te. Hai sofferto poco. Non sai niente», ribatte.

«Si sbaglia, soffro molto. Mi fa disperare l’idea che mi lasci.»

«Parlo della sofferenza reale, di quella cattiva.»

«Non mi era mai venuto in mente che ci fosse una sofferenza buona e una cattiva.»

«E allora pensaci, hai ancora tempo.»

Dopo cena, eliminiamo tutte le tracce dei segni vitali con grande cura. Deve sembrare che in casa non viva nessuno, che qualcuno venga a pulirla e a portare fuori il cane, punto e basta.

«Adesso ha un po’ meno paura?» chiedo mentre lego i sacchetti con gli indumenti e i rimasugli che bisogna buttare.

«Ho accettato l’idea che non ne uscirò vivo. Resterò qui dentro un altro po’. A tempo debito ti ringrazierò, non prima.»

Mi dirigo verso i cassonetti alla fine della strada, non più lontano. Non appena sento il fresco dell’aria e vedo la luna e le nuvole che ci passano davanti e i profili della notte che sorgono dal firmamento più vicino e da quello che si insinua tra le costruzioni e gli alberi e le anime erranti, la tragedia di non avere niente e che Yu e l’appartamento siano un miraggio si fa solida come una pietra.

Non m’importa di Serafín né di Ulises né di mia madre, né dei miei figli futuri, né di tutta quella gente che mi ispira compassione, perché non fanno parte dell’acqua che devo bere, né del cibo che devo mangiare, né dei sogni che devo fare. Al contrario, Yu mi riempie la bocca, gli occhi, tutto il corpo.

Mia madre mi rimprovera di passare più tempo con il vicino che con lei. Le ricordo che nessuno deve sapere che il vicino è in casa sua, che tutto deve continuare come tutte quelle volte in cui pensavamo che fosse in viaggio.

«Tienilo presente», le dico.

«A proposito», riprende, «hai pensato alla storia dello studio dentistico? Ovvio, non c’è niente a cui pensare, non hai alternative. Non appena lui me lo dirà, inizierai ad andarci. Con il tempo potresti prendere il mio posto. Un’altra cosa», aggiunge, «ha chiamato il Veterinario. Deve andare a vedere un altro corpo che potrebbe essere quello di Eduardo. Che incubo, non è vero?»

«Sì», rispondo.

«Credo che non dovrebbe raccontarci proprio tutto. Non ottiene niente facendo angosciare anche noi. Non possiamo fare nulla.»

Penso che la verità è che l’indagine sulla sua scomparsa procede molto lentamente e invece altre cose vanno troppo veloce.

«Pensa a quanto tempo ci sto mettendo per trovare una casa. Di questo passo non mi sposerò mai», riprende lei.

«Sì, è strano», commento io.